• Anna Maria Curci
  • Il Network
  • Informativa

Lettere migranti

Lettere migranti

Archivi della categoria: Racconti

Omaggio a Danilo Kiš (di Anna Maria Curci, Cristina Polli, Patrizia Sardisco)

22 lunedì Feb 2021

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, anniversari, Lettere migranti, letture, Racconti

≈ 2 commenti

Tag

Anna Maria Curci, anniversari, Cristina Polli, Danilo Kiš, Il liuto e le cicatrici, letteratura, Omaggio, Patrizia Sardisco

Danilo Kiš, foto di Maristela Veličković, da qui

Oggi, 22 febbraio 2021, Danilo Kiš avrebbe compiuto 86 anni. Il nostro omaggio a un autore che abbiamo conosciuto grazie alla proposta di Giorgio Galli del libro Il liuto e le cicatrici per l’iniziativa “Aperitivo con libro” si manifesta qui con i nostri appunti di lettura.

Danilo Kiš, Il liuto e le cicatrici. Traduzione di  Dunja Badnjević, Adelphi Edizioni 2014

In Balcanica. Viaggio nel sud-est europeo attraverso la letteratura contemporanea[1], Diego Zandel presenta sulla stessa pagina Alexandar Tišma e Danilo Kiš, entrambi nati nella Vojvodina, regione sul confine tra Serbia e Ungheria. Kiš nasce a Subotica nel 1935, da padre ebreo ungherese e madre montenegrina. In un’intervista a Fridrik Ranfsson sottolinea il duplice volto delle proprie origini. Stare al confine, vivere in più lingue, sarà una costante della sua vita, come quella di tanti altri scrittori che legge, traduce e che appariranno nelle sue opere. Dopo un’infanzia e un’adolescenza tra Ungheria e Montenegro, verso i vent’anni giunge a Belgrado, dove compie i suoi studi letterari, laureandosi nel 1958. A partire dagli anni ’60 è lettore di lingua serbo-croata a Strasburgo, poi a Bordeaux e infine a Lille. Dal 1979 fino alla sua morte nel 1989 vive a Parigi.
Il trauma della scomparsa del padre – deportato ad Auschwitz e letteralmente scomparso – è presente già nel primo romanzo, che Kiš scrive nel 1960, a venticinque anni. Si tratta di Salmo 44, che la casa editrice Adelphi, che detiene i diritti per le sue opere, ancora non pubblica. La protagonista del romanzo, Marija, può essere considerata un alter ego dell’autore. Del romanzo sono stati tradotti e pubblicati estratti, insieme a Novi Sad, I giorni freddi di Alexandar Tišma, dalla casa editrice di Lugano ADV.
Di cultura raffinatissima, è inviso ai detentori del potere e ai neonazionalisti, come lo scrittore Limonov, fondatore del partito nazionalista bolscevico, che si riferisce a lui usando l’espressione “lo sporco Kiš”.
Tradotto da Dunja Badnjević, anch’ella scrittrice (esordisce con il romanzo L’isola nuda, Bollati Boringhieri 2008) e traduttrice, fra l’altro, del romanzo Il ponte sulla Drina di Ivo Andrić, Il liuto e le cicatrici di Danilo Kiš raccoglie sei narrazioni (una delle quali dà il titolo alla raccolta, titolo scelto dalla curatrice Mirjana Miočinović, ex moglie dell’autore), seguite dal breve scritto A e B. I racconti, ritrovati tra i manoscritti di Kiš, sono stati scritti tra il 1980 e il 1986. Alcuni di essi avrebbero dovuto far parte dell’opera Enciclopedia dei morti e a essi sono collegati, ché di morti improvvise e annunciate, subitanee e preparate si scrive, di morti per risalire alla vita, a singole vicende narrate e dipanate all’indietro a partire dalla morte, oppure tendenti a quell’evento conclusivo. Emergono eventi passati e luoghi cancellati alla vista e alla memoria, emergono exempla di una bellezza strappata all’oblio: Ödön von Horváth e Endre Ady in Il senza patria, Piotr Rawicz in Jurij Golec, il protagonista del racconto Il poeta, il protagonista e il narratore in Il maratoneta e il giudice di gara, Ivo Andrić in Il debito: vite spezzate da regimi totalitari, prigionie insensate, dal controllo asfissiante. La letteratura interviene con una verità strappata al silenzio e alle lacerazioni, così come ai silenzi della storia: questo afferma – quasi una dichiarazione di poetica dell’autore –  il signor Nikola in Il liuto e le cicatrici:

Lo scrittore [..] deve osservare la vita nella sua totalità. Deve far intravedere il grande tema della morte perché l’uomo sia meno superbo, meno egoista, meno malevolo e, d’altra parte, deve dare un senso alla vita. L’arte è l’equilibrio di queste due visioni contraddittorie. Il dovere dell’uomo, soprattutto dello scrittore – lei dirà che parlo da persona anziana – è di andarsene da questo mondo lasciando dietro di sé non l’opera, tutto è opera, ma un po’ di bontà, un po’ di conoscenza. Ogni parola scritta è come l’atto della creazione. (p. 78)

Il senza patria può essere letto come tappa rilevante di un percorso pluriennale e a molte voci sulla lingua come Heimat, come terra natia. Al centro del racconto gli ultimi giorni di Ödön von Horváth, anche lui scrittore danubiano, anche lui decisamente critico non solo con sé stesso come poeta (entrambi cercarono di cancellare tracce della giovanile attività poetica; di Kiš in italiano possiamo leggere  in poesia solo quello che troviamo nel volume, a cura di Stevka Smitran, Antologia della poesia dell’ex Jugoslavia, ed. Noubs, Chieti, 1996), bensì anche nei confronti di un regime che manovra le leve del nazionalismo, dando fiato alle tromba dell’ideologia della “comunità popolare”. C’è, in un sapiente sistema di rimandi, anche il comune interesse – una passione giovanile alla quale si tiene fede, proprio perché controcorrente, proprio perché bersaglio degli ultranazionalisti di turno – per il poeta Endre Ady, di cui Kiš tradusse dall’ungherese al serbo-croato le poesie[2]. Colpisce la conoscenza dei dettagli della vita e delle frequentazioni di Horváth (che nel racconto prende il nome di Egon von Németh) colpisce, ancora di più, la struttura architettonica del racconto, composto da ventisei paragrafi, prevalentemente brevi e tutti straordinariamente densi.
Il debito, che racconta gli ultimi momenti di Ivo Andrić, autore di poesie e romanzi, tra i quali il celebre Il ponte sulla Drina, premio Nobel per la letteratura nel 1961,  è costruito come un inventario. Viene allora da pensare a quanto possa avere influito sull’immaginazione dell’autore la professione del padre di Kiš, ispettore delle ferrovie, addetto alla compilazioni di elenchi di orari e passaggi. I parallelismi qui sono in numero inferiore rispetto alle sorprendenti coincidenze che provengono dalla vita e dagli scritti di Horváth, ma senz’altro molti punti di contatto si ‘annidano’ nella scelta dei “creditori” nei confronti dei quali Andrić narrato da Kiš si sente in debito e le motivazioni che adduce per esprimere, di volta in volta, il debito di riconoscenza. Anche Andrić, come Kiš, conosceva molte lingue, viveva in molte lingue e anch’egli rappresenta, come Kiš e Horváth, un momento rilevante della letteratura mitteleuropea.

Anna Maria Curci

[1] Edizione Novecento Libri, 2018
[2]Nell’intervista menzionata, Kiš racconta di sé: «Ho cominciato a tradurre quando, dopo la guerra, sono tornato in Montenegro con mia madre e mia sorella. Ci arrivammo dopo che mio padre era morto ad Auschwitz. Mi sono ritrovato improvvisamente catapultato nel serbo-croato, lingua che, dopo aver vissuto in Ungheria, non conoscevo bene. Frequentavo una scuola dove si insegnava in serbo-croato, e fu allora che cominciai a pormi alcune domande sulle lingue. Traducevo molto dall’ungherese al serbo-croato, perché mi piaceva. Più tardi, dopo aver appreso il francese e il russo, ho continuato a tradurre per puro divertimento. Nutrivo il sogno di diventare poeta e leggevo tutto quel che potevo trovare sull’arte poetica. Per fortuna tutto questo non durò molto. Scoprii infatti l’opera del poeta ungherese Endre Ady. Mi impegnai a tradurlo e così fui in grado di soddisfare il mio bisogno di scrivere poesia. Ho detto “per fortuna”, perché credo che quando ho qualcosa d’importante da dire la esprimo meglio in prosa che in versi».

Omaggio a Danilo Kiš, “Il maratoneta e il giudice di gara”,  in Il liuto e le cicatrici, Adelphi 2014

Danilo Kiš scrisse “Il maratoneta e il giudice di gara” nell’estate del 1982 a Belgrado. Miriana Miočinović nel “Commento ai testi” ci dice che era previsto per L’enciclopedia dei morti, infatti per due volte era stato inserito nel sommario.
L’aneddoto al centro del racconto proviene da una pluralità di voci e la lettura ci colloca davanti alla loro polifonia, elemento caratteristico dell’arte compositiva di Kiš, e, nello stesso tempo, alla loro stratificazione.  La scrittura di Kiš è una lente sul caleidoscopio della memoria della quale ci restituisce una visione plurale e composita indicando percorsi possibili nella cronologia del ricordo. L’orchestrazione polifonica del racconto e la riscrittura aprono prospettive nella Storia attraverso la cura della memoria di un evento particolare che riguarda la singola persona, la profondità che il momento viene ad assumere è resa tangibile  già nell’incipit dall’attenzione che il primo narratore , il pittore Leonid Šejka, pone alla ricerca delle parole con cui coniuga fatti, emozioni e ricerca artistica.

Nonostante una certa incongruenza cronologica, sono tuttavia convinto di aver sentito raccontare questa storia per la prima volta dal defunto Leonid Šejka, un pittore che si autodefiniva << il classificatore>>. Non so se avesse letto il testo manoscritto di Terc o se invece ne avesse sentito parlare da qualcuno. Credo, comunque, di averne avuto notizia per la prima volta da lui. (Seguiva con lo sguardo i corridori ansimanti che si sorpassavano continuamente, sottoposti a un terribile sforzo fisico e mentale, in un paesaggio immaginario a cui egli dava forma e colore. Tenendo strette tre dita della mano destra, cercava la parola e l’espressione, come a voler saggiare con i polpastrelli, la delicatezza del pigmento o la densità dell’impasto, mentre nella sinistra, immobile, stranamente immobile, come rattrappita, si stava consumando una sigaretta, e intanto la colonnina di cenere rimaneva dritta fino alla fine, intatta). (p. 89)

Leonid Šeika è stato un pittore dell’avanguardia jugoslava. In un articolo[1] molto scorrevole in cui non sfugge l’ammirazione dell’autore, Božidar Stanišić, è agile rintracciare le affinità artistiche e i legami affettivi tra il pittore e Kiš. Stanišić riporta una  osservazione biografo di Šejka, Dejan Đorić, illuminante per la comprensione delle analogie tra i due artisti:

“… Il suo sapere enciclopedico ha determinato lo sviluppo della sua dialettica del fantastico, gli ha permesso di spaziare con facilità tra diverse materie spirituali, lungo l’asse verticale e quello orizzontale della storia, elaborando così idee radicali…”.

Šejka era tra i fondatori del gruppo di avanguardia “Mediala”. Riporto ancora le parole di Stanišic che ci danno l’accesso al significato di questo nome:

All’epoca pochi critici compresero il significato profetico dell’arte del gruppo Mediala, il cui nome deriva dall’unione di due parole: “med” [termine serbo-croato per indicare miele, inteso come toccasana, ma anche come simbolo dell’unione delle diversità] e “ala” [termine che significa drago, divoratore metaforico di arte].

Arte, quindi, come balsamo, cura e ricerca in un dialogo che segnò l’espressione artistica nell’amicizia, nella stima e nella ricerca. Il passo seguente è una chiara testimonianza di reciprocità:

Šejka esercitò un’influenza determinante su Kiš e sul suo concetto di deposito con il suo credo “transit clasificando”, passo catalogando quindi esisto. In occasione della morte dell’amico, Kiš scrisse uno dei suoi saggi più brevi e più belli. Cito l’ultima frase: “Allievo di Berdjaev e degli esistenzialisti, ha attraversato la vita da saggio, da vecchio saggio: riappacificato con la morte e riconciliato con la vita, portando nella sua breve e ricca vita come unico bagaglio la sua ricchezza spirituale, la sua coscienza artistica e la sua infinita bontà da saggio”.

In Allestimento museale, opera del 1956, Šejka ci mette davanti agli occhi un insieme di oggetti che noi vediamo in prospettiva frontale. Vorrei tentare una lettura di questa rappresentazione: si può arrivare a ciò che sta dietro, cioè  simbolicamente scavare nello spazio e nel tempo, soltanto prendendo gli oggetti e spostandoli, ma nel momento in cui questo avverrà gli oggetti ci parleranno, e tutto acquisirà mano a mano nuove dimensioni e indicherà nuovi richiami. Allo stesso modo nel racconto Il maratoneta e il giudice di gara Kiš sovrappone e orchestra le voci offrendoci pagine di intensa immedesimazione nei pensieri, nelle emozioni e nelle speranze del corridore mentre vede il paesaggio mutare lungo il percorso. Il sogno ripercorre la memoria del tragitto, ma poi interviene la decisione inspiegabile del giudice che fa entrare Valdamar D. nell’incubo di un giro di campo senza uscite.
Tornando all’inizio del racconto, ricorderemo senz’altro che Kiš dice che forse Šejka aveva appreso l’aneddoto da Terc, ma come era arrivato nelle pagine di Abram Terc?

Ebbe ancora il tempo di raccontare il sogno all’uomo che era steso accanto a lui in uno dei lager siberiani. Questi, dopo l’improvvisa morte di Valdemar, lo raccontò a un altro prigioniero, oggi anche lui morto da anni. Così il sogno di Valdemar arrivò fino ad Abram Terc, che nelle lettere alla moglie scriveva di ogni cosa. (p. 97)

Tutto è davanti a noi, il racconto dà voce a un deposito di narrazioni che Kiš ha allestito con la sua tecnica mirabile perché ogni cosa ci parlasse e ogni cosa generasse nuova arte, significato e riconciliazione nel balsamo delle sue parole.

Cristina Polli

[1] https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Leonid-Sejka-anima-dell-avanguardia-jugoslava-207556

Su Il liuto e le cicatrici e Jurji Golec
di Patrizia Sardisco

Grazie all’amorevole precisione filologica della curatela di Mirjana Miočinović, sappiamo con certezza che i due racconti Jurji Golec e Il liuto e le cicatrici erano destinati a far parte de L’Enciclopedia dei morti: lo testimonia il ritrovamento dei sommari delle diverse stesure che Kiš ne aveva fatto, e nei quali i due testi figurano fino all’ultima, salvo poi esserne depennati a mano nell’imminenza della pubblicazione.
Ulteriormente, sempre grazie al Commento ai testi della curatrice, possiamo avere conferma della sostanziale continuità tematica e stilistica dei due racconti, accomunati da riflessioni che appaiono cardinali rispetto all’intera opera dello scrittore serbo: la morte, e qui in particolare nel suo rapporto con l’amore; il ruolo della letteratura rispetto al lavoro dell’oblio sulle biografie annullate dalla Storia, della potenza della scrittura come unica vera forma di sopravvivenza.
Scritto nel 1982, Jurji Golec narra gli ultimi giorni di vita di Piotr Rawicz, scrittore e amico, autore della prefazione alla prima edizione francese del romanzo Clessidra di Danilo Kiš, (Sablier, Gallimard, 1982), suicidatosi poco dopo la morte della moglie. In questo breve racconto dichiaratamente autobiografico, dove poco viene ceduto all’ideazione fantastica, e che al contrario si limita soltanto a camuffare alcuni dei nomi propri autentici dietro iniziali o nomi d’invenzione, la vicenda è collocata in una Parigi d’inizio anni ’80, in pieno fermento intellettuale e artistico, tra ambienti accademici in cui è possibile imbattersi in scrittori del calibro di Marguerite Yourcenar, ricevimenti frequentati da pittori e scrittori famosi e famosissimi insieme ai propri editori, e cene alle cui tavole non mancano critici d’arte e stilisti di levatura internazionale. Quasi in posizione laterale, l’io narrante, spiazzato dalla richiesta dell’amico di aiutarlo a procurarsi un’arma per porre fine ai propri giorni, si muove, lungo la manciata di giorni che costituisce il tempo della narrazione, tra la disperazione dell’amico e la scoperta di quanto non sia facile “dare una risposta a un uomo che ti chiede: perché devo vivere?”, nemmeno (o forse soprattutto) se quell’uomo è un sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz.  L’indissolubilità dell’amore viene sancita dal gesto di Jurji, dal suo darsi la morte nella certezza che Dio perdonerà. E la consapevolezza della potenza della scrittura, come un’epifania verrà incontro all’io narrante- Kiš ai funerali dell’amico, quando la vista di un topo morto gli ricorderà una similitudine particolarmente pregnante nel romanzo dell’amico, il ratto “che dal romanzo era arrivato direttamente al cimitero di Montparnasse (…) quel ratto morto uscito vivo dal romanzo”.
Ne Il liuto e le cicatrici, scritto nel 1982, il tema della memoria è sviluppato attraverso un doppio livello temporale e narrativo: il ritorno a Belgrado del protagonista e io narrante, nella seconda metà degli anni ’60, dopo più di due anni di assenza; e una passeggiata notturna in centro città, che conducendo fino al vicolo in cui, ora in rovina, si trova la casa dove aveva vissuto per qualche tempo nel periodo degli studi universitari, apriranno la porta ai ricordi e, sul piano della narrazione, al lungo flashback che dipana e conclude il racconto.
Ospite di un’anziana coppia di profughi russi, il giovane Kiš, allora studente di letteratura, condivide la stessa camera del signor Nikola, prodigo di ascolto e tenerezza paterna tanto quanto la moglie, Marija, lo è di secche chiose e aspri rimproveri rivolti al giovane, accusato di essere “solo un bohémien”. Le cicatrici sul volto e sulle mani di Marija ci appaiono ben presto cicatrici sul cuore, il suo e quello di un intero popolo costretto a vivere da esule, piegato dai lutti, in una condizione mai più riconciliabile con l’esistenza. Il liuto è invece lo strumento che Nikola, ormai completamente sordo, continua a suonare per sé e per il suo giovane ospite, con un sorriso incrollabile quanto la propria speranza nell’uomo e in ciò che oltrepassa la misura breve della sua esistenza, non l’opera in sé, ma quel poco di bontà e di conoscenza che egli avrà saputo lasciare dietro di sé.
Con mirabile eleganza, con una efficacia che mutua da una chiara visione poetica ed esistenziale l’essenzialità pregnante del dettato, Kiš restituisce in queste pagine, a torto ancora troppo sconosciute nel nostro paese, il dolore e l’incanto, la disperazione e la dignità di destini, di vite che nessuno vede né conoscerà mai, di vite che non hanno importanza: vite senza le quali, tuttavia, nessuna Storia potrebbe dispiegare ali né affondare artigli. Vite nelle cui pieghe la bellezza resiste, dentro un manto che splende di riconoscenza.

 

Cristina Polli, Leggere, presentare, dialogare: “Aperitivo con libro”

30 giovedì Lug 2020

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Lettere migranti, letture, Prosa, Racconti, Romanzi

≈ 14 commenti

Tag

Anna Maria Curci, Barbara Evangelista, Cristina Polli, Giorgio Galli, Maurizio Ceccarani, Patrizia Sardisco, Sandra Luigia Rebecchi, Silvia Giannini, Simonetta Bumbi, Viviana Scarinci

“Aperitivo con libro”: i testi presentati da maggio a luglio 2020. Locandina elaborata da Silvia Giannini

Leggere, presentare, dialogare. “Aperitivo con libro”: incontri di letture condivise

Leggere, presentare, dialogare sono le tre azioni chiave svolte dai partecipanti all’iniziativa “Aperitivo con libro”. Ho scelto di usare il termine iniziativa per distaccare la realtà di “Aperitivo con libro” dal concetto di progetto, dal concetto cioè di qualcosa che, proiettato avanti, lanciato nel futuro, abbia obiettivi e finalità nel divenire perseguibili tramite un computo di risorse e strategie, tramite, insomma,  un orientamento strategico preordinato all’azione. L’idea di “Aperitivo con libro” reca in sé, in modo del tutto connaturato, una visione di futuro che si fa strada partendo dal primo dialogo posto in essere, quello tra il lettore e il libro, per poi fortificarsi e trovare alimento nella condivisione.
“Aperitivo con libro”, infatti,  è una realtà viva e non si pone alcuna finalità se non quella della condivisione che passa per la lettura di un libro scelto e per la circolarità degli apporti. I partecipanti si assumono volontariamente l’incarico, e il piacere, di presentare un libro di loro interesse secondo la propria angolazione e interpretazione, proponendo gli snodi e le linee narrative, o gli argomenti, i richiami ai dati storici, culturali e sociali contemporanei all’opera, che sono loro apparsi più salienti.
A questa prima parte segue la condivisione di osservazioni, commenti, domande da parte dei membri del gruppo per generare e intrecciare dialoghi dal basso in cui ognuno può intervenire tramite le proprie conoscenze, le proprie idee e il proprio approccio alla lettura e al discorso. Ne risulta un momento di vera e propria costruzione collettiva della riflessione che, partendo dagli interrogativi individuali, accresce e affina la sensibilità per la divergenza e la complessità narrativa ed è, non di rado, stimolo per ulteriori ricerche e riletture tramite le quali i partecipanti hanno la possibilità di sganciarsi dalla pigrizia del pensiero semplice e dalla sudditanza al mainstream.
L’idea è frutto di un confronto tra Anna Maria Curci, Cristina Polli e Patrizia Sardisco le quali, oltre a condividere l’esperienza della scrittura poetica e della docenza nelle loro diverse realtà, coltivano il gusto della lettura e dell’indagine di una parola che non sia neutra. Occorre specificare la portata non indifferente della sapienza di Anna Maria Curci in qualità di traduttrice in ricerca costante e dedita della verità poetica e di critica letteraria puntuale e sensibile.
Gli incontri, iniziati a metà maggio 2020, si svolgono con cadenza settimanale, la domenica sera alle 19,00, su piattaforma Zoom per permettere la partecipazione a lettori che vivono anche in luoghi molto distanti tra loro e che hanno accolto, e accolgono, l’iniziativa con entusiasmo.
I libri scelti in questi primi tre mesi sono stati prevalentemente testi di narrativa nei suoi vari generi e contaminazioni, ma non è mancato un incontro dedicato a un volume di saggistica, Femminismi futuri Jacobelli 2019, che ha presentato punti di vista filosofici, narratologici e poetici in senso aperto della più recente critica femminista. Le proposte dei titoli possono arrivare sia dai partecipanti che dalle ideatrici con l’unica clausola che non si tratti di opere scritte da chi presenta.

Ora siamo in piena estate e gli incontri sono sospesi per la pausa estiva, riprenderanno il 20 settembre con Le luci di Settembre, di Carlos Ruiz Zafón, omaggio allo scrittore recentemente scomparso, proposto da Anna Maria Curci. Seguirà La vendetta di Oreste di Giovanni Ricciardi, incontro a cura di Cristina Polli e, successivamente, verranno comunicate le altre proposte. Da tenere a mente l’incontro dedicato al romanzo storico di Maria Attanasio, La ragazza di Marsiglia, che si svolgerà in forma di lettura collettiva.
Se vi è venuta voglia di partecipare all’iniziativa, se vi sentite motivati a condividere l’esperienza della lettura, vi diamo appuntamento a settembre! Scriveteci in privato.

Cristina Polli

La mia scala cromatica

17 martedì Dic 2013

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Lettere migranti, Racconti

≈ 6 commenti

Tag

Anna Maria Curci, lettere, Racconti

cerchio_cromatico_Itten

Ho scritto queste righe sette anni fa, quando mia madre ha compiuto ottant’anni. Oggi, nel giorno del suo 87° compleanno, pubblico qui, con i miei auguri alla “Mater” della “Mutter”

La mia scala cromatica

In musica, la scala cromatica procede per semitoni ed è costituita dai dodici suoni. I dodici toni della mia vita sono i dodici colori legati a mia madre.

Azzurro: il fiocco che orna il mio grembiule dell‟asilo e che mi ballonzola davanti mentre percorriamo di corsa il quotidiano tragitto casa-scuola (poi, per la tua, dovrai prendere un tram). Siamo in ritardo, come sempre, non perché ti sia svegliata tardi, ma perché hai già sistemato e organizzato una mole inimmaginabile di cose. Con te, che mi tieni forte per mano, mi sembra di volare sicura nella tramontana del dicembre romano.

Beige: il capolavoro di tua sorella, un golfino fatto a maglia e terminato – fatale hybris – in un giorno di festa. Protagonista di quella – tra le tante storie che racconti a figli e nipoti – che ricorre con maggior frequenza nelle tue affabulazioni, ogni volta con l‟aggiunta di un particolare nuovo e avvincente.

Blu: la borsetta di stoffa, elegantissima e il cappello coordinato che portavi nelle occasioni speciali – matrimoni, prime comunioni… – “perché sono gli accessori che danno il tocco essenziale!” Dimenticavo: blu per te è sempre stato, alla francese, bleu!

Giallo: il colore delle righine di quella tua camicetta alla quale ho fatto la corte per tanti anni. Sagomata sulle sinuosità femminili delle mediterranee anni Cinquanta – seno florido e vitino di vespa – mi è stata quasi sempre preclusa… non certo per tua ingenerosità, ma per… incompatibilità di misure al giro vita! Ma tu, tu come facevi ad averla così sottile? Questo resterà un interrogativo di fondo per me.

Indaco: il completino – casacca a mezze maniche e gonna svasata – di cotone indiano che tu e papà avete regalato alla vostra primogenita ribelle. Tra i tesori che riservava la bottega dello zio, ideale continuatore dell‟attività del nonno paterno, è il romantico “fiore azzurro” della mia esistenza. Misteriosamente scomparso il completo, l‟indaco resta a dominare il mio immaginario.

Lilla: il soprabito dall‟inconfondibile taglio anni Sessanta, che abbinavi a borsetta e cappello blu e che usavi soltanto per le cerimonie. Anche a me hai trasmesso, insieme al latte e alle tue storie, la rigorosa distinzione tra abbigliamento per la festa, per il lavoro – sono figlia d’arte, è lo stesso per entrambe – e per la casa.

Ocra: può un tailleur avere il colore dell‟ocra gialla? Nel tuo guardaroba, sì. Il tailleur ocra aveva la gonna dritta e improbabili bottoni del diametro di quattro centimetri. Lo avevi quella domenica in cui, a mo’ di celebrazione del quartiere in cui eravamo venuti ad abitare, papà ci fotografò di fronte al laghetto dell‟EUR. Il nostro Sessantotto ha il colore del tuo tailleur.

Rosso: più ci penso, più sono convinta che questa è la tua tonalità cromatica dominante, non solo perché papà desiderava che lo indossassi sempre. Il rosso ti dona e rivela il tuo carattere caparbio e pugnace sotto un involucro di apparente arrendevolezza, il rosso accende quella che mi piace chiamare la tua “soave ostinazione”. Il giorno del mio matrimonio avevi un meraviglioso abito rosso e mi hai resa felice per quel rossetto carminio che accendeva le tue labbra.

Tortora: “Se fosse per te, ti vestiresti sempre di questo colore!” Quante volte ti sei sentita rivolgere questo rimprovero? Il color tortora sta per tante tue doti: la modestia, la sapiente capacità di cedere ad altri la ribalta, la sollecitudine operosa nella famiglia, e non solo nella famiglia. Chi ti vuole bene, tuttavia, desidera che le tue doti sfavillino con un blu pavone, un rosso Magenta, un verde veronese, perché anche altri le possano percepire chiaramente.

Turchese: la pietra dura che ornava la splendida parure – braccialetto e girocollo – preda di ladri occasionali in quella domenica mattina di luglio di tanti anni fa. Il turchese rivela, della tua poliedrica e variopinta personalità, la raffinatezza, che troppo spesso celi senza motivo.

Verde: uno dei tanti impermeabili double-face che tanto ami. Probabilmente la tua scelta è frutto di un compromesso tra la tua naturale ritrosia, che ti farebbe optare per il tortora, e il coro dei tuoi cari che tifa per il rosso.

Zaffiro: gemma che ornava un anello che mi hai regalato quando ero bambina. Quel dono è stato per me la dimostrazione tangibile di quanto tu sappia leggere nell’animo altrui. Grazie anche per questo.

Anna Maria Curci

17 dicembre 2006

Francesca Ricci, Il treno dell’arcobaleno

26 martedì Nov 2013

Posted by letteremigranti in Lettere migranti, Racconti

≈ Lascia un commento

Tag

Chiari, fiabe, Francesca Ricci, il treno dell'arcobaleno, Racconti, siringomielia

il treno dell'arcobaleno

Un bambino solo e triste camminava lungo una vecchia linea ferroviaria abbandonata quando, da dietro un grosso cespuglio, sentì qualcuno piangere sommessamente. Incuriosito si avvicinò e vide, con sua grande sorpresa, una vecchia locomotiva con due vagoni alquanto malridotta. Era una di quelle locomotive che andavano a carbone e che una volta trasportavano tanta gente.

Il bambino le chiese: ” Perché piangi, ti sei fatta male?”

Sorpresa, la vecchia locomotiva, gli rispose: “No, è che sono qui sola soletta, perché tutti mi hanno abbandonato: ormai sono troppo vecchia e lenta .La gente va sempre di corsa,vogliono treni veloci e comodi per fare presto e a me non  vogliono più. Così mi hanno lasciato qui ed il vento,  la  pioggia ed il sole mi stanno rovinando ancora di più. Sono tutta ruggine ormai, sono una povera vecchietta sola e triste. Ecco perché piango!”

“Mia cara locomotiva” disse il bambino “oggi hai trovato un nuovo amico!

Anche io sono solo e triste, non ho nessuno con cui  stare e tu  da oggi sarai la mia migliore amica. Io ti accudirò, ti pulirò e ti farò diventare ancora più bella di prima!”

La vecchia locomotiva sorrise tra le lacrime: quel piccolo bambino era veramente forte, era veramente un grande amico.

Ma come avrebbe potuto rimetterla tutta a posto? – si domandò.

Il bambino mantenne la promessa.

Da quel giorno, si diede da fare per ripulirla tutta.

Lavò tutti i vetri, con pezzi di stoffa colorati riparò i buchi dei sedili, ma alla fine non era ancora contento.

Se dentro la vecchia locomotiva era tutta bella e splendente, fuori lasciava molto a desiderare.

La vernice mancava in più punti, e la ruggine non faceva un bell’effetto.

Ci sarebbero voluti chissà quanti barattoli di vernice nera per ridarle il colore e di soldi per comprarla ne aveva proprio pochi. E allora? Come poteva fare?

Ma la fortuna gli venne incontro.

Trovò un barattolo di vernice verde semivuoto e lo usò per colorare un pezzetto della locomotiva. L’effetto non era niente male: così si mise in cerca di altri barattoli chiedendo a destra e a manca, ed alla fine ne raccolse un bel numero, ma di tanti colori differenti. “Pazienza” disse “meglio che niente !” e si mise all’opera.

Mentre dipingeva, il vecchio treno gli raccontava dei suoi tanti viaggi, delle persone che aveva visto salire e scendere dai suoi vagoni, delle fatiche che aveva fatto per andare in giro, delle cose belle che aveva visto. E così raccontando lei e dipingendo lui, passava il tempo e anche l’ultimo avanzo di vernice finì ed il bambino poté contemplare il suo lavoro o meglio….. il suo capolavoro!

E sì, perché tutta quella vernice colorata dava alla locomotiva un aspetto veramente carino, un po’ vistoso forse  ma molto originale. “Sei proprio bella, – disse il bambino – ho fatto proprio un buon lavoro. Ora non sei la vecchia locomotiva di una volta! Ti voglio chiamare “il Treno dell’Arcobaleno”

“Grazie, mio caro amico, sei stato proprio bravo, hai fatto un ottimo lavoro e per questo motivo ti voglio premiare. Prendi un pezzettino di carbone e mettilo nella mia pancia ed io ti farò fare un bel viaggio intorno al mondo.”

“Ma come puoi muoverti con un solo pezzetto di carbone?” rispose il bambino.

“Non ti preoccupare, ci riuscirò così come te da solo sei riuscito a fare tutto questo lavoro! Vai ora! “

Il bambino si mise alla ricerca ed alla fine trovò un pezzetto di carbone che secondo lui non avrebbe neppure consentito alla locomotiva di accendersi.

Aprì in ogni modo lo sportellino e vi inserì il carbone.

Subito la locomotiva cominciò a muoversi: all’inizio molto lentamente, facendo un gran rumore.

“Ciuff-ciuff, sono un po’ arrugginita, è tanto tempo che non mi muovo più. Ciuff-ciuff ciuff ecco con un po’ di pazienza riuscirò a muovermi meglio. Ciuff-ciuff, ciuff-ciuff, ciuff-ciuff ora comincio  a sentirmi un po’ più sciolta e… possiamo partire”

Il bambino la guardava a bocca spalancata, non credeva ai suoi occhi. Non riusciva a parlare ed a muoversi.  “Su che aspetti a salire, vuoi che vada via senza di te? Ti sto aspettando per partire! Non mi credevi eh? Dai sali che andiamo via!”

Il bambino si riscosse e con un salto fu sulla locomotiva, tirò il fischietto e…”Ciuff, ciuff ciuff ciuff  tuuuu tuuu ……. SI PARTE !”

Ed iniziò così’ il loro viaggio!

Era proprio bello e videro tanti bei posti, finché arrivarono in una stazione, ma nessuno degnò il treno di uno sguardo. Solo un gruppetto di bambini mal vestiti e soli si avvicinò. “Salite, presto” disse il bambino “Questo è il Treno dell’Arcobaleno e andiamo in giro per il mondo!”

I bambini salirono ed il treno ripartì tutto contento.

Arrivarono ad un’altra stazione e di nuovo si ripeté la stessa storia.

E così ad ogni stazione in tutti i paesi che giravano, salivano bambini d’ogni razza e di tutte le età ma tutti  soli e senza una famiglia.

Il Treno era ormai pieno quando arrivò in una piccola stazione.

Non c’era nessuno ad attendere il treno, non c’erano persone, non c’erano bambini, non c’era neppure il capostazione.

Era una piccola stazione tutta grigia, senza colore e senza rumori.

I bambini, incuriositi, scesero dal treno per cercare altri amici in giro. “Forse –pensarono – non hanno sentito arrivare il treno”

S’incamminarono fuori della stazione e furono subito colpiti dal paesaggio.

C’era un grande viale lungo il quale vi erano delle casette con il prato e gli alberi, ma quello che era strano è che tutto era grigio senza colore. Sui prati non c’erano fiori, sugli alberi non c’erano foglie, non c’erano uccellini a cantare, non c’erano rumori, non c’erano persone, non c’erano bambini. Le case erano grigie, le finestre grigie, le porte grigie. Sembrava un paese abbandonato.

Ma il primo bambino si fece coraggio: bussò ad una porta grigia ed aprirono due signori, un uomo ed una donna tutti vestiti senza colori, lo sguardo triste ma…..alla vista del bambino i loro occhi s’illuminarono, i loro volti presero colore, “Sei arrivato finalmente, ti abbiamo aspettato per tanto tempo. La nostra vita era grigia e triste ma tu gli hai ridato il colore! Vieni, entra!”

E la casa prese colore, il prato fuori divenne di un bel verde brillante, gli alberi misero le foglie e gli uccellini ripresero a cantare.

E così fu per ogni casa, per ogni bambino.

Ed il Paese grigio divenne bellissimo: lo chiamarono “il Paese dell’Arcobaleno”.

Ed il Treno nella sua stazioncina colorata era immensamente felice!

Aveva compiuto la sua missione ed ora poteva riposare.

 locomotiva

 

 ______________________________________________________

Francesca  Ricci è nata  nel 1960, ha iniziato a  scrivere  favole  per  bambini per  poterle  raccontare  ai propri figli; ha  scritto e pubblicato  due libri  per  bambini che  trattano due  malattie rare,   la MC1 e  la  siringomielia.  La  Chiari: la  buffa  storia  del signor  cervello, signor  cervelletto, signor midollo e signor  liquor è stata presentata in occasione di congressi sulla malattia e a un convegno dell’ISS, “La medicina  narrativa”.

Remo Bassini, Il monastero della risaia

30 venerdì Ago 2013

Posted by letteremigranti in Per le strade di Roma, Racconti, Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

Anna Maria Curci, Giuseppe Giunti, Goethe-Institut, Il monastero della risaia, Per le strade di Roma, Racconti, Remo Bassini, Senzapatria

il-monastero-della-risaia

 

Due belle sorprese hanno illuminato, l’altro giorno, una pausa pranzo senza viveri e, come di consueto, senza fiato. All’uscita dal Goethe-Institut di Roma, in via Savoia, ho alzato lo sguardo dinanzi a me e ho scorto – ecco la prima sorpresa – che le luci che illuminavano il mezzogiorno di pioggia erano quelle della vetrina di una libreria aperta da poco. Ho pensato che, se avevo rinunciato al pranzo per spostarmi nel minor tempo possibile da un corso di aggiornamento a un corso pomeridiano a scuola, potevo concedermi una sosta – cinque minuti, solo cinque minuti, per cercare un racconto di Edgar Allan Poe che non fa parte delle raccolte più diffuse – nel luogo che rappresenta LA tentazione irresistibile per me, insegnante di scuola pubblica (“se scoprono che mi piace pensare, passo un guaio”, faccio mio questo motto che ho letto nello studio di un’altra persona alla quale, guarda un po’, piacciono i libri): la libreria.
Entro, chiedo del racconto di Poe e, mentre le gentili commesse si affannano a far ripartire un collegamento in rete che il nubifragio sulla città ha messo in seria crisi, lo sguardo mi cade su un tavolino che ospita, con una disposizione variopinta e solo apparentemente casuale, libretti smilzi e accattivanti. La distanza facilita anche all’incalzante presbiopia la lettura di un titolo e del suo autore, a me familiare. Si tratta de Il monastero della risaia di Remo Bassini. La casa editrice è Senzapatria, la collana, nella quale sono apparsi, tra gli altri, racconti di Gaja Cenciarelli, Marino Magliani, Emilia Dagmar, Carmen Covito, Barbara Garlaschelli, Enrico Gregori, porta il nome-programma On the road. È la seconda sorpresa della giornata, perché, come leggo nell’introduzione all’elenco dei titoli pubblicati, “I libri della collana possono essere acquistati nelle stazioni ferroviarie e degli autobus, sui traghetti e le navi da crociera, negli aeroporti, nelle metropolitane”: sono stata fortunata, dunque, ad averli trovati in libreria.
Decido di acquistare Il monastero della risaia. La ‘caccia’ al racconto di Poe non è andata a buon fine, in compenso ho un bottino rassicurante per questa breve incursione nel MIO paese delle meraviglie. Affronto il viaggio sui mezzi pubblici a stomaco vuoto, ma con passo reso più leggero dalla prospettiva della lettura che potrò iniziare sulla metropolitana. Così succede, ed è un piacere ritrovare, accanto a luoghi, situazioni e personaggi che ho ‘frequentato’ di recente, leggendo Bastardo posto di Remo Bassini, figure alle quali la ‘classicità’ del loro ruolo – il questore,il commissario, il vescovo, il sacerdote, ‘Sua Eminenza’ – nulla toglie in termini di efficacia trascinante e irresistibile nei dialoghi serrati, in battibecchi al telefono e non, in confessioni e colpi di scena. La lettura conferma: è bene, talvolta, non resistere alle tentazioni. È bene, soprattutto, non resistere MAI alla tentazione di pensare.

Anna Maria Curci, 4 marzo 2011

(articolo pubblicato il 4 marzo 2011 su “Cronache di Mutter Courage”, qui; con grande dispiacere ho dovuto constatare che, pochi mesi dopo, la libreria appena aperta ha chiuso i battenti: lascio a chi legge e ama farlo il compito di trarre le tristi conclusioni)

Rita, Maris, Temi, Sira

27 martedì Ago 2013

Posted by letteremigranti in Racconti

≈ Lascia un commento

Tag

Anna Maria Curci, CFR edizioni, Gianmario Lucini, Oltre le nazioni, Racconti

Arrigo6

Rita, Maris, Temi, Sira

– Grazie, Rita.
La signora le allungò una banconota da cinquanta euro.
Rita allungò due dita della mano sinistra. Nella destra aveva mezzo pacco di ovatta con il quale tentava di rimuovere il trucco da clown. Giulia era già a letto. Rita aveva impiegato diverso tempo a riordinare il soggiorno dopo l’invasione degli amichetti di Giulia. Pesti viziate, era l’unica cosa che le veniva in mente.
– Però, Rita, sa, volevo dirle… ha visto che faccino aveva Giulia? È proprio sicura che i bambini si siano divertiti? E ha controllato che Veronica non facesse la prepotente? L’ultima cosa che desidero dopo una giornata come questa è una telefonata di quell’esaltata della madre. Non le ha requisito mica il cellulare, eh? Dico a Veronica, sa? Lo so che cosa pensa, Rita. Veronica ha solo otto anni, come Giulia. Non dovrebbe avere il cellulare e, dico io, non dovrebbe averlo sempre acceso. Ma guai a dirlo alla madre. No, no: le crociate le faccia lei, che non famiglia, non ha responsabilità.
Rita continuava a struccarsi. Sorrideva gentile, come sempre. Rita Sommefo aveva un bel sorriso da sfinge.
Se la signora, in piena inondazione verbale, avesse alzato lo sguardo verso lo specchio del bagno, avrebbe potuto cogliere un guizzo negli occhi di Rita. Rita stava ripensando agli occhioni sgranati di bambola della mamma di Veronica. Provò qualcosa di simile alla gioia dei bambini che ridono a crepapelle quando vedono punito il cattivo di turno. Un po’ le dispiaceva per Giulia, ma anche lei, ormai, stava diventando come Veronica, e tutte e due si avvicinavano a grandi passi ai trionfanti modelli materni.
Aveva ragione, la signora. Lei, Rita Sommefo, non aveva famiglia, non aveva responsabilità. Ma aveva ricordi, tanti. Maris Metofo, ballerina di avanspettacolo, scomparsa nei camerini dell’Ambra Jovinelli nell’ottobre 1943. L’impresario aveva l’abitudine di segnalare i casi sospetti alle autorità. Insomma, quelli che abitavano dalle parti del portico d’Ottavia.
Il ricordo di Temi Amorfos andava molto più indietro nel tempo. Temi abitava ad Atene. Non se ne era saputo più nulla dopo la vicenda di Stephanos, lo straniero che era riuscito a fuggire in tempo. Stavano per arrestarlo, era sospettato di omicidio. Poco male. Qualche tempo dopo si era scoperto che il vero omicida era tra coloro che preparavano l’arresto di Stephanos, a casa di Georgios. Temi aveva versato da bere agli ospiti di Georgios.
Rita aveva finito di struccarsi. Nello specchio vide riflessa l’immagine di una donna giovane, con i capelli e gli occhi scuri. Vide Rita, Maris, Temi. Vide anche Sira, Sira O’ Femmot. Sembrava salutarla, Sira, dublinese trapiantata a Berlino. Zona est, Deponie. Servizio ai tavoli. Locale alla moda per chi giocava a fare l’alternativo.
Qualcosa da fare ci sarebbe stato anche lì.
Lasciò la banconota sul ripiano del lavabo. Prima di uscire, spense la luce.

Anna Maria Curci
17 dicembre 2009

Il racconto è pubblicato in: AA.VV., Oltre le nazioni, CFR, Rende 2011, 19-20

Migrazioni

  • Anna Maria Curci
  • Il Network
  • Informativa

Categorie

  • Anna Maria Curci
  • anniversari
  • Arte
  • Brunella Bassetti
  • Cinema
  • Cristina Bove
  • cronache
  • Disegni
  • Gialli
  • Giovanna Amato
  • interviste
  • la domenica pensavo a Dio/sonntags dachte ich an Gott
  • Laura Vazzana
  • Lettere migranti
  • letture
  • Letture a due voci
  • Lutz Seiler
  • Memoria
  • Migranti
  • Musica
  • Narrativa
  • Per le strade di Roma
  • Pittura
  • Poesia
  • Poesia in due lingue
  • Prosa
  • Racconti
  • Recensioni
  • Reiner Kunze
  • reportage
  • Ricordi
  • Romanzi
  • Rubriche
  • Sandra L. Rebecchi
  • Scuola
  • Simonetta Bumbi
  • Storia
  • Teatro
  • Traduzioni
  • Uncategorized

Ultime Migrazioni

  • Maurizio Rossi, La ruota di Duchamp (nota di Anna Maria Curci)
  • Simone Zafferani, L’ora delle verità (rec. di Giovanna Amato)
  • Gianni Iasimone, “Invel – la Heimatlosigkeit, dallo spaesamento al dolore di Giovanni Nadiani”

Archivi

  • marzo 2023
  • febbraio 2023
  • dicembre 2022
  • ottobre 2022
  • agosto 2022
  • luglio 2022
  • giugno 2022
  • aprile 2022
  • febbraio 2022
  • gennaio 2022
  • febbraio 2021
  • agosto 2020
  • luglio 2020
  • marzo 2020
  • gennaio 2020
  • gennaio 2019
  • agosto 2018
  • gennaio 2018
  • ottobre 2017
  • settembre 2017
  • gennaio 2017
  • ottobre 2016
  • settembre 2016
  • agosto 2016
  • luglio 2016
  • giugno 2016
  • Maggio 2016
  • marzo 2016
  • febbraio 2016
  • gennaio 2016
  • novembre 2015
  • ottobre 2015
  • settembre 2015
  • agosto 2015
  • marzo 2015
  • gennaio 2015
  • dicembre 2014
  • ottobre 2014
  • settembre 2014
  • luglio 2014
  • giugno 2014
  • Maggio 2014
  • aprile 2014
  • marzo 2014
  • febbraio 2014
  • gennaio 2014
  • dicembre 2013
  • novembre 2013
  • ottobre 2013
  • settembre 2013
  • agosto 2013
  • settembre 2012
  • agosto 2012

lettere migranti allinfo.it bumbimediapress.com l’ideale network di allinfo anna maria curci

  • Registrati
  • Accedi
  • Flusso di pubblicazione
  • Feed dei commenti
  • WordPress.com

RSS Allinfo.it

  • Si è verificato un errore; probabilmente il feed non è attivo. Riprovare più tardi.

RSS L’Ideale

  • Beauty Bar: i più belli da visitare adesso - Harper's Bazaar Italia
  • Solmi, insegnamento e impegno politico: con i filosofi - Il Manifesto
  • L'allenamento brucia grassi di Kaia Gerber si fa tutti i giorni in 10 ... - Cosmopolitan
  • Trump apre la campagna presidenziale: "Rieleggetemi e sarete vendicati. Io perseguitato dal procuratore di Ne… - la Repubblica

RSS esti kolovani

  • Che succede a Lampedusa? Fuochi razzisti, l’ennesima orribile pagina di violenza e intolleranza verso il migrante.

RSS il blogascolto

  • BOB DYLAN, Shadows in the Night (2015)

RSS il blogfolk

  • Allen Collins, il magico chitarrista Southern Rock dei Lynyrd Skynyrd

RSS bumbimediapress

  • Si è verificato un errore; probabilmente il feed non è attivo. Riprovare più tardi.

Lettere Migranti

Lettere Migranti

Le ultime migrazioni

  • Maurizio Rossi, La ruota di Duchamp (nota di Anna Maria Curci)
  • Simone Zafferani, L’ora delle verità (rec. di Giovanna Amato)
  • Gianni Iasimone, “Invel – la Heimatlosigkeit, dallo spaesamento al dolore di Giovanni Nadiani”
  • Maria Lenti, “Beatrice e le altre: a Dante” (rec. di Maurizio Rossi)
  • Maria Pina Ciancio, Tre fili d’attesa (nota di Rosaria Di Donato)

Blog su WordPress.com.

Privacy e cookie: Questo sito utilizza cookie. Continuando a utilizzare questo sito web, si accetta l’utilizzo dei cookie.
Per ulteriori informazioni, anche sul controllo dei cookie, leggi qui: Informativa sui cookie
  • Segui Siti che segui
    • Lettere migranti
    • Segui assieme ad altri 83 follower
    • Hai già un account WordPress.com? Accedi ora.
    • Lettere migranti
    • Personalizza
    • Segui Siti che segui
    • Registrati
    • Accedi
    • Segnala questo contenuto
    • Visualizza il sito nel Reader
    • Gestisci gli abbonamenti
    • Riduci la barra
 

Caricamento commenti...