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Maria Gabriella Canfarelli, Memento

25 lunedì Apr 2022

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25 aprile, Anna Maria Curci, edizioni Cofine, Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana, Maria Gabriella Canfarelli, Memento, Poesia italiana contemporanea


Per questo 25 aprile 2022 propongo la lettura di alcune poesie che Maria Gabriella Canfarelli ha scritto in Memento. Dalle Lettere di condannati a morte della Resistenza Italiana (Edizioni Cofine 2021), insieme alla mia prefazione. «Ricordare, ricondurre al cuore vicende, destini, scelte e sorti di donne e uomini attraverso una poesia, “parola che fa accadere”, che riprende, condensa, illumina il dettato di quelle ultime missive, congedo e lascito, commiato e impegno»: questo è il dono, testimone e pegno, che Maria Gabriella Canfarelli ci offre anche oggi, Festa della Liberazione.

 

Ricordare, ricondurre alla mente e al cuore: Memento di Maria Gabriella Canfarelli

 

L’imperativo, formulato in latino, è l’invito posto come titolo della propria raccolta da Maria Gabriella Canfarelli: Memento. “Ricorda!”, dunque, è l’esortazione che si fa incontro a chi legge i componimenti in versi che sono nati e si sono sviluppati dalla frequentazione – meditazione, discesa in profondità, testimonianza – con le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana.
Ricordare, ricondurre al cuore vicende, destini, scelte e sorti di donne e uomini attraverso una poesia, “parola che fa accadere”, che riprende, condensa, illumina il dettato di quelle ultime missive, congedo e lascito, commiato e impegno: in un tale proposito scorgo l’intendimento di dare consistenza, forma compiuta e vibrante di spazi e di silenzi, al grande dimenticato dell’oggi, al senso del tragico.
Con l’espressione “senso del tragico” non alludo tanto (non soltanto, almeno) all’epilogo, all’interruzione violenta dell’esistenza terrena, che accomuna le biografie alle quali Maria Gabriella Canfarelli conferisce voce poetica, quanto piuttosto al conflitto permanente, a quella che Salvatore Natoli definisce come «contraddittorietà delle sorti umane strette tra caso (Týche) e necessità (Anánke)».
Nella visione tragica del mondo c’è uno spazio che l’umano può riempire, c’è la risposta a ciò che si manifesta come ineluttabile, e ha un nome e un’esistenza: responsabilità. Della presa in carico della responsabilità nell’esserci, per sé e per gli altri, con sé e con gli altri, riluce la poesia di Memento.
Il sottotitolo Dalle lettere di condannati a morte della Resistenza italiana palesa fin dall’inizio che la prima lettura e le successive riletture di un determinato volume, proprio quello indicato nel sottotitolo, sono indubbiamente state tappe importanti nella stesura dei testi di Memento.
Leggere insieme Lettere e Memento aiuta senz’altro a identificare le voci, a dare loro un nome; sono quelle, per menzionarne alcune, di Walter Magri, Giacomo Cappellini (Il Maestro), Paola Garelli (Mirka),  Antonio Fossati, Eraclio Cappannini, Pietro Benedetti, don Aldo Mei, Giulio Biglieri, Raffaele Giallorenzo, Paolo Braccini (Verdi), Maria Luisa Alessi, Irma Marchiani (Anty), Leone Ginzburg, Renato Molinari, Umberto Ricci (Napoleone).
È un ulteriore viaggio nella memoria, questa lettura comparata, che nulla toglie, tuttavia, all’intervento poetico di Canfarelli. Ne esalta, al contrario, la capacità di dare vita a versi la cui limpidezza, la precisione delle immagini, la partecipazione commossa che si fa ritmo, misura, cadenza, imprimono tracce profonde nelle percezioni e nelle rappresentazioni di chi a Memento si accosta e ne percorre le pagine vive di presenze e vicende.
D’altro canto, leggere Memento ancor prima di riprendere in mano il volume delle Lettere, attraversarne i testi ed addentrarsi nella loro architettura, nella loro partitura, è un procedimento che conduce alla scoperta della caratteristica principale di questa opera di Maria Gabriella Canfarelli: l’equilibrio tra l’intuizione profonda dello stato d’animo, di volta in volta ritratto e restituito, e la sapienza compositiva.
I trentacinque testi di Memento sono tutti condensati in un’unica strofa, la cui lunghezza varia, tuttavia, tra sei, otto, nove o undici versi. Anche la misura metrica è diversificata: settenari («Non più di un giorno al mese») si alternano a ottonari («qualcuno ordinava: Aprite!»); a novenari («in un’ora viola e imprecisa»), a decasillabi («clandestina al tramonto sui monti») e a endecasillabi («che le parole senza fiato incorda»; «fasciata nella nebbia novembrina») si affiancano versi formati dall’accostamento di un quinario e di un settenario («che non sapete, come stretto mi tiene») o di un settenario con un novenario («la pistola tedesca, il colpo sparato alla nuca»).
Quando l’attacco di una poesia è costituito da un decasillabo («Ho vissuto contando le ore»; «In piedi, sulla porta socchiusa») o da un doppio decasillabo («Pensavo di incontrarti a Torino/ ma un agguato mortale aspettava»), anche il ritmo induce all’associazione con il canto dei salmi nella Bibbia. Altri importanti richiami biblici si riferiscono, tra l’altro, al lamento nella cattività («annodato all’orecchio di un Dio/ che non mi sente») o al tradimento («chiacchiere alle orecchie di giuda»).
Le poesie di Memento iniziano tutte con un verso che viene trascritto in corsivo: colei o colui che ‘scrive’ richiama l’attenzione con una frase che introduce in maniera incisiva al breve monologo nel quale riferisce i fatti che hanno condotto alla sentenza, rievoca il passato comune, rivendica le proprie scelte – dolorose, laceranti per sé e per i propri cari, ma scelte: non è dato, come ricordava Gustavo Zagrebelski nell’introduzione alle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, lo stare alla finestra, l’opportunistico prendere tempo, il non schierarsi -, richiede conforto, comprensione, perdono per la sofferenza del distacco, ricordo come esercizio vivo della memoria.
La densità di tutti i versi e, in particolare, dei versi iniziali, ha fatto tesoro di una lunga consuetudine con costrutti e forme della prosa in latino: un esempio significativo è l’incipit «Da pochi istanti emessa la sentenza», che discende da un ablativo assoluto latino e rende con un perfetto endecasillabo la situazione dalla quale l’io poetico di quella determinata poesia (la prima di pag. 18) articola la propria testimonianza.
La forma verbale prevalente è, esattamente come nel titolo, quella dell’imperativo o, in alternativa, quella del futuro con valore di esortazione («l’epitaffio per me. Farete scrivere:/ Resistere è un dovere non da poco»), una “parola” (parola che si fa alleanza, patto e, ancora una volta “parola che fa accadere”) che diventi la prosecuzione di un impegno: «Comando a voi tutti prudenza, non vi fidate», insieme alle ultime volontà: «sigillatemi il cuore,/ gli occhi, la bocca, le braccia conserte/ nella terra di Sestola».
Un imperativo che è, insieme, consegna del testimone di una “parola che fa accadere”, è nei versi di pagina 15, che non ripropongono soltanto alcuni passaggi della lettera a Settimo Costantino di Giulio Biglieri, fucilato il 5 aprile 1944 da un plotone di militi della guardia nazionale repubblicana al poligono nazionale del Martinetto di Torino, ma compiono un passo ulteriore:

Conserva invece i miei versi
non per farli stampare, li darai a mio nipote
perché viva di me, con i libri, la parte
migliore.

Questi di Maria Gabriella Canfarelli in Memento sono versi che, insieme alla memoria, affidano a chi legge un lascito consistente e coinvolgente per l’oggi.

© Anna Maria Curci

Non avrò altri giorni
con te, non verrà il tempo per due.
Mi avresti reso felice, lo so.
Ti prego, Vittoria, resisti.  Dovrai essere
forte, e non morire di dolore
per me che lascio la luce intensa, pulita
di questo mattino e la respiro a fondo
ed è l’ultima volta (non potrò più
stringerti, mai più la bocca coprire di baci).

***

Mimma, un giorno ti diranno
saprai che la tua mamma non ha avuto
un processo giusto o ingiusto che fosse.
I tuoi piccoli anni orfani
come un dolore attorcigliato adesso
sfiancano le poche, necessarie parole
raccolte per te. Non ti vedrò
crescere, altri ti alleveranno:
perdona la brutale sparizione,
l’assenza non voluta.

***

L’ufficio, le scartoffie
i giorni mi stavano stretti
(mentre altri morivano). Staffetta partigiana
clandestina al tramonto sui monti,
portavo il pane e le armi. E una notte
di calma sospetta, mi hanno presa
al ritorno, arrestata sull’uscio di casa.
Comando a voi tutti prudenza, non vi fidate,
non parlate coi vostri vicini, non date inutili
chiacchiere alle orecchie di giuda.

***

Abbiamo pochi minuti
sarò il primo a passare la porta.
Madre, prega per me se credi
possa fare la fede del bene
al tuo dolore.
Amici, compagni di lotta
venite a prendermi: troverete
il mio corpo dove l’hanno lasciato
– di qua dal ponte, nei pressi
della scuola cantoniera.

***

Conserva fino all’ultimo
respiro dell’anima tua
il ricordo di me, custodisci
questo mio scritto sempre
per non dimenticare. E di portare
fiori alla fossa e di parlarmi, non
dimenticare. Tienimi accanto
come fossi vivo, tienimi sin d’ora
ch’è l’ora del tramonto
e tanto nevica, e batte i denti
l’ultima parola.

Maria Gabriella Canfarelli, Memento. Dalle Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana. Prefazione di Anna Maria Curci, Edizioni Cofine 2021

Giorgio Galli, Il matto di Leningrado

10 lunedì Gen 2022

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Daniil Charms, Gattomerlino, Giorgio Galli, Il matto di Leningrado, letture, prosa, recensioni, romanzi

Giorgio Galli, Il matto di Leningrado. Tre passeggiate con Daniil Charms, Gattomerlino 2021

Le tre passeggiate con Daniil Charms – questo è il sottotitolo del volume Il matto di Leningrado,  che Giorgio Galli ha pubblicato nell’aprile 2021 con la casa editrice Gattomerlino – hanno una scansione temporale che colloca la narrazione in una cornice storica drammatica: 21 marzo 1941, 21 giugno 1941, 21 agosto 1941, giorno della sparizione, quest’ultimo, di Daniil Ivanovič Juvačëv, in arte Daniil Charms.
Le investigazioni a proposito dello scrittore che appare, nelle pagine avvincenti scritte da Giorgio Galli, come «un tale che fumava una pipa ricurva e portava un cappello alla Sherlock Holmes», sono tributi d’amore e di una certa ‘affinità elettiva’ da parte di un viaggiatore nel tempo che per tutto il libro viene indicato, talvolta apostrofato, con il pronome personale alla seconda persona singolare.
Il testimone raccoglie gli indizi, sparsi e scarni, sugli ultimi mesi di vita di un autore del quale sono giunte a noi pochissime opere, per vie fortunose, da una misteriosa valigia, attraverso samizdat.
Nella Nota dell’autore Giorgio Galli precisa: «Questa è un’opera narrativa e non di rigore storico». Tuttavia, essa sprona all’indagine letteraria in un contesto storico, un’indagine che sia sottratta e abbia il coraggio di sottrarsi non solo a mistificazioni, bensì anche alla tentazione di sovrapposizioni e di parallelismi con epoche successive.
Una lettura attenta, infatti, permette di individuare alcune piste di ricerca, feconde e degne di interesse:

  • L’esemplarità della vicenda di Charms nonostante la sua eccentricità ovvero, al contrario, proprio in virtù di questa – si pensi alle pagine che Felicitas Hoppe dedica a Charms nelle pagine iniziali di Sieben Schätze. Augsburger Vorlesungen (“Sette tesori. Lezioni di Augusta”).
  • Il filo conduttore della geniale follia, della incomparabilità e della unicità della letteratura russa che è raccolto anche qui, da Giorgio Galli, e che ha una ragguardevole storia della ricezione in Italia – si pensi alle parole di Giorgio Manganelli che aprono il volume di Paolo Nori, dal titolo oltremodo significativo, Repertorio dei matti della letteratura russa. Un altro titolo che appartiene chiaramente a questa linea è sempre di Paolo Nori: I russi sono matti.
  • La produzione letteraria in lingua russa vicina a quella di Daniil Charms, sia per prossimità di scelte, come è avvenuto per Aleksandr Ivanovič Vvedenskij in particolare e per il gruppo “Oberju” (nomignolo con il quale è nota la “Accademia dell’Arte Reale”, fondata da Charms nel 1928) in senso più ampio, sia per legami di parentela: mi riferisco in questo caso alla figura del padre di Daniil, Ivan Pavolvič Juvačëv, la cui opera letteraria era molto apprezzata da Lev Tolstoj.
  • La comicità come slancio alla sovversione e allo svelamento, molto più vicina al tragico di quanto una percezione soporifera purtroppo diffusa – che nega e annega in un brodo indistinto entrambe le istanze. Tratto, questo, distintivo di Charms, che lo accomuna a due scrittori che, come lui, sfuggono a classificazioni riduttive: Jean Paul e, in particolare per il romanzo Fame, Knut Hamsun.

Che si vogliano esplorare o meno le piste di ricerca suggerite, anche soltanto tra le righe, da Giorgio Galli con Il matto di Leningrado, la lettura dell’opera trasmette il desiderio di leggere, e tornare a leggere, tutte le opere di Charms, a partire dalle sue poesie e dai suoi racconti per l’infanzia.

© Anna Maria Curci

Hai letto da qualche parte che a Daniil piacciono i libri sul buddhismo. Sai che campa scrivendo storie per bambini. Ma forse è più giusto dire campava, perché da un paio d’anni non gli fanno più pubblicare. Daniil scrive storie un po’ assurde, e in Unione Sovietica nel 1941 il governo preferisce che i bambini leggano storie edificanti sulla patria e sul socialismo. Uno come Daniil è un po’ sospetto. Quello che scrive fa ridere. Vorrà farsi gioco della patria e del socialismo? Secondo alcuni fa parte di una setta segreta. Secondo altri di un’organizzazione clandestina. Altri ribadiscono: è un matto.
Eppure è difficile sottrarsi alla sua suggestione. Daniil ha charme. Anche quelli che lo considerano un matto un fallito o una spia, subiscono quello charme, e se non gli rivolgono la parola è perché preferiscono ignorarlo piuttosto che guardarlo negli occhi. Dicono che sia un illusionista e che i bambini fanno tutto quello che lui dice.*

*Giorgio Galli, Il matto di Leningrado. Tre passeggiate con Daniil Charms, Gattomerlino 2021, p. 11

Rosa Luxemburg, nel tempo, oggi

15 martedì Gen 2019

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Anna Maria Curci, Karl Liebknecht, letture, Maxie Wander, memoria, Rosa Luxemburg, storia, traduzioni

«La libertà solo per i sostenitori del governo, solo per i membri di un partito – per quanto numerosi possano essere – non è libertà. La libertà è sempre libertà di chi pensa diversamente». (Rosa Luxemburg:”Freiheit nur für die Anhänger der Regierung, nur für die Mitglieder einer Partei – mögen sie noch so zahlreich sein – ist keine Freiheit. Freiheit ist immer Freiheit des Andersdenkenden.”)

Questo è vero, e lo è con un discreto grado di esattezza, per ciò che riguarda le debolezze della società. Di ogni società. Questa storia dell’io e del suo giocare a fare effetto – perché non è cresciuto! Questa brama cieca di fare colpo sempre e dappertutto, di pretendere lodi e di parlare sempre degli stessi successi. Solo se ci confrontiamo quotidianamente con le contraddizioni della vita le nostre forze possono crescere, la società può rimanere viva. Ed ecco qui la frase che ho trovato in Rosa Luxemburg, che porto con me e che mando a tutti i nostri amici: «Solo una vita non repressa e spumeggiante perviene a mille forme nuove, a improvvisazioni, ottiene forza creatrice, corregge da sola tutti i propri sbagli. Per questo la vita pubblica degli stati a libertà limitata è così misera, così disagiata, così schematica, così arida, perché escludendo la democrazia si preclude le fonti viventi di ogni ricchezza, di ogni progresso spirituale!»
(da: Maxie Wander, Ein Leben ist nicht genug. Tagebuchaufzeichnungen und Briefe – “Una vita non è abbastanza. Diari e lettere” – a cura e con una premessa di Fred Wander, Frankfurt 1990; la traduzione del brano è di Anna Maria Curci)

100 anni fa, il 15 gennaio 1919, Rosa Luxemburg fu rapita e, insieme a Karl Liebknecht, uccisa da ufficiali della Garde-Kavallerie-Schützen-Division. Dal carcere di Berlino nella Barnimstraße aveva scritto a Sonja Liebknecht il 5 agosto 1916: «Bleiben Sie tapfer und lassen Sie sich nicht niederdrücken», «Rimanga coraggiosa e non si faccia buttar giù». Raccolgo oggi, per tutti i giorni, l’invito di Rosa Luxemburg.

Augusto Benemeglio, Acqua rotta

22 lunedì Ago 2016

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Anna Maria Curci, Anxa, Augusto Benemeglio, Gallipoli, Genazzano, Marie Luise Kaschnitz, Maurizio Nocera, Poesia, prosa, recensioni

acquarotta

Talvolta

Talvolta dorme pure il poeta
Il vecchio guastatore delle feste
Fino all’ultimo scudo ha pagato se stesso
Sprofondato nell’erba della pioggia di stelle
Sogno che cresce rapido gli avvolge come tela di ragno
Gli occhi che scrutano
Sulla sua mano che scrive
Si accoppiano farfalle
I suoi volatili da assalto blaterano come passeri
Il leggiadro Sempre-già-qui.

Marie Luise Kaschnitz
(traduzione di Anna Maria Curci)

Ci sono libri che sanno attendere il momento in cui saranno raccolti, accolti, accarezzati. Restano quieti e pur sempre vigili con il loro carico di domande, carico vissuto e sofferto, alieno dall’indaffarata distrazione quotidiana e grondante familiarità. Sanno che quella familiarità, miele nero e amaro del rimorso, farebbe comodo scansarla per volgersi all’immediato sfavillante. Sono certi, tuttavia, che il pensiero tornerà a loro, sorelle e fratelli non meno prossimi per il fatto di non essere consanguinei. Uno di questi libri è Acqua rotta. Il colore del vuoto di Augusto Benemeglio, edizioni «Anxa» 2015, che si è scelto l’alba insonne di questo 22 agosto 2016, giorno del compleanno del suo autore, per essere percorso e per dispiegare la sua polifonica prossimità. Scaturisce dal dolore di un duplice lutto, dalla perdita, nel giro di pochi mesi, del nipote Alessandro e del padre di lui, Alberto, fratello di Augusto. Prosa e versi si danno il cambio in un canto (composto da 67 parti, come precisa Maurizio Nocera nella bella prefazione, 67 come gli anni vissuti dal fratello Alberto) che nasce dal rimpianto e sparge amore, inciampa su radici, scivola tra i tumuli della necropoli di Cerveteri, si china su un letto d’ospedale, sorregge il corpo fraterno fatalmente fiaccato e anela risa perdute tra vigne e porti, tra Genazzano e Gallipoli, naviga – e ha il coraggio di farlo – su rotte antiche, additando, talvolta inaspettatamente, nuove confluenze. Così, tra la Puglia e il Lazio del nostro comune passato, tra i contadini e i venditori ambulanti, non trionfanti ma operosi antenati che condividiamo, eccola emergere quella solida, durevole confluenza, situata nella campagna di Genazzano: la nonna materna Luigia Maria Pia, detta Elisa, e la poetessa tedesca Marie Luise Kaschnitz. Si sono incontrate le due donne, si sono conosciute? Serbo questa domanda come una delle più preziose del carico di Acqua rotta e proseguo la navigazione, con una saldezza nuova che la lunga conversazione con il nostromo mi infonde.

©Anna Maria Curci
22 agosto 2016

*

Genazzano

Genazzano nella sera invernale
Nello zoccolo vitreo degli asini
Sull’erta della città rupestre
Come la cantò Marie Luise Kaschnitz
La poetessa tedesca che forse conobbe
Mia nonna, la giovane Elisa
Che andava alla fontana.

«Qui lavai la mia camicia di sposa
Qui lavai la mia camicia di morta».
Povera nonna con la faccia bianca
E la lunga treccia di capelli nerissimi
Distesa nell’acqua fredda della sera
Che torna nel vento di foglie dei platani
E le mani come due blocchi di ghiaccio.

Che sventura innamorarsi di un Augusto
sognatore e scioperato guardacaccia,
Proprio nel giorno della risurrezione.
Mia nonna giovinetta bella coi capelli corvini
Con la pelle chiara che respirava la rugiada
Con la mano stesa al frutto del melograno
Con lo splendore di uno sguardo che accendeva
Tutti i fanali di una cupa Genazzano…

E fu quello stesso spirito d’amore che ci salvò
Perché quando ami davvero non è più tua la vita
È un quadro pieno di lacrime tagli squarci ferite
cocci, ciottoli, frantumi, è questa la poesia vera,
Da povero Cristo che sta sempre lì appeso al palo
Infame della tortura, e non ci sarà mai nessuno
che salirà fino a te, per dirti semplicemente “grazie”.

Augusto Benemeglio
da Acqua rotta. Il colore del vuoto, p. 48

Letture a due voci, 5: Sandra Luigia Rebecchi, E adesso statemi a sentire

25 venerdì Mar 2016

Posted by letteremigranti in Brunella Bassetti, Laura Vazzana, Letture a due voci, Memoria, Romanzi, Rubriche, Sandra L. Rebecchi

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Alzheimer, Brunella Bassetti, Fondazione Paolo Procacci, Laura Vazzana, Letture a due voci, Nulla Die editore, recensioni, romanzi, rubriche, Sandra Luigia Rebecchi

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Sandra Luigia Rebecchi, E adesso statemi a sentire (Editore: Nulla Die, 2015, Collana: Lego/Narrativa. Brossura, Pagine 191-Prezzo € 18,00, ISBN 978-88-6)

 

        “Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé come le pagine di un libro imparato a memoria e di cui gli amici possono solo leggere il titolo” (Virginia Woolf)

 

         Questa potrebbe essere la definizione letteraria per descrivere le persone colpite dalla patologia dell’Alzheimer. Questa malattia, più di tante altre, costituisce per la scienza medica ancora un mistero e per i familiari un tabù nonostante si cerchi, da alcuni anni, di focalizzare sempre più l’attenzione e la cura sulla persona piuttosto che sul malato. Ciò che la rende diversa dalle altre patologie è il particolare tipo di rapporto che si crea tra malato e familiari. Tutti i sentimenti sino allora sperimentati vengono accantonati, messi a tacere e paiono poca cosa: è una nuova relazione quella che s’instaura basata soprattutto, paradossalmente, sulla donazione e conoscenza reciproca. Il malato esige (o ha diritto) di sentirsi ancora amato e ancora voluto. È una persona, una vita intera a essere imprigionata in una mente colpita dall’oblio e da un corpo colpito da corti circuiti.

         E la sofferenza (quella propria dei caregivers) diventa un’esperienza in cui il dolore non è più un problema da risolvere o che fa orrore ma un “mistero da vivere e condividere” insieme. È un percorso lungo, difficile che quando non trova completa soluzione nell’approccio medico diventa una sfida per la ragione e per la fede. Bisogna continuare ad amarli con la compassione che nasce dall’amore e non dal nostro timore. E allora, quale strada seguire per star loro vicino? Lasciarsi pervadere dalle emozioni: sperimentarle, provarle, viverle fino in fondo anche se fanno male.

         Raccontare, narrare questa patologia è possibile? È possibile – per chi scrive – raccontare con obiettività, lucidità e tenerezza quella particolare situazione che ha vissuto in prima persona? Ci prova Sandra Luigia Rebecchi nel suo interessante (da più punti di vista) romanzo E adesso statemi a sentire, una storia di fantasia che parte da una situazione autobiografica per approdare, in alcuni punti, alla Narrative Based Medicine.

         La storia di Rina che si racconta in prima persona mentre la sua malattia progredisce inesorabilmente rappresenta la triste realtà della sua patologia ma anche la metafora della nostra malattia: il rapporto ambiguo e, spesso, ambivalente che abbiamo nei confronti della nostra vita, delle nostre scelte, dei nostri ricordi. La scrittura piana e, nello stesso tempo, profonda; l’uso ripetitivo e continuato di domande accompagna il lettore in questo dramma familiare riuscendo (e, forse, questo è il maggior pregio che riconosciamo) a creare un’atmosfera di coinvolgimento e di straniamento. Leggiamo, pensiamo, riflettiamo, ricordiamo, ci commuoviamo e ci allontaniamo perché sappiamo e riusciamo a percepire che, a volte, soltanto il Dolore ci permette di conoscere l’abisso più profondo del nostro essere.

         “Senza di lei e senza la sua malattia, non avrei potuto conoscere alcune realtà, non avrei potuto vivere in profondità alcuni sentimenti” (pag. 190).

(Molto apprezzabile anche la bibliografia di riferimento).

© Brunella Bassetti, Fondazione Paolo Procacci

Il libro E adesso statemi a sentire di Sandra Rebecchi si avventura con coraggio nel terreno misterioso e poco esplorato in letteratura della malattia di Alzheimer. Ma non solo. Io estenderei questa considerazione alla vecchiaia in generale. Altro argomento di cui non sembra politicamente corretto parlare o scrivere, in una società come la nostra in cui bisogna essere giovani, belli e in salute perché solo così si può tenere il ritmo frenetico che domina la vita moderna.

Sandra Rebecchi scopre con il dovuto rispetto il mondo lento degli anziani ed è davvero una novità. Ne mette in risalto la ricchezza interiore, il vissuto pieno di esperienze spesso difficili, di ostacoli da superare, l’umanità, l’abbandono di sovrastrutture ipocrite, la spontaneità.

Il lettore segue pagina dopo pagina l’evolversi della malattia di Rina, amorevolmente accudita dalle figlie, che con paziente dolcezza la stanno a sentire, come recita il titolo dell’opera, e la comprendono. I ruoli si sono invertiti ma il filo del sentimento profondo tra loro non si è spezzato. E di amore nel libro ce n’è tanto. Rina stessa ha amato tanto nella vita e ama ancora. Non riesce più a parlare del bene che prova, ma lo prova. La mente non va più di pari passo con il cuore e si perde a rincorrere episodi di un passato lontano che tornano nitidi. Il fisico sta cedendo ma la stanchezza prevarrà sulla voglia di vivere solo dopo un’ultima definitiva lotta.

La dedizione dei familiari è il mezzo attraverso il quale Rina rimane fino all’ultimo giorno una persona. Articola a stento le parole, non ricorda le cose più semplici, cosa ha fatto, cosa ha mangiato, non riconosce la casa, ma conserva la dignità. Questo è ciò di cui spesso ci si dimentica.

Un anziano, anche se è malato, ha vissuto, porta dentro un bagaglio personale immenso, ha creato, ha dato e resta uno di noi, fa parte della nostra famiglia e ha ancora insegnamenti preziosi per noi, se abbiamo la delicatezza d’animo per coglierli.

Fino al suo ultimo respiro.

Grazie a Sandra Rebecchi per l’implicito delicato monito a non trascurare fino alla fine il tesoro inestimabile rappresentato dai nostri ‘vecchi’.

© Laura Vazzana

Nuova Via Crucis in metropolitana, di Paolo Ricciardi. Lettura di Augusto Benemeglio

22 martedì Mar 2016

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Acilia, Augusto Benemeglio, Carmelo Bene, Colosseo, Dino Campana, Emily Dickinson, Garbatella, Linea B metropolitana, Nanni Moretti, Paolo Ricciardi, Roma, Via Crucis

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Paolo Ricciardi, Nuova Via Crucis in metropolitana

Lettura di Augusto Benemeglio

  1. Emily Dickinson.

È un libretto di 36 pagine, più le 4 di copertina, non di più, note comprese, dove si annidano, come ama dire Fabrizio Centofanti,  sempre delle verità nascoste, o delle vere e proprie perle, come l’«io credo, io spero, io amo» di don Mario Torregrossa, l’omelia sulla Madonna di San Bernardo («seguendo lei non puoi smarrirtiۚ») , o i versi di Emily Dickinson: «Come se il mare separandosi/svelasse un altro mare,/ questo un altro, ed i tre/ solo il presagio fossero/ d’un infinito di mari/ non visitati da riva / – il mare stesso al mare fosse riva – / questo è  l’eternità». A prima vista ti dà l’idea del classico opuscolo “devozionale” che ha preso il posto dei santini di una volta. Lo prendi, lo sfogli, lo leggi, così, un po’ per curiosità, e per passare un po’ di tempo lungo il tragitto, che percorri ogni giorno,  sulla Roma-Lido, una vera e propria Via Crucis. E invece no. Se tu lo leggi sul serio, questo libretto, non trovi magari l’America del Karl Rossman kafkiano, che hanno dirottato (teatralmente) anche su questi itinerari, ma puoi trovare le chiavi per entrare in altri spazi, in altri lidi, in altri cuori, in altri mondi, chissà, magari le “chiavi del tuo paradiso”. Sto parlando della NUOVA VIA CRUCIS IN METROPOLITANA di don Paolo Ricciardi, il parroco di San Carlo da Sezze, fermata Acilia, zona sud di Roma, linea B della metro, che porta al mare, che, mescolato al sole, è forse l’eternità. Lo disse perfino uno come  Rimbaud, quando vide il mare per la prima volta.

  1. Carmelo Bene

Questa Via Crucis Paolo Ricciardi  l’ha dedicata a Papa Francesco, «pellegrino verso le periferie del mondo, nel terzo anniversario della sua elezione», ma anche a tutte le comunità parrocchiali in cui è stato, e – soprattutto –a tutti coloro che viaggiano  sulla linea B. Allora gli ho detto, Don Paolo, andiamoci insieme sulla metro, con un gruppo di ragazzi, e leggiamola questa via Crucis, fermata per fermata, dalla prima stazione (Gesù è condannato a morte, guarda caso proprio al “Colosseo”), fino alla Resurrezione (Stella Polare); sorride , un po’ ironico e un po’ perplesso. Gli dico, a suo tempo l’ha fatto uno come Carmelo Bene, mi risponde, Lo so. Anche quella era una sorta di via Crucis, una processione laica, ma ci si sentiva tutti un po’ cretini noi spettatori. Tutti dietro ad un pifferaio magico, con la voce da. tamburo-flauto , e una fascia sulla fronte, alla McEnroe. Ma noi non recitiamo, dico. Noi leggiamo a voce alta le “tue” stazioni, a partire dal Colosseo: «L’impero di Roma s’intreccia/a quel lembo di terra lontana/in cui visse quel giovane Uomo/ Pilato si trova … a rappresentare il mondo di sempre/ prestato al potere/ e s’incontra con Chi, Onnipotente, scegli di amare/  L’uomo, ogni uomo,   passato, presente, futuro, / condanna il Dio della Vita…alla morte …/ Ma il cuore in rovina si vuole destare/ e ricerca, incosciente,/ una vita che sappia di Eterno».

  1. Dino Campana

Ricordo anch’io, quella volta , i segni del cerone sotto gli occhi bovini  del grande Istrione, e un microfono, con una luce di fosforo addosso. Leggeva i Canti Orfici di Campana, che gli si adattavano benissimo, con la sua visività enfatica, le sue allucinazioni, la fantasia onirica,  che amplifica e trasfigura e, soprattutto, con quella componente fonico-musicale, ossessivamente ripetuta, che si fa voce ingorgo ed eco di flauti. Quei versi erano come il frullare di ali di un uccello tenuto in gabbia per quasi tutta una vita, un uccello incapace di volare…Ora siamo alla Piramide , alla terza stazione, a Gesù che cade per la prima volta. «È un crocevia /di macchine, moto, persone, /povera gente/ di tutte le razze». Forse la parola che ora tu ascolti, al di là delle interferenze, al di là delle distorsioni volute di quella voce eidetica, che assume in sé, oltre ai significati e ai significanti, anche il più vasto repertorio della gestualità,  tu – onestamente – non riesci a capire quasi più niente dei versi o della prosa di Campana, se non un vago suono musicale, un’eco. Quello che ti rimane è un’esitazione tra un suono e un senso.

  1. Nanni Moretti

Siamo alla quarta stazione, alla Garbatella, prediletta da Nanni Moretti, (L’unica cosa  che mi  piace fare è guardare le case e devo dire che il quartiere di Roma che più m’è piaciuto è la Garbatella, perché c’è vita autentica), dove Gesù incontra la Madre. «Mi immagino ancora le mamme/che chiamano i figli dall’alto,/mani dischiuse e finestre, odori di cibo,/ di pane, di pizza, di panni distesi,/ la semplice vita di gente che vuol camminare/ malgrado le prove:/ Atti d’amore minimi o immensi/convivono insieme con atti violenti, /piccoli o infami di vita “malata”/ Garbatella è il nome di ogni paese del mondo. /E in ogni paese del mondo/Gesù incontra sua madre»…. La voce di Carmelo si fa eclisse, s’oscura, poi traccia figure sonore, traiettorie, sponde di biliardo, medium tra il corpo dell’attore e lo sguardo dello spettatore. Il suo teatro accerchia quel punto fosforico che Artaud chiamava la Parola prima delle parole. Ormai nessuno di noi capisce più nulla di ciò che dice l’attore, e ci siamo perfino dimenticati di chi siano i versi che sta recitando. Ma siamo sicuri, poi, che siano versi?

  1. Acilia

Intanto noi andiamo avanti. Siamo a Marconi, dove la Veronica asciuga il Volto di Gesù: «…una donna ./ Emerge , tra tanti, col panno,/ nel gesto d’amore/ d’imprimere un soffio al Signore…//Di togliergli il sangue,/le spine,/ le lacrime, tante, / versate sul viso e sul cuore».  Proseguiamo fino a Tor di Valle, dove Gesù incontra le donne di Gerusalemme.  «La stazione ippica che “ richiama i cavalli, i fantini, /la gente  che ha vinto e perduto le scommesse/ A questo incrocio di corse-rotaia e galoppo – / Gesù va sempre più piano/ Era entrato trionfante,/ma in groppa a un asino lento,/nel segno di un umile regno//…Le donne che sono qui dentro, in questo vagone,/mi sembrano piene di vuoti./Mancanze di tempo, d’amore, di affetti….». Siamo arrivati ad Acilia, undicesima stazione, dove Gesù è Crocifisso: «Acilia, Palocco, Axa, Infernetto/,sono tante realtà diverse ed  uguali,/ cosparse di verde, con strade bucate, vicoli, viali/ realtà popolari e villette con cani guardiani/ E impianti sportivi, industrie, mercati…/Gesù  è crocifisso tra tutto il trambusto/ di questi quartieri svuotati di giorno/ e pieni soltanto di tramonto/ La croce si innalza per dare valore a questo viavai, / dar senso e colore al buio dell’uomo/ e riempirlo di nuovo d’amore».

  1. La parola

Leggere, per Bene,  questo nostalgico dell’impossibile, è un modo per dimenticare, leggere è una forma dell’oblio; in fondo scrivere e leggere sono stretti in un unico gesto di sparizione.È una cosa bella scrivere, diciamo noialtri scriba per vocazione  o dannazione, però sarebbe meraviglioso che ogni tanto qualcuno riuscisse a leggere davvero una nostra pagina , una soltanto di tutte quelle migliaia e migliaia che scrivi, sarebbe bello vedere qualcuno che prende in mano , ad esempio, questo libretto di Paolo Ricciardi  e pronunciasse a voce alta  la parola che coglie a Ostia Antica, dove Gesù muore in croce . Qui s’aggirava Agostino, «vicino a sua madre, discorreva di cose di Dio / E mentre parlava il discorso portava a passare / dai sensi terreni alla gioia dell’Essere stesso, / il Creatore del cielo, del sole, le stelle//…Quello sguardo di madre e di figlio mi tornano ora, / in questo momento in cui guardo la croce/ e lì sotto Maria».  L’istante in cui tu la pronunci la parola diventa viva, ma è come una fiamma che arde, che brucia; non puoi trattenere la pagina in cui è scritta, il foglio rapidamente si dissolve, sparisce, e tu non ricordi  più quello che c’era scritto, quello che tu stesso avevi scritto col tuo sangue. Ma in fondo era solo una vaga traccia sulla sabbia, un’ impressione, un’ombra, una scia di un ricordo, la sensazione  di scrivere  una poesia, o almeno un verso degno di questo nome.

  1. Poesia è rifare il mondo.

Siamo arrivati alla quattordicesima stazione, in cui Gesù è posto nel sepolcro. «Il viaggio, che  è quasi finito, /mi trova ferito da tanto silenzio/ Quante volte ho veduto morire persone,/ richiudere bare, veder lacrimare/ E sapere Gesù nel sepolcro, e così non vederlo, / è il dramma di chi, sconsolato,/ pensa soltanto che tutto è finito». Siamo alla  Stella Polare, alla Resurrezione. «Eccomi, sono arrivato. /Scendo alla “Stella Polare”, /ripieno di volti, di storie, persone/ Ogni giorno la via della Croce/ incrocia la via dolorosa dell’uomo. / E a ognuno vorrei dare coraggio, / infondere forza, / perché non c’è croce/ che non porti alla Vita/ come la foce si apre nel Mare».E ci rimane la sua voce, pacata, umile, modesta, (ringrazio mio fratello, scrittore, che mi ha rivisto e corretto il testo in alcuni punti) , ma non priva di ironia, ricca di sentimento e calore umano («ringrazio chi mi ha insegnato a viaggiare osservando fuori dal finestrino e dentro il cuore degli uomini») , la sua è una voce diversa, un suono che accade, un sussurro che grida e diventa il tutto, il resto è niente. È una scia , un’onda di risacca, un’eco, il mistero delle piccole cose che si fanno poesia, bellezza, rinascita.  «Manda signore ancora profeti,  uomini certi di Dio,  uomini  dal cuore in fiamme / E tu a parlare dai loro roveti sulle macerie delle nostre parole/  A dire ai poveri di sperare ancora / Anche le cose sono parole, scrigni di sillabe divine, dimora dell’essere / E voi, scribi del mistero, poeti di cui un solo verso fessura sull’infinito come il costato aperto di Cristo/ ci ricordate ad ogni istante che / Poesia è rifare il mondo».

Mentre ci accingiamo a scendere dalla metro percepiamo lo sguardo dei passeggeri volto su di noi, e vi scorgiamo qualcosa di  «benevolmente pietoso».

Roma, 17 marzo 2016

© Augusto Benemeglio

Nelly Sachs, Coro dei salvati

27 mercoledì Gen 2016

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Anna Maria Curci, memoria, Nelly Sachs, Poesia, traduzione

Nelly_Sachs

Scrivevo tre anni fa, e riconfermo ogni parola:

«Per questa Giornata della Memoria, 27 gennaio 2013, ho scelto di tradurre Chor der Geretteten, che Nelly Sachs, premio Nobel per la letteratura, scrisse nel 1946. La poesia fu pubblicata l’anno successivo, nel ciclo di poesie Aus den Wohnungen des Todes (Dalle dimore della morte).
Mentre leggo e scrivo, rivedo i volti di Andra e Tatiana Bucci, di Sami Modiano, riascolto le loro voci, sento Piero Terracina che dice “Noi stiamo lottando perché il male assoluto diventi bene assoluto”, torno con il pensiero al momento in cui in classe abbiamo percorso i versi della poesia, alle reazioni degli studenti, a questa poesia e aTodesfuge di Paul Celan, alle pagine da I sommersi e i salvati di Primo Levi, da Intellettuale ad Auschwitz di Jean Améry, da Sonderkommando Auschwitz di Shlomo Venezia.Penso alla testimonianza che le studentesse che hanno preso parte al Viaggio della Memoria nell’ottobre 2012 hanno preparato per l’incontro di questa mattina a scuola e mi dico che tutto ciò è, come scrive Nelly Sachs, “a voce bassa”, ma è una risposta continua, ferma, ai latrati della morte e della negazione che rimbombano e provano, ancora oggi, ogni giorno, a far brandelli della memoria». (Anna Maria Curci)


Chor der Geretteten

Wir Geretteten,
Aus deren hohlem Gebein der Tod schon seine Flöten schnitt,
An deren Sehnen der Tod schon seine Bogen strich –
Unsere Leiber klagen noch nach
Mit ihrer verstümmelten Musik.
Wir Geretteten,
Immer noch hängen die Schlingen für unsere Hälse gedreht
Vor uns in der blauen Luft –
Immer noch füllen sich die Stundenuhren mit unserem tropfenden Blut.

Wir Geretteten,
Immer noch essen an uns die Würmer der Angst.
Unser Gestirn ist vergraben im Staub.
Wir Geretteten
Bitten euch:
Zeigt uns langsam eure Sonne.
Führt uns von Stern zu Stern im Schritt.
Laßt uns das Leben leise wieder lernen.
Es könnte sonst eines Vogels Lied,
Das Füllen des Eimers am Brunnen
Unseren schlecht versiegelten Schmerz aufbrechen lassen
Und uns wegschäumen –

Wir bitten euch:
Zeigt uns noch nicht einen beißenden Hund –
Es könnte sein, es könnte sein
Dass wir zu Staub zerfallen –
Vor euren Augen zerfallen in Staub.
Was hält denn unsere Webe zusammen?
Wir odemlos gewordene,
Deren Seele zu Ihm floh aus der Mitternacht
Lange bevor man unseren Leib rettete
In die Arche des Augenblicks.
Wir Geretteten,
Wir drücken eure Hand,
Wir erkennen euer Auge –
Aber zusammen hält uns nur noch der Abschied,
Der Abschied im Staub
Hält uns mit euch zusammen.

Nelly Sachs
Dal ciclo di poesie In den Wohnungen des Todes (Nelle dimore della morte), Aufbau Verlag, Berlin1947.

Coro dei salvati

Noi salvati,
Dalle cui ossa cave la morte ha già intagliato i suoi flauti,
Sui cui tendini la morte ha già fatto scorrere i suoi archetti –
Risuona ancora il lamento dei nostri corpi
Con la loro musica mutilata.
Noi salvati,
Pendono ancora i cappi ritorti per le nostre gole
Dinanzi a noi nell’aria azzurra –
Ancora le clessidre si riempiono del nostro sangue stillante.

Noi salvati
Ancora si cibano di noi i vermi dell’angoscia
La nostra stella è sepolta nella polvere.
Noi salvati
Vi chiediamo:
Mostrateci pian piano il vostro sole.
Di stella in stella riportateci al passo
Fateci apprendere di nuovo, a voce bassa, la vita.
Potrebbe darsi, altrimenti, che il canto di un uccello,
Il secchio che al pozzo si riempie
Forzino il nostro dolore sigillato malamente
E come schiuma ci spazzino via-

Vi chiediamo:
Non ci mostrate ancora un cane che morde –
Potrebbe darsi, potrebbe darsi
Che polvere diventiamo –
Dinanzi ai vostri occhi ci disfiamo in polvere.
Che cosa tiene insieme la nostra tela?
Noi divenuti senza respiro,
La cui anima volò a Lui dalla mezzanotte
Molto tempo prima che portassero in salvo il nostro corpo
Nell’arca dell’attimo.
Noi salvati
Vi stringiamo la mano,
Riconosciamo il vostro occhio –
Ma insieme ci tiene ancora soltanto il distacco,
Il distacco nella polvere
Ci tiene uniti a voi.

Nelly Sachs
(traduzione di Anna Maria Curci)

Christa Wolf, a 86 anni dalla nascita

18 mercoledì Mar 2015

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Anna Maria Curci, Christa Wolf, Karoline von Günderrode, memoria, Poesia, storia

Christa Wolf in occasione della manifestazione del 4 novembre 1989. Berlino, Alexanderplatz. Bundesarchiv

Christa Wolf in occasione della manifestazione del 4 novembre 1989. Berlino, Alexanderplatz. Bundesarchiv

86 anni fa, il 18 marzo 1929, nasceva a Landsberg an der Warthe (oggi Gorzow Wielkopolsky) Christa Wolf. Voglio ricordarla con due suoi brevi testi, la poesia  Prinzip Hoffnung (Principio speranza) e un brano tratto da Der Schatten eines Traumes (L’ombra di un sogno), il saggio che scrisse per l’edizione delle poesie di Karoline von Günderrode, che pubblico qui nell’originale e nella mia traduzione.

Prinzip Hoffnung

Genagelt
ans Kreuz der Vergangenheit
Jede Bewegung
treibt
die Nägel
ins Fleisch.

Principio speranza

Inchiodato
alla croce del passato
Ogni movimento
spinge
i chiodi
nella carne.

Christa Wolf
(traduzione di Anna Maria Curci)

*

«Ein zerrissenes, politisch unreifes und schwer zu bewegendes, doch leicht verführbares Volk, dem technischen Fortschritt anhängend statt dem der Humanität, leistet sich ein Massengrab des Vergessens für jene zu früh zugrunde Gegangenenen, jene unerwünschten Zeugen erwürgter Sehnsüchte und Ängste.»

«Un popolo dilaniato, politicamente immaturo, difficile da smuovere, eppure facile da sedurre, attaccato al progresso tecnologico invece che al sentimento di umanità, si permette una fossa comune dell’oblio per coloro che sono andati a fondo precocemente, per quei testimoni indesiderati di aneliti e paure soffocati.»

Christa Wolf (da: Christa Wolf, Der Schatten eines Traums, in: Karoline von Günderrode. Einstens lebt ich süßes Leben. Gedichte – Prosa – Briefe. Herausgegeben von Christa Wolf, Insel Verlag 2006, p. 14)

«Solo chi pensa può portare la pace»: Leonhard Frank, L’uomo è buono.

19 domenica Ott 2014

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Anna Maria Curci, Del Vecchio editore, La Grande Guerra, Leonhard Frank, Marcia per la pace Perugia-Assisi, Paola Del Zoppo

Leonhard-Frank-Luomo-è-buono

 

Leonhard Frank pubblicò nel 1917 Der Mensch ist gut.  Novellen. Paola Del Zoppo ha curato l’edizione italiana, L’uomo è buono, dei racconti di Frank, che ha tradotto per la casa editrice Del Vecchio. Un racconto lungo – Die Ursache / L’origine del male, pubblicato da Frank per la prima volta nel 1915 – e le cinque “novelle” de L’uomo è buono compongono il volume, che ha accompagnato, nella sua articolazione e nella mia lettura, un viaggio e cinque albe. Oggi, 19 ottobre 2014, nel giorno della Marcia per la Pace Perugia-Assisi, cammino e penso, penso e cammino, porto con me questo libro potentissimo, chiaro e profondo, che attraversa il dolore, non lo ignora, lo raccoglie e chiama, con la voce di chi ha conosciuto lo strazio e la perdita, di chi ha smascherato la menzogna delle parole di propaganda, a una rivoluzione che ripudia le armi e invita a pensare, sempre: «Solo chi pensa può portare la pace». Ringrazio Paola Del Zoppo e la casa editrice Del Vecchio per questo estratto da La vedova di guerra, una delle cinque Novellen della raccolta L’uomo è buono.

Anna Maria Curci, 19 ottobre 2014

Solo chi pensa può portare la pace

Il tram non poteva più passare. I vetturini erano in piedi, i passeggeri sporgevano la parte superiore del corpo fuori dalle vetture come gargoyle. La folla aumentava rapidamente. Anche le viuzze che conducevano alla piazza erano già nere di gente.

La guardia prese per il braccio la vedova di guerra: – Adesso vada a casa.

– A casa? Perché, ho una casa? – La sua risata era il ruggito di una belva e strappò risate di scherno da parte di mille bocche femminili. Con uno strattone si liberò dalla presa della guardia.

Un volto di donna, beffardo e pericoloso, puntò la guardia agli occhi: – Provi un po’ lei a stare sempre in una casa dove non c’è più nessuno. […] La vedova dell’agente faceva con le mani piccoli movimenti corrispondenti agli spasmi sul suo volto, e si sforzava di spiegare agli altri che tormento fosse, per lei, quando le capitavano sotto gli occhi un vecchio vestito, una maglia di lana, un paio di pantaloni lisi del marito. […] Allora il cameriere fece appello al profondo dei desideri e gridò: – Vogliamo la pace!

Subito i volti della gente si distesero. Una nuvola di calda passione si addensò e scoppiò. La parola “pace” echeggiò forte tuonando per alcuni minuti intorno al cameriere che, in piedi sul vagone, urlò nell’improvviso gelido silenzio: – Ma possiamo aiutare la pace, solo se sappiamo e ammettiamo che anche noi siamo corresponsabili dello scoppio della guerra.

– Che sta dicendo quello? Cosa? – La vedova dell’agente era come paralizzata dall’indignazione e dallo stupore.

– Solo chi pensa può portare la pace… Noi non pensiamo. Noi pensiamo solo a noi stessi.

I volti mutarono, si velarono. Si aprì un vuoto tra la folla e il cameriere.

Stava dicendo: – Già prima della guerra non pensavamo. Eravamo macchine senza pensiero, senza opinione. Perciò ognuno di noi è corresponsabile della guerra.

– Corresponsabile? Non abbiamo voluto noi la guerra. Il popolo no…! Noi no! – Un’onda di rabbia scosse la folla.

– Dobbiamo prima tornare alla verità. L’abbiamo dimenticata. Lasciatevelo dire. Dovete lasciarvelo dire. Noi non abbiamo per niente riflettuto su cosa fosse buono e giusto, non abbiamo per niente pensato, e nel corso della nostra vita abbiamo lasciato crescere in noi il male finché non si è fatto abitudine, finché non abbiamo creduto che il male: ovvero egoismo, violenza, potere, successo e denaro fossero le aspirazioni più alte dell’essere umano. E questo principio freddo e micidiale, reso ovvio, comune a tutti gli europei, di voler sopraffare i propri simili, avrebbe portato gli esseri umani a uccidersi gli uni con gli altri… E poi si parla di onore, eroismo, morte da eroe, si parla di campo dell’onore.

Allora lì la vedova dell’agente di assicurazioni, fendendo la corrente di urla di approvazione, attraversò la folla, che si apriva davanti ai suoi pugni stretti, fino al vagone. – Corresponsabili della guerra? Noi? Mio marito? Mio marito voleva solo vivere, – urlava fuori di sé. Si arrampicò, venne tirata giù, si arrampicò di nuovo fino alla metà.

E ancor prima che potesse essere di nuovo trascinata giù dal vagone, il cameriere si piegò e le toccò dolcemente con la mano la testa scapigliata.

– Non parlare così, – minacciò un uomo. Urlando, dei ragazzi non ancora cresciuti e non ancora pronti per le armi si arrampicarono sul muro.

– Noi tutti, senza pensare alle conseguenze, non abbiamo puntato ad altro che a riportare il maggior successo possibile, incuranti della possibilità di distruggere l’immagine della nostra anima, incuranti della possibilità di procurare dolore e miseria a un altro essere umano come noi. Noi tutti abbiamo riconosciuto e ammirato come autorità i violenti che più di tutti accumulavano potere, possesso e autorità nelle proprie mani… Noi tutti ci sentivamo fieri quando i nostri malconsigliati figli intonavano canzoni di battaglia e assassinio. E quando le autorità al potere facevano marciare le truppe, noi lanciavamo grida di giubilo e ci entusiasmavamo. Giubilo quando giungevano le prime notizie di vittoria. Giubilo. E non ci preoccupavamo se, nell’assalto di una fortezza, cinquantamila uomini venivano spappolati, dovevano essere spappolati affinché, in quell’atto assassino di mostruosa violenza, i potenti potessero accrescere la loro potenza e i possidenti il loro possesso. Non ce ne preoccupavamo perché noi stessi non avevamo altro in noi che il desiderio di successo, possesso e potere. E questo desiderio lo chiamavamo, con una menzogna, patriottismo. Dobbiamo portare la pace. Siamo corresponsabili della guerra. Siamo assassini. Dobbiamo purificarci.

[…] Lui aveva l’audacia di chi, dopo aver sofferto eccessivo dolore personale, non teme più per sé alcun pericolo.

– Abbiamo il diritto di invocare la pace solo se non adempiamo a falsi doveri, come abbiamo fatto fino a ora senza pensare e senza avere un’opinione. E possiamo davvero far sì che ci sia pace sulla terra solo se smettiamo di mettere al centro della vita le grandi nullità, se cominciamo a essere non automi senz’anima che agiscono solo per abitudine, bensì uomini che sanno che l’espressione: «Nel momento in cui hai intenzione di danneggiare un’altra persona, stai danneggiando te stesso» è una legge inconfutabile. Siamo impoveriti. L’abituale sfruttamento e l’abituale accumulazione di proprietà per la quale gli europei oggi si uccidono gli uni con gli altri, ci hanno resi poveri. La cattedrale dell’umanità è crollata, nell’uomo europeo. Per questo diventa ufficiale o agente di borsa; per questo è avido e brutale, per questo ingrassa, fa la guerra, fa lavorare per sé chi non ha successo, lavorare così duramente da non lasciare, alla maggior parte del nostro popolo, neanche un minuto per prendere coscienza di sé, tanto che i poveracci caduti nell’inganno non possono più credere alla fratellanza dell’uomo.

La folla, scossa dalle parole del cameriere, si era fatta esitante; nacquero sentimenti mai provati, cominciarono a vibrare, risuonarono e si addensarono in esclamazioni di approvazione.

Lì la vedova dell’agente di assicurazioni urlò una frase che colpì nel centro dell’animo chi ascoltava, e che, con progressive aggiunte passò di bocca in bocca, così che il cameriere all’improvviso si sentì avvolto da migliaia di urla: – Tutto il popolo precipitato nel dolore…! Milioni di morti…! Fame! Vittorie in guerra! Farabutti!

Il cameriere disse: – Le nostre autorità hanno potuto farci marciare, impiegare ciascuno di noi per macellare uomini, trasformare tutta l’Europa in un mattatoio umano, perché noi abbiamo sempre pronunciato solo le parole e pensato i pensieri che ci sono stati forniti dalle autorità. Dalle autorità che, con la stessa bocca con la quale danno l’ordine di sparare sugli uomini, ci parlano di cultura e civilizzazione. Dieci milioni di uomini sono morti. Perché? Per che cosa sono morti, questi dieci milioni di uomini? Uno solo di voi ha pensato al perché gli europei macellano i loro giovani? Perché si è scatenata questa guerra? La verità è che il nostro popolo senza opinione, senza capacità critica, ingannato con raffinatezza, non può neanche saperlo. Lo sanno solo gli sfruttatori della guerra.

La vedova dell’agente di assicurazioni era impietrita. Anche la folla era impietrita.

La robusta vedova di guerra del cui marito non si erano ritrovati né la testa, né il segno di riconoscimento, mise il suo bidoncino di petrolio sul vagone, ai piedi del cameriere. Tutte le finestre sulla piazza erano nere di uomini.

Il cameriere sapendo che la verità è dura, parlò incisivamente verso il basso, al volto cupo della folla:

– Abbiamo permesso che venissero costruiti cannoni, navi da guerra, macchine di morte. Li abbiamo pagati e ammirati. Anche se avremmo dovuto sapere che quelle macchine di morte da noi pagate, un giorno, si sarebbero rivoltate contro l’umanità e anche contro i nostri mariti, figli e padri. Era inevitabile… Poi viene detto e creduto, creduto dal nostro popolo che non ha opinione né pensieri, che dobbiamo difendere la patria. Si parla di eroismo e di campo dell’onore. Ma l’onore non era forse del tutto già morto ancor prima che cominciasse la guerra? È forse un onore uccidere degli esseri umani per il possesso e il potere? Se questo è onore, allora vogliamo essere senza onore, per poter vivere di nuovo con onore. Se questo è eroismo, allora vogliamo essere vigliacchi, così che il coraggio non muoia a questo mondo. Se questa è la ragione vogliamo essere irragionevoli, così che la ragione possa sopravvivere. Non volete tutto questo? Avete il coraggio di uccidere degli uomini e non avete il coraggio di essere umani?

Lo sguardo della folla muta ripeteva la domanda. Due cavalli da tiro, stretti tra la folla, si dimenavano. La vedova dell’agente di assicurazioni ebbe la sensazione fisica che l’oscurità in lei si facesse di un bianco accecante. La sua faccia era improvvisamente bagnata di lacrime.

Il cameriere tese la mano in avanti: – Dieci milioni di cadaveri! Dieci milioni di persone adesso sono morte. Il sangue che scorre da quei dieci milioni di assassinati (quaranta milioni di litri di sangue umano fumante) potrebbe sostituire per un’ora l’enorme getto d’acqua delle cascate del Niagara. Tutto il materiale rotabile delle ferrovie di tutta la Prussia non basterebbe a trasportare in una volta sola le teste troncate di quei dieci milioni di uomini. Civiltà! Immaginate un lungo treno della ferrovia: l’ultimo vagone è ancora a Monaco mentre il primo è già in stazione a Berlino e tutti sono pieni di teste umane sanguinanti. Civiltà! Si mettano i dieci milioni testa a testa, piede a piede! Ne viene una linea di cadaveri lunga 16.000 chilometri senza alcuno spiraglio, che corre intorno a tutta la Germania. Sedicimila chilometri di cadaveri! Civiltà!

Un singhiozzo risuonò come l’abbaiare di un cane. Volti disfatti si guardavano l’un l’altro. Occhi sbarrati. Domande senza parole. La vedova dell’agente di assicurazioni vedeva girare davanti agli occhi i colori e crollò sul petto del vicino.

– Io vi dico: di questa epoca del potere, della violenza, della menzogna e dell’autorità non rimarrà nulla eccetto l’orrore, e per le future generazioni una risata.

E lì aprì le braccia, così che dietro a lui il campanile della chiesa, illuminato di rosa dal sole crepuscolare, apparve come un gigantesco crocifisso:

– Vogliamo finalmente prendere coscienza, vogliamo pensare, ricordarci, che l’uomo è buono, e che è nostro fratello. Vogliamo finalmente strappare dai nostri cuori l’abitudine, la menzogna, l’avidità, l’ammirazione per la violenza, così che neanche il seme dell’umanità non ancora nata porti con sé il germoglio di nuovi assassinii… Ogni giorno vengono uccise diecimila persone, che tanto volentieri, ah!, così volentieri avrebbero ancora voluto vivere. E invece il ciabattino siede come sempre nella sua bottega e risuola stivali, il falegname fa i mobili, l’operaio sta davanti alla macchina, il commerciante è dietro il bancone; l’impiegato è lì che riempie fogli di carta e il ragioniere conteggia, il cameriere serve, mentre ogni giorno cadono e muoiono diecimila persone, che a loro volta hanno dovuto uccidere persone. Che follia! Se non vogliamo perdere il diritto a chiamarci uomini dobbiamo mollare martelli, pialle, scrivanie e macchine e correre per strada, afferrare il primo venuto per il braccio, e la nostra voce deve trapassargli il cuore: «Ogni giorno vengono uccise diecimila persone. Ma come possiamo lavorare, cercare il guadagno, dormire, mangiare, mentre ogni giorno vengono uccise diecimila persone? Non è possibile…». Vi dico: chi oggi, mentre diecimila persone al giorno muoiono orribilmente, alza la sua mano per lavorare è inumano. Perché lui lascia che le persone vengano uccise e non chiede: che devo fare, perché non vengano uccise?

Allora la vedova robusta, agitando il bidoncino di petrolio, scoppiò in una risata selvaggia. E le frasi: – Bisognerà pur vivere, che altro ci rimane? Dobbiamo guadagnare, mangiare, – dapprima da lei, poi urlate da mille bocche, salirono verso l’oratore ammutolito. Gridavano: – Cosa dobbiamo fare, quindi? Cosa? Cosa dobbiamo fare?

[…] Il cameriere disse: – Il mio giovane figlio è caduto. Il suo sangue sarebbe stato sparso inutilmente se in questo mare rosso bollente non si sciogliessero cupidigia e violenza. Se l’omicidio di massa non si mutasse in umanità e fratellanza.

L’uomo con la barba era sconvolto: – Farabutto! E la patria? La nostra sacra patria? I nostri beni più sacri? La nostra patria?

[…] Il cameriere disse: – La patria è una viuzza nella quale abbiamo giocato da bambini la sera, è un tavolo rotondo illuminato da una fioca lampada a petrolio, è la vetrina del negozio di coloniali nell’edificio accanto; la patria è, nel giardino, il noce, di cui abbiamo atteso il frutto, è la valle di un fiume, l’angolo della valle di un fiume; la patria è una vecchia porta grigia nel retro del giardino, il profumo delle mele che arrostiscono sulla stufa, è l’odore del caffè e dei dolci che si scaldano nella casa dei genitori, è uno stretto sentiero che, attraverso dei prati, riconduce in città, o va fuori, è una passeggiata su quel sentiero, l’affievolirsi di un canto infantile, la campana della sera di un giorno preciso della nostra infanzia… non è lo Stato (le organizzazioni del denaro, della menzogna, della violenza e dell’autorità) la patria dell’umanità, bensì il ricordo di istanti piacevoli dell’infanzia, il ricordo della prospettiva della vita abbellita dalle speranze.

In quel momento guardò il volto della folla e riconobbe chiaramente che nella grande maggioranza quei ricordi delle incessanti lotte per la vita, dei dolori della guerra, dell’odio contro chi l’aveva sprigionata, erano stati interiorizzati, e comprese che la sua parola non poteva ancora penetrare fino a quei cuori di vedova disgraziati, contratti. Solo in pochi si era risvegliato lo sguardo infantile che permette di guardare indietro alla vita passata.

Quando l’uomo con la barba volle risvegliare i sentimenti non più presenti per la patria con la parola “nazionale”, per la disperazione, nel cameriere esplose un’ira improvvisa, e lui si rivolse alla folla con queste parole: – Internazionale è ciò che è grande: l’arte, la scienza, la vita e la morte. […]

– Non potete arrestarci, metterci in prigione. Non si possono arrestare milioni di vedove di guerra!

Un fiotto di petrolio schizzò nell’aria privo di ogni colore. Cavalli impennarono. La carrozza ardeva vivida e fu trascinata rapida in corsa attraverso la piazza, seguita dalla folla.

[…]

 Il cameriere sentì la lontana eco di diversi spari. Il tumulto in lontananza si fece di nuovo udibile. “Rivoluzione è sulla fronte della gente, e quello che è sulla fronte della gente, succederà”.

La piazza, svuotata dalla folla, appariva logora. Il crepuscolo, l’aria, l’essere gli fornirono un istante di luce.

(pp. 170-183)

____________________________

Leonhard Frank, L’uomo è buono,  Del Vecchio Editore, 2014. ISBN: 9788861101067 | Pagine: 336 Traduzione e cura di Paola Del Zoppo

L’origine del male e L’uomo è buono vengono scritti ed elaborati nel primo anno della Grande Guerra. Leonhard Frank non cede alla mitizzazione del progresso, della potenza, dell’organizzazione e della necessità della guerra e decostruisce, nelle sue novelle, i percorsi che hanno portato alla tragedia: la tendenza alla sopraffazione e la propensione all’adattamento, alla conservazione dello stato delle cose per timore della sofferenza, il pessimismo. In L’origine del male Anton Seiler, un poeta messo a dura prova dagli eventi della vita eppure ancora fedele ai propri ideali, sente la necessità enigmatica di tornare nella sua città natale dove incontra per caso il suo sadico maestro di scuola. Un tentativo di riconciliazione si trasforma in delitto, e il poeta viene arrestato. Rischia la pena di morte. Sarà lo svolgimento del processo a farci conoscere la vera origine del crimine e le sue conseguenze. L’uomo è buono è un ciclo di cinque novelle: in ognuna un protagonista ci trasporta nella sua visione della guerra e della sofferenza. La sciagura e il dolore, mascherati da onore e sacrificio, vengono qui svelati in tutta la loro indigesta oggettività. La narrazione scoperchia il vaso di Pandora per affrontare la realtà dei mali uno a uno, in un energico slancio verso la reazione, verso l’ottimismo e la presa di coscienza della forza del singolo, perché “l’uomo potrà essere e sarà umano quando non sarà più costretto all’inumanità”.

Leonhard Frank nasce a Würzburg nel 1882 da una famiglia umile. Frequenta la severissima scuola evangelica, in una regione e una città di storia e cultura radicalmente cattoliche, e dopo il diploma di artigiano si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Monaco per diventare pittore. Nel 1910 interrompe la propria formazione per recarsi a Berlino. Frank è una presenza costante nei caffè e nei circoli artistici, ma non vuole essere parte di nessuna cerchia: ritiene che ogni sistema sia finalizzato al mantenimento del potere e che in ogni cerchia si rischino dinamiche di sopraffazione. Riconosciuta la propria vocazione, dopo alcuni brevi racconti, dà alle stampe il suo primo romanzo, che vince subito il Premio Fontane. “Pacifista della prima ora”, si rifugia in Svizzera durante la Prima Guerra Mondiale, dove stringe amicizia con Alvarez del Vayo e frequenta gli artisti del Dada e gli scrittori engagé. Tornato in Germania, è controllato dal regime nazionalsocialista e costretto di nuovo all’esilio. Nel 1933 si sposta in Inghilterra, poi in Francia, dove viene internato nei campi di lavoro, poi finalmente riesce a fuggire in America nel 1940. Si stabilisce a Hollywood, scrive per la Warner Bros e frequenta Thomas Mann, Franz Werfel e gli intellettuali tedeschi ormai di casa in California. Infine si sposta a New York e poi torna in Germania, nel 1950. Ma l’accoglienza non è gloriosa quanto meriterebbe, e decide di spostarsi a Berlino Est, dove può contare sull’apprezzamento dell’amico Johannes Becher. Muore a Monaco nel 1961.

Johanna

19 lunedì Mag 2014

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Lettere migranti, Memoria, Romanzi, Traduzioni

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Anna Maria Curci, Del Vecchio editore, Felicitas Hoppe, Giovanna d'Arco, Poesia, pulzella d'Orléans, romanzi, storia

Johanna_trad_AMC

Johanna 

«Par mon Martin!» soffiava
– era fuoco o bivacco? –
sugli altri copricapo la pulzella.
Dal pascolo al patibolo è un salto,
dietro le tende cifra la menzogna
e batte i denti.
«Ne avessimo da noi!»,
mormorava il nemico.
Di sante folli,
di candide sgobbone da incendiare?
C’è via di scampo dal fumo perenne
o resta il bivio di falso autorizzato
e prosa da scudieri?

Anna Maria Curci

(su Johanna di Felicitas Hoppe)

19 maggio 2014

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