Invel – la Heimatlosigkeit, dallo spaesamento al dolore di Giovanni Nadiani
un ricordo
di Gianni Iasimone
Giovanni Nadiani, è stato – è – poeta, scrittore, traduttore, linguista. È stato anche docente universitario, germanista e editore, ma soprattutto cantore e fine osservatore del dialetto romagnolo, e molto altro. Il prossimo 11 marzo compirebbe 69 anni, quindi ne aveva poco più di 62 quando se n’è andato per sempre il 27 luglio del 2016, dopo una implacabile, dolorosa malattia. La sua prematura scomparsa ha lasciato un grande vuoto, non solo di affetti, nella sua Birandola di Reda, dove viveva, piccolo centro a “ridosso dell’A14” tra Cassanigo di Cotignola, in provincia di Ravenna, dov’era nato l’11 marzo del ‘54, e Faenza, dove nel 1985 fu tra i fondatori della rivista Tratti insieme al compianto amico scrittore e editore Guido Leotta e della successiva rinomata casa editrice Mobydick; a Forlì, dove era docente presso il Dipartimento di Interpretazione e Traduzione (Sitlec) dell’Università di Bologna; nei tanti amici e studiosi italiani e di “ altre lingue” che molto debbono alla sua vita e alla sua opera; e soprattutto nella sua Romagna che tanto efficacemente ha cantato in versi. Versi ora aspri e ironici ora lirici, nella sua lingua “bastarda” – sempre attento a rimanere lontano dalla retorica e dal folklorico – lingua, “inter-lingua”, dell’alterità e di una geografia ormai distrutta, degradata, “mutata” in un non luogo, nessun altrove, invel, appunto…
Muovendoci da subito in questa prospettiva, a proposito della poesia di Pascoli delle origini – Myricae, per intenderci – infatti, a un certo punto della sua vita umana e artistica (è il 2013) un quasi sessantenne Giovanni Nadiani “confessa” e dice di se stesso: “Non si tratta di meri versi descrittivi o evocativi: lui, ragazzino dell’ancora immota campagna faentina, l’ha sentito davvero lo scampanellare tremulo di cicale, lui s’è perso coi pantaloni corti tra le siepi di melograno e biancospino e tamerici; e il palpito delle trebbiatrici sollevanti nugoli di pula l’ha ancora negli occhi, e negli orecchi l’angelus argentino. Lui sente ancora nei peli grigi del naso l’odore inconfondibile dei fieni allor allor falciati in cui si rotolava scoprendo qualcosa di simile al sesso mentre si beava dei trilli dei grilli, dell’inesausto poetare delle ranocchie, girini sfuggiti alla sua caccia (…), dell’interminato brusio tentennante, inquietante dei pioppi annuncianti un temporale (…). Sì, non erano semplice letteratura quei versi (…) erano la sua vita, erano i suoi giorni, erano il suo posto, la sua casa, la sua melodia diurna e notturna (da Giovanni Nadiani, La pipa di Tucholsky, Homeless Book 2015).
Ecco, Giovanni, Zvan, tutte queste cose le ha sentite, vissute, in pieno boom economico, e di lì a poco – sotto i suoi occhi – tutte quelle cose, insieme alle lucciole, scompariranno dalla sua campagna e non solo. Ma lui le fa diventare lingua, in trasformazione, sì, e anche alter-ego della sua scrittura, della sua poesia. O forse, è lui l’alter-ego della sua attenta sensibile scrittura. Senza scomodare categorie psicoanalitiche potremmo dire – ora che “la morte rende totalità” – che Giovanni ha vissuto una vita di inter-relazione linguistica, e al contempo di relazione con il dolore. Si è fatto – si fa – “tramite della relazione critica (contradditoria) tra il soggetto e il mondo”. Con il suo dolore, autentico, “fino a farlo passare per il corpo, rimuginarlo e restituirlo in forma di poesia, la somma di voce e linguaggio, linguaggio e voce” (Simone Giusti, dalla prefazione a G.N., Il brusio delle cose, Mobydick 2014). Fino a “diventare la lingua che ancora non sa perché ancora non si sa”.
Senza considerare che non è “possibile comprendere veramente la poesia di Nadiani se non si è sensibili allo sforzo doloroso con cui il poeta, per poter scrivere in una lingua determinata, si è dovuto liberare della naturale appartenenza a quella lingua” (Rocco Ronchi, dalla prefazione a G.N., Sens, Pazzini 2000).
È ancora Giovanni che parla di sé: “quei versi potrebbero costituire – e forse costituiscono – il primo manifesto della Heimatlosigkeit, dello spaesamento interiore, linguistico e culturale, ma potrebbero essere – e forse lo sono – anche puro dolore fisico, in cui da lì a poco sarebbe stato sbattuto dal vortice della Grande Trasformazione (…) ancora perdurante, quando avrebbe iniziato ad abbozzare qualche verso sbilenco in lingua sconfitta”. Tutte le parole, le immagini della scrittura di Nadiani, i primi poemetti e poi quelle dell’ultimo doloroso periodo della sua breve e intensa vita, sempre ci riportano allo spaesamento quotidiano, personale e globale: “Era già tutto lì: il suo esser forestiero a casa sua; il suo destino di dover vagare per un mondo altro; il suo certo sapere di un scorpione sotto ogni sasso: la precarietà, l’insufficienza e la fugacità dell’esistenza. Tutto in quella domanda, che resta ancora e sempre senza risposta: dov’ero?” (G.N., La pipa di Tucholsky, Homeless Book 2015).
In una campagna ormai smembrata, “trafitta da viadotti e palafitte industriali”, compaiono relitti di ogni genere, fino al “vecchio aratro-reperto abbandonato dai buoi districarsi come un lombrico nella gleba rinsecchita della tradizione – e’ nostar scorar l’è e’ ritrat de’ / nostar ste un bigat pers trama al terb / sfrisedi avalnedi da no i su padron un / caraton d’pisgh scvadré tra di cùdal sech (il nostro dire è il ritratto del / nostro stare un verme smarrito / tra i campi / sfregiati avvelenati da noi / loro padroni uno / scheletro di filari squadrati tra zolle secche (“Dmenga” da Feriae, Marsilio 1999) e rompere (quindi) con la tradizione regionale, farsi lingua nuova, la lingua che più non si sa, per afferrare e affermare in qualche modo lo sfregio, la lacerazione, la frammentazione inferti (…) alla Terra e all’Umano”.
Ecco, Govanni Nadiani, senza timore di essere smentiti, per questi e altri temi non secondari, per lo sfolgorante significato complessivo del suo discorso poetico, ha lasciato un grande vuoto nel mondo culturale italico sempre più distratto e “coatto”, parafrasando non a caso Pier Paolo Pasolini, a fronte di un potere dei consumi che ricrea e deforma la coscienza del popolo, “fino a una irreversibile degradazione”. E, perciò, per la sua “irredimibile” mancanza, credo sia giusto riproporre la sua opera – che pure viene fatto nella sua Romagna –, ricordare la sua figura. Basterebbe soffermarsi, appunto, sul tema di invel, filo conduttore della poetica e dell’esistenza di Giovanni Nadiani, non solo con una riflessione critica. Forse con una meditazione, o una conversazione a più voci. Con le sue parole dure e struggenti, lucide e folgoranti, i suoi versi in stile “cabaret”, la sua stessa voce tratta dalle tante sue serate in zir par la Romagna alle quali Giovanni aderiva con entusiasmo e disponibilità, una “disposizione” autentica che non gli ha allungato la vita ma per la quale chiunque l’abbia conosciuto lo ricorderà per sempre.
©Gianni Iasimone
Giovanni Nadiani
Da: ANMARCURD, L’arcolaio, 2015
NÓ
nó ch’a fasen i cvel
sèmpar in freza
pinsènd ch’e’vnirà e’ su dè
ch’a putren lavuré
cum ch’u s’dév
cun tota la chèlma ch’u i vô
par fȅ i cvel fȅt ben…
nó a n‘s ‘n ‘adasen brisa
che chi cvel ch’ a lè
fȅt in prisia e furia
l’era e’ masum
ch’a putegna fȅ
adȅs ch’u s’è fat têrd
l’è bur
e a ngn’ ariven pio dri
nè cun la fôrza
ch’a j aven pèrs
e gnânch cun i dè
ch’a j aven finì
par nȍ scòrar de’ sens
d’fȅ chi cvel
ch’a n’l avden piò invel…
noi che facciamo le cose / sempre in fretta / pensando che verrà il giorno / in cui potremo lavorare come si deve / con tutta la calma che ci vuole / per fare le cose fatte bene / noi non ci accorgiamo / che quelle cose lì / fatte in fretta e furia / erano il massimo / che potevamo fare / ora che si è fatto tardi / è buio / e non ci arriviamo più / né con la forza / che abbiamo perso / e nemmeno coi giorni / che abbiamo finito / per non parlare del senso / di fare quelle cose / che non lo vediamo più da nessuna parte…