
Danilo Kiš, foto di Maristela Veličković, da qui
Oggi, 22 febbraio 2021, Danilo Kiš avrebbe compiuto 86 anni. Il nostro omaggio a un autore che abbiamo conosciuto grazie alla proposta di Giorgio Galli del libro Il liuto e le cicatrici per l’iniziativa “Aperitivo con libro” si manifesta qui con i nostri appunti di lettura.
Danilo Kiš, Il liuto e le cicatrici. Traduzione di Dunja Badnjević, Adelphi Edizioni 2014
In Balcanica. Viaggio nel sud-est europeo attraverso la letteratura contemporanea[1], Diego Zandel presenta sulla stessa pagina Alexandar Tišma e Danilo Kiš, entrambi nati nella Vojvodina, regione sul confine tra Serbia e Ungheria. Kiš nasce a Subotica nel 1935, da padre ebreo ungherese e madre montenegrina. In un’intervista a Fridrik Ranfsson sottolinea il duplice volto delle proprie origini. Stare al confine, vivere in più lingue, sarà una costante della sua vita, come quella di tanti altri scrittori che legge, traduce e che appariranno nelle sue opere. Dopo un’infanzia e un’adolescenza tra Ungheria e Montenegro, verso i vent’anni giunge a Belgrado, dove compie i suoi studi letterari, laureandosi nel 1958. A partire dagli anni ’60 è lettore di lingua serbo-croata a Strasburgo, poi a Bordeaux e infine a Lille. Dal 1979 fino alla sua morte nel 1989 vive a Parigi.
Il trauma della scomparsa del padre – deportato ad Auschwitz e letteralmente scomparso – è presente già nel primo romanzo, che Kiš scrive nel 1960, a venticinque anni. Si tratta di Salmo 44, che la casa editrice Adelphi, che detiene i diritti per le sue opere, ancora non pubblica. La protagonista del romanzo, Marija, può essere considerata un alter ego dell’autore. Del romanzo sono stati tradotti e pubblicati estratti, insieme a Novi Sad, I giorni freddi di Alexandar Tišma, dalla casa editrice di Lugano ADV.
Di cultura raffinatissima, è inviso ai detentori del potere e ai neonazionalisti, come lo scrittore Limonov, fondatore del partito nazionalista bolscevico, che si riferisce a lui usando l’espressione “lo sporco Kiš”.
Tradotto da Dunja Badnjević, anch’ella scrittrice (esordisce con il romanzo L’isola nuda, Bollati Boringhieri 2008) e traduttrice, fra l’altro, del romanzo Il ponte sulla Drina di Ivo Andrić, Il liuto e le cicatrici di Danilo Kiš raccoglie sei narrazioni (una delle quali dà il titolo alla raccolta, titolo scelto dalla curatrice Mirjana Miočinović, ex moglie dell’autore), seguite dal breve scritto A e B. I racconti, ritrovati tra i manoscritti di Kiš, sono stati scritti tra il 1980 e il 1986. Alcuni di essi avrebbero dovuto far parte dell’opera Enciclopedia dei morti e a essi sono collegati, ché di morti improvvise e annunciate, subitanee e preparate si scrive, di morti per risalire alla vita, a singole vicende narrate e dipanate all’indietro a partire dalla morte, oppure tendenti a quell’evento conclusivo. Emergono eventi passati e luoghi cancellati alla vista e alla memoria, emergono exempla di una bellezza strappata all’oblio: Ödön von Horváth e Endre Ady in Il senza patria, Piotr Rawicz in Jurij Golec, il protagonista del racconto Il poeta, il protagonista e il narratore in Il maratoneta e il giudice di gara, Ivo Andrić in Il debito: vite spezzate da regimi totalitari, prigionie insensate, dal controllo asfissiante. La letteratura interviene con una verità strappata al silenzio e alle lacerazioni, così come ai silenzi della storia: questo afferma – quasi una dichiarazione di poetica dell’autore – il signor Nikola in Il liuto e le cicatrici:
Lo scrittore [..] deve osservare la vita nella sua totalità. Deve far intravedere il grande tema della morte perché l’uomo sia meno superbo, meno egoista, meno malevolo e, d’altra parte, deve dare un senso alla vita. L’arte è l’equilibrio di queste due visioni contraddittorie. Il dovere dell’uomo, soprattutto dello scrittore – lei dirà che parlo da persona anziana – è di andarsene da questo mondo lasciando dietro di sé non l’opera, tutto è opera, ma un po’ di bontà, un po’ di conoscenza. Ogni parola scritta è come l’atto della creazione. (p. 78)
Il senza patria può essere letto come tappa rilevante di un percorso pluriennale e a molte voci sulla lingua come Heimat, come terra natia. Al centro del racconto gli ultimi giorni di Ödön von Horváth, anche lui scrittore danubiano, anche lui decisamente critico non solo con sé stesso come poeta (entrambi cercarono di cancellare tracce della giovanile attività poetica; di Kiš in italiano possiamo leggere in poesia solo quello che troviamo nel volume, a cura di Stevka Smitran, Antologia della poesia dell’ex Jugoslavia, ed. Noubs, Chieti, 1996), bensì anche nei confronti di un regime che manovra le leve del nazionalismo, dando fiato alle tromba dell’ideologia della “comunità popolare”. C’è, in un sapiente sistema di rimandi, anche il comune interesse – una passione giovanile alla quale si tiene fede, proprio perché controcorrente, proprio perché bersaglio degli ultranazionalisti di turno – per il poeta Endre Ady, di cui Kiš tradusse dall’ungherese al serbo-croato le poesie[2]. Colpisce la conoscenza dei dettagli della vita e delle frequentazioni di Horváth (che nel racconto prende il nome di Egon von Németh) colpisce, ancora di più, la struttura architettonica del racconto, composto da ventisei paragrafi, prevalentemente brevi e tutti straordinariamente densi.
Il debito, che racconta gli ultimi momenti di Ivo Andrić, autore di poesie e romanzi, tra i quali il celebre Il ponte sulla Drina, premio Nobel per la letteratura nel 1961, è costruito come un inventario. Viene allora da pensare a quanto possa avere influito sull’immaginazione dell’autore la professione del padre di Kiš, ispettore delle ferrovie, addetto alla compilazioni di elenchi di orari e passaggi. I parallelismi qui sono in numero inferiore rispetto alle sorprendenti coincidenze che provengono dalla vita e dagli scritti di Horváth, ma senz’altro molti punti di contatto si ‘annidano’ nella scelta dei “creditori” nei confronti dei quali Andrić narrato da Kiš si sente in debito e le motivazioni che adduce per esprimere, di volta in volta, il debito di riconoscenza. Anche Andrić, come Kiš, conosceva molte lingue, viveva in molte lingue e anch’egli rappresenta, come Kiš e Horváth, un momento rilevante della letteratura mitteleuropea.
Anna Maria Curci
[1] Edizione Novecento Libri, 2018
[2]Nell’intervista menzionata, Kiš racconta di sé: «Ho cominciato a tradurre quando, dopo la guerra, sono tornato in Montenegro con mia madre e mia sorella. Ci arrivammo dopo che mio padre era morto ad Auschwitz. Mi sono ritrovato improvvisamente catapultato nel serbo-croato, lingua che, dopo aver vissuto in Ungheria, non conoscevo bene. Frequentavo una scuola dove si insegnava in serbo-croato, e fu allora che cominciai a pormi alcune domande sulle lingue. Traducevo molto dall’ungherese al serbo-croato, perché mi piaceva. Più tardi, dopo aver appreso il francese e il russo, ho continuato a tradurre per puro divertimento. Nutrivo il sogno di diventare poeta e leggevo tutto quel che potevo trovare sull’arte poetica. Per fortuna tutto questo non durò molto. Scoprii infatti l’opera del poeta ungherese Endre Ady. Mi impegnai a tradurlo e così fui in grado di soddisfare il mio bisogno di scrivere poesia. Ho detto “per fortuna”, perché credo che quando ho qualcosa d’importante da dire la esprimo meglio in prosa che in versi».
Omaggio a Danilo Kiš, “Il maratoneta e il giudice di gara”, in Il liuto e le cicatrici, Adelphi 2014
Danilo Kiš scrisse “Il maratoneta e il giudice di gara” nell’estate del 1982 a Belgrado. Miriana Miočinović nel “Commento ai testi” ci dice che era previsto per L’enciclopedia dei morti, infatti per due volte era stato inserito nel sommario.
L’aneddoto al centro del racconto proviene da una pluralità di voci e la lettura ci colloca davanti alla loro polifonia, elemento caratteristico dell’arte compositiva di Kiš, e, nello stesso tempo, alla loro stratificazione. La scrittura di Kiš è una lente sul caleidoscopio della memoria della quale ci restituisce una visione plurale e composita indicando percorsi possibili nella cronologia del ricordo. L’orchestrazione polifonica del racconto e la riscrittura aprono prospettive nella Storia attraverso la cura della memoria di un evento particolare che riguarda la singola persona, la profondità che il momento viene ad assumere è resa tangibile già nell’incipit dall’attenzione che il primo narratore , il pittore Leonid Šejka, pone alla ricerca delle parole con cui coniuga fatti, emozioni e ricerca artistica.
Nonostante una certa incongruenza cronologica, sono tuttavia convinto di aver sentito raccontare questa storia per la prima volta dal defunto Leonid Šejka, un pittore che si autodefiniva << il classificatore>>. Non so se avesse letto il testo manoscritto di Terc o se invece ne avesse sentito parlare da qualcuno. Credo, comunque, di averne avuto notizia per la prima volta da lui. (Seguiva con lo sguardo i corridori ansimanti che si sorpassavano continuamente, sottoposti a un terribile sforzo fisico e mentale, in un paesaggio immaginario a cui egli dava forma e colore. Tenendo strette tre dita della mano destra, cercava la parola e l’espressione, come a voler saggiare con i polpastrelli, la delicatezza del pigmento o la densità dell’impasto, mentre nella sinistra, immobile, stranamente immobile, come rattrappita, si stava consumando una sigaretta, e intanto la colonnina di cenere rimaneva dritta fino alla fine, intatta). (p. 89)
Leonid Šeika è stato un pittore dell’avanguardia jugoslava. In un articolo[1] molto scorrevole in cui non sfugge l’ammirazione dell’autore, Božidar Stanišić, è agile rintracciare le affinità artistiche e i legami affettivi tra il pittore e Kiš. Stanišić riporta una osservazione biografo di Šejka, Dejan Đorić, illuminante per la comprensione delle analogie tra i due artisti:
“… Il suo sapere enciclopedico ha determinato lo sviluppo della sua dialettica del fantastico, gli ha permesso di spaziare con facilità tra diverse materie spirituali, lungo l’asse verticale e quello orizzontale della storia, elaborando così idee radicali…”.
Šejka era tra i fondatori del gruppo di avanguardia “Mediala”. Riporto ancora le parole di Stanišic che ci danno l’accesso al significato di questo nome:
All’epoca pochi critici compresero il significato profetico dell’arte del gruppo Mediala, il cui nome deriva dall’unione di due parole: “med” [termine serbo-croato per indicare miele, inteso come toccasana, ma anche come simbolo dell’unione delle diversità] e “ala” [termine che significa drago, divoratore metaforico di arte].
Arte, quindi, come balsamo, cura e ricerca in un dialogo che segnò l’espressione artistica nell’amicizia, nella stima e nella ricerca. Il passo seguente è una chiara testimonianza di reciprocità:
Šejka esercitò un’influenza determinante su Kiš e sul suo concetto di deposito con il suo credo “transit clasificando”, passo catalogando quindi esisto. In occasione della morte dell’amico, Kiš scrisse uno dei suoi saggi più brevi e più belli. Cito l’ultima frase: “Allievo di Berdjaev e degli esistenzialisti, ha attraversato la vita da saggio, da vecchio saggio: riappacificato con la morte e riconciliato con la vita, portando nella sua breve e ricca vita come unico bagaglio la sua ricchezza spirituale, la sua coscienza artistica e la sua infinita bontà da saggio”.
In Allestimento museale, opera del 1956, Šejka ci mette davanti agli occhi un insieme di oggetti che noi vediamo in prospettiva frontale. Vorrei tentare una lettura di questa rappresentazione: si può arrivare a ciò che sta dietro, cioè simbolicamente scavare nello spazio e nel tempo, soltanto prendendo gli oggetti e spostandoli, ma nel momento in cui questo avverrà gli oggetti ci parleranno, e tutto acquisirà mano a mano nuove dimensioni e indicherà nuovi richiami. Allo stesso modo nel racconto Il maratoneta e il giudice di gara Kiš sovrappone e orchestra le voci offrendoci pagine di intensa immedesimazione nei pensieri, nelle emozioni e nelle speranze del corridore mentre vede il paesaggio mutare lungo il percorso. Il sogno ripercorre la memoria del tragitto, ma poi interviene la decisione inspiegabile del giudice che fa entrare Valdamar D. nell’incubo di un giro di campo senza uscite.
Tornando all’inizio del racconto, ricorderemo senz’altro che Kiš dice che forse Šejka aveva appreso l’aneddoto da Terc, ma come era arrivato nelle pagine di Abram Terc?
Ebbe ancora il tempo di raccontare il sogno all’uomo che era steso accanto a lui in uno dei lager siberiani. Questi, dopo l’improvvisa morte di Valdemar, lo raccontò a un altro prigioniero, oggi anche lui morto da anni. Così il sogno di Valdemar arrivò fino ad Abram Terc, che nelle lettere alla moglie scriveva di ogni cosa. (p. 97)
Tutto è davanti a noi, il racconto dà voce a un deposito di narrazioni che Kiš ha allestito con la sua tecnica mirabile perché ogni cosa ci parlasse e ogni cosa generasse nuova arte, significato e riconciliazione nel balsamo delle sue parole.
Cristina Polli
[1] https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Leonid-Sejka-anima-dell-avanguardia-jugoslava-207556
Su Il liuto e le cicatrici e Jurji Golec
di Patrizia Sardisco
Grazie all’amorevole precisione filologica della curatela di Mirjana Miočinović, sappiamo con certezza che i due racconti Jurji Golec e Il liuto e le cicatrici erano destinati a far parte de L’Enciclopedia dei morti: lo testimonia il ritrovamento dei sommari delle diverse stesure che Kiš ne aveva fatto, e nei quali i due testi figurano fino all’ultima, salvo poi esserne depennati a mano nell’imminenza della pubblicazione.
Ulteriormente, sempre grazie al Commento ai testi della curatrice, possiamo avere conferma della sostanziale continuità tematica e stilistica dei due racconti, accomunati da riflessioni che appaiono cardinali rispetto all’intera opera dello scrittore serbo: la morte, e qui in particolare nel suo rapporto con l’amore; il ruolo della letteratura rispetto al lavoro dell’oblio sulle biografie annullate dalla Storia, della potenza della scrittura come unica vera forma di sopravvivenza.
Scritto nel 1982, Jurji Golec narra gli ultimi giorni di vita di Piotr Rawicz, scrittore e amico, autore della prefazione alla prima edizione francese del romanzo Clessidra di Danilo Kiš, (Sablier, Gallimard, 1982), suicidatosi poco dopo la morte della moglie. In questo breve racconto dichiaratamente autobiografico, dove poco viene ceduto all’ideazione fantastica, e che al contrario si limita soltanto a camuffare alcuni dei nomi propri autentici dietro iniziali o nomi d’invenzione, la vicenda è collocata in una Parigi d’inizio anni ’80, in pieno fermento intellettuale e artistico, tra ambienti accademici in cui è possibile imbattersi in scrittori del calibro di Marguerite Yourcenar, ricevimenti frequentati da pittori e scrittori famosi e famosissimi insieme ai propri editori, e cene alle cui tavole non mancano critici d’arte e stilisti di levatura internazionale. Quasi in posizione laterale, l’io narrante, spiazzato dalla richiesta dell’amico di aiutarlo a procurarsi un’arma per porre fine ai propri giorni, si muove, lungo la manciata di giorni che costituisce il tempo della narrazione, tra la disperazione dell’amico e la scoperta di quanto non sia facile “dare una risposta a un uomo che ti chiede: perché devo vivere?”, nemmeno (o forse soprattutto) se quell’uomo è un sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz. L’indissolubilità dell’amore viene sancita dal gesto di Jurji, dal suo darsi la morte nella certezza che Dio perdonerà. E la consapevolezza della potenza della scrittura, come un’epifania verrà incontro all’io narrante- Kiš ai funerali dell’amico, quando la vista di un topo morto gli ricorderà una similitudine particolarmente pregnante nel romanzo dell’amico, il ratto “che dal romanzo era arrivato direttamente al cimitero di Montparnasse (…) quel ratto morto uscito vivo dal romanzo”.
Ne Il liuto e le cicatrici, scritto nel 1982, il tema della memoria è sviluppato attraverso un doppio livello temporale e narrativo: il ritorno a Belgrado del protagonista e io narrante, nella seconda metà degli anni ’60, dopo più di due anni di assenza; e una passeggiata notturna in centro città, che conducendo fino al vicolo in cui, ora in rovina, si trova la casa dove aveva vissuto per qualche tempo nel periodo degli studi universitari, apriranno la porta ai ricordi e, sul piano della narrazione, al lungo flashback che dipana e conclude il racconto.
Ospite di un’anziana coppia di profughi russi, il giovane Kiš, allora studente di letteratura, condivide la stessa camera del signor Nikola, prodigo di ascolto e tenerezza paterna tanto quanto la moglie, Marija, lo è di secche chiose e aspri rimproveri rivolti al giovane, accusato di essere “solo un bohémien”. Le cicatrici sul volto e sulle mani di Marija ci appaiono ben presto cicatrici sul cuore, il suo e quello di un intero popolo costretto a vivere da esule, piegato dai lutti, in una condizione mai più riconciliabile con l’esistenza. Il liuto è invece lo strumento che Nikola, ormai completamente sordo, continua a suonare per sé e per il suo giovane ospite, con un sorriso incrollabile quanto la propria speranza nell’uomo e in ciò che oltrepassa la misura breve della sua esistenza, non l’opera in sé, ma quel poco di bontà e di conoscenza che egli avrà saputo lasciare dietro di sé.
Con mirabile eleganza, con una efficacia che mutua da una chiara visione poetica ed esistenziale l’essenzialità pregnante del dettato, Kiš restituisce in queste pagine, a torto ancora troppo sconosciute nel nostro paese, il dolore e l’incanto, la disperazione e la dignità di destini, di vite che nessuno vede né conoscerà mai, di vite che non hanno importanza: vite senza le quali, tuttavia, nessuna Storia potrebbe dispiegare ali né affondare artigli. Vite nelle cui pieghe la bellezza resiste, dentro un manto che splende di riconoscenza.