• Anna Maria Curci
  • Il Network
  • Informativa

Lettere migranti

Lettere migranti

Archivi della categoria: Storia

Ottavio Olita, Sulle tracce di Almeida

30 sabato Apr 2022

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, letture, Recensioni, Romanzi, Storia

≈ Lascia un commento

Tag

Almeida Garrett, Anna Maria Curci, IsolaPalma, Ottavio Olita, recensioni, romanzi, Silvano Tagliagambe, Sulle tracce di Almeida

Ottavio Olita, Sulle tracce di Almeida. Postfazione di Silvano Tagliagambe, IsolaPalma 2021

Da un moto di sacrosanta insofferenza, di giusta rabbia, scaturiscono prima una lettera del giovane protagonista Luca Mulas, poco più che ventenne, poi la serie di eventi, luoghi, personaggi e scoperte che popola Sulle tracce di Almeida, il romanzo più recente di Ottavio Olita.
La lettera, scritta nel 2019 e lasciata dal giovane alla madre Valeria, medico a Cagliari, spaventa quest’ultima, giacché Luca appare fermamente intenzionato a far perdere le sue tracce dopo esser partito dalla città. È una lettera che denuncia il degrado di un paese nel quale l’esclusione degli ultimi, la violenza – razzista, antisemita, fascista – sono tornati a trionfare; è una lettera che, d’altro canto, rivela una assunzione di responsabilità, una ‘auto-mobilitazione’: Luca scrive che ritiene che spetti alla propria generazione muoversi, camminare, conoscere, aiutare, avere cura, agire per opporsi alla colpevole indifferenza.
Valeria teme in un primo momento che Luca pensi a una rivolta, violenta anch’essa come il male che si propone di sconfiggere; consigliata dall’amica Nerina, si rivolge al giornalista Nicola Auletta.
Cominciano così da un lato le ricerche, condotte discretamente dal capitano dei carabinieri Gino Murgia – una presenza costante, insieme al già menzionato Nicola Auletta e all’avvocato Giuliano Deffenu, nei romanzi di Ottavio Olita –; dall’altro lato prendono le mosse le tappe di avvicinamento a quella che sarà o, per essere più precisi, diventerà una delle mete del suo cammino, che si presenta, come nei due romanzi di formazione per eccellenza, che Goethe costruisce intorno alla figura di Wilhelm Meister (Wilhelm Meisters Lehrjahre e Wilhelm Meisters Wanderjahre), come “apprendistato” e “viaggio”: Porto.
Dopo Cagliari, ci sono infatti Bologna, città nella quale Luca incontra altri giovani e si scontra con le fasce più violente dello scontento nei confronti della realtà sempre più disgregata e iniqua e di una classe politica vana e corrotta; Padova, dove conosce Beatriz Alves, Madrid, dove si ferma per qualche tempo e, grazie a Gianni Gentili, figura paterna e sollecita, riesce a partecipare in prima persona a iniziative di incontri culturali, e infine Porto, dove sarà proprio Beatriz, Bea, a invitarlo. Ma il ventaglio nutrito di luoghi si dispiegherà ulteriormente, a mostrare Lisbona e, di nuovo in Spagna, la Navarra; con un ricordo drammatico del personaggio dell’avvocato Rafael Melis Pilloni, anche Gonnosfanàdiga nel Campidano nel terribile bombardamento del 17 febbraio 1943.
A Porto, dove la storia d’amore tra Bea e Luca crescerà, Luca conosce i nonni paterni di Bea e Caetana, amica di Bea, che, a sua volta, lo introdurrà alla scoperta di Almeida Garrett.
La figura di Almeida Garrett è, come suggerisce il titolo stesso del romanzo, centrale in tutta la vicenda. Lo scrittore, giornalista e politico ottocentesco João Baptista da Silva Leitão de Almeida Garrett, pensatore profondo e brillante, sostenitore e propugnatore del liberalismo e del costituzionalismo, si rivela guida spirituale nel viaggio tra memoria e futuro di Luca Mulas.
In questo vero e proprio viaggio di conoscenza – e il viaggio di conoscenza, metafora e sale di una vita piena di senso è un concetto cardine – si illuminano alcuni sentieri, che possono essere considerati vere e proprie piste di ricerca per chi legge e si inoltra tra le pagine del romanzo Sulle tracce di Almeida.
Il primo sentiero è quello della pluralità, di luoghi, di culture, di etnie: l’epigrafe dall’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti è indicativa di un filo conduttore che sarà intrecciato per tutto il corso del libro, per culminare in un progetto, un’iniziativa che promuove e diffonde l’incontro tra i popoli. La pluralità di lingue parlate e ‘frequentate’ dai personaggi del romanzo è un aspetto importante, accompagnato dalla cura di Ottavio Olita, che è stato, ancor prima che giornalista, docente universitario di lingua e letteratura francese, di “fare esprimere ciascuno nel proprio idioma”, come egli stesso ha avuto modo di dichiarare il 27 aprile 2022 a Roma, in occasione della presentazione del libro alla Fondazione Murialdi.
Il secondo sentiero è quello della formazione, attraverso i maestri: non solo i professori, come Acúrsio Souza e, successivamente, Giorgio Mingardi, ma coloro che della loro vita hanno fatto testimonianza, dai personaggi Gianni Gentili e Rafael Melis Pilloni, ai sacerdoti don Luigi Ciotti e don Tonino Bello, menzionati da Eleonora, nonna materna di Luca, nella sua lettera-lascito al nipote. Nella formazione hanno un ruolo fondamentale i nonni: nonna Eleonora per Luca, nonna Isabel e nonno Jorge per Bea. I nonni sono punto di riferimento, interlocutori prediletti, fonte e meta di affetto incondizionato, sapienza di vita.
Il terzo sentiero riguarda la dimensione politica, nel senso più alto del termine, dell’esistenza. Come contrapposizione alla sciatteria, alla corruzione, all’opportunismo, all’interesse privato, essa è indissolubilmente legata all’assunzione di responsabilità. La dimensione politica, nelle aspirazioni che vanno progressivamente chiarendosi agli occhi dei giovani protagonisti, Luca, Bea, la loro amica Caetana, appare armoniosamente allacciata alla passione culturale, artistica e letteraria, senza scissioni, come dimostra la vicenda esemplare di Almeida Garrett. La tensione spirituale, la spinta degli ideali è accompagnata e sostenuta dalla solidarietà nei confronti di chi ne ha maggiormente bisogno. La politica non può pensare di fare a meno della bussola del sapere: il punto di vista dell’autore è messo nel giusto rilievo da Silvano Tagliagambe nella lucida e chiara Postfazione.
Il quarto sentiero riguarda la testimonianza di umanità ai tempi dell’emergenza. Il diffondersi del virus Covid-19, le misure adottate per fronteggiarlo, le restrizioni, il mutamento drastico della quotidianità e l’irrompere del lutto sono temi che entrano con la loro urgenza nel romanzo, insieme al quesito: quale è la responsabilità del singolo e della comunità civile dinanzi all’imprevisto, all’imponderabile? La pandemia, la guerra non possono, non devono sospendere la pietas e, con un raggio più ampio e inclusivo, la compassione («con-dolore», per ricorrere a un concetto centrale nella scrittura di Hilde Domin che, come Almeida Garrett, dall’esilio ritornò con l’impegno di chi costruisce pace), il sentimento profondo di umanità.

© Anna Maria Curci

 

Conoscere Almeida Garrett è servito a farmi nascere un margine di speranza. Per sostenere i suoi ideali affrontò prima il carcere, poi l’esilio durante il quale seppe anche dare una più precisa definizione di qual particolare sentimento di nostalgia che è la saudade; si mise in relazione con il nuovo che stava nascendo in tutta Europa, sia in politica, sia in letteratura; capì quale grande funzione avrebbe potuto svolgere il giornalismo d’inchiesta e per praticarlo creò due diverse testate, una successiva all’altra; prese parte attiva al grande movimento liberale che stava nascendo e crescendo in Portogallo, grazie anche al suo contributo di poeta, romanziere e drammaturgo.
Tradusse la sua elaborazione teorica in opere che segnarono il suo tempo e che fecero rinascere la passione dei portoghesi per le proprie tradizioni popolari. Utilizzando il suo romanzo più importante, Viagens na Minha Terra non solo come opera narrativa, ma anche come testo storico e filosofico, seppe mettere insieme efficacemente intrattenimento e diffusione della conoscenza.
Fondamentale, nella sua esperienza di vita e professionale, è stato l’interscambio con le grandi culture europee del tempo, da quella inglese, a quella francese, a quella tedesca. Uno scossone per quegli anni nei quali il suo Paese rischiava di sprofondare nella palude dell’ignoranza voluta dall’assolutismo.
Perché non rilanciare uguali modalità d’intervento oggi, in tempi nei quali sembra prevalere l’ossessione della chiusura culturale, politica, etnica, nei propri confini nazionali? Un’egemonia che impoverisce, invece che arricchire, proprio come l’assolutismo di allora. (p. 198)

 

Ottavio Olita, da 40 anni giornalista – dopo sei anni di insegnamento universitario – negli ultimi tre decenni si è dedicato ai libri. Prima saggistica, poi narrativa. Questo è il suo ottavo romanzo. Scrive con il PC sulle ginocchia, le idee migliori gli vengono camminando, poi le trascrive ascoltando musica: Rossini, Mozart, Bach, ma anche Beatles, Edith Piaf, Mina.
Ama i gatti.

 

Maria Gabriella Canfarelli, Memento

25 lunedì Apr 2022

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, anniversari, letture, Memoria, Poesia, Storia

≈ Lascia un commento

Tag

25 aprile, Anna Maria Curci, edizioni Cofine, Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana, Maria Gabriella Canfarelli, Memento, Poesia italiana contemporanea


Per questo 25 aprile 2022 propongo la lettura di alcune poesie che Maria Gabriella Canfarelli ha scritto in Memento. Dalle Lettere di condannati a morte della Resistenza Italiana (Edizioni Cofine 2021), insieme alla mia prefazione. «Ricordare, ricondurre al cuore vicende, destini, scelte e sorti di donne e uomini attraverso una poesia, “parola che fa accadere”, che riprende, condensa, illumina il dettato di quelle ultime missive, congedo e lascito, commiato e impegno»: questo è il dono, testimone e pegno, che Maria Gabriella Canfarelli ci offre anche oggi, Festa della Liberazione.

 

Ricordare, ricondurre alla mente e al cuore: Memento di Maria Gabriella Canfarelli

 

L’imperativo, formulato in latino, è l’invito posto come titolo della propria raccolta da Maria Gabriella Canfarelli: Memento. “Ricorda!”, dunque, è l’esortazione che si fa incontro a chi legge i componimenti in versi che sono nati e si sono sviluppati dalla frequentazione – meditazione, discesa in profondità, testimonianza – con le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana.
Ricordare, ricondurre al cuore vicende, destini, scelte e sorti di donne e uomini attraverso una poesia, “parola che fa accadere”, che riprende, condensa, illumina il dettato di quelle ultime missive, congedo e lascito, commiato e impegno: in un tale proposito scorgo l’intendimento di dare consistenza, forma compiuta e vibrante di spazi e di silenzi, al grande dimenticato dell’oggi, al senso del tragico.
Con l’espressione “senso del tragico” non alludo tanto (non soltanto, almeno) all’epilogo, all’interruzione violenta dell’esistenza terrena, che accomuna le biografie alle quali Maria Gabriella Canfarelli conferisce voce poetica, quanto piuttosto al conflitto permanente, a quella che Salvatore Natoli definisce come «contraddittorietà delle sorti umane strette tra caso (Týche) e necessità (Anánke)».
Nella visione tragica del mondo c’è uno spazio che l’umano può riempire, c’è la risposta a ciò che si manifesta come ineluttabile, e ha un nome e un’esistenza: responsabilità. Della presa in carico della responsabilità nell’esserci, per sé e per gli altri, con sé e con gli altri, riluce la poesia di Memento.
Il sottotitolo Dalle lettere di condannati a morte della Resistenza italiana palesa fin dall’inizio che la prima lettura e le successive riletture di un determinato volume, proprio quello indicato nel sottotitolo, sono indubbiamente state tappe importanti nella stesura dei testi di Memento.
Leggere insieme Lettere e Memento aiuta senz’altro a identificare le voci, a dare loro un nome; sono quelle, per menzionarne alcune, di Walter Magri, Giacomo Cappellini (Il Maestro), Paola Garelli (Mirka),  Antonio Fossati, Eraclio Cappannini, Pietro Benedetti, don Aldo Mei, Giulio Biglieri, Raffaele Giallorenzo, Paolo Braccini (Verdi), Maria Luisa Alessi, Irma Marchiani (Anty), Leone Ginzburg, Renato Molinari, Umberto Ricci (Napoleone).
È un ulteriore viaggio nella memoria, questa lettura comparata, che nulla toglie, tuttavia, all’intervento poetico di Canfarelli. Ne esalta, al contrario, la capacità di dare vita a versi la cui limpidezza, la precisione delle immagini, la partecipazione commossa che si fa ritmo, misura, cadenza, imprimono tracce profonde nelle percezioni e nelle rappresentazioni di chi a Memento si accosta e ne percorre le pagine vive di presenze e vicende.
D’altro canto, leggere Memento ancor prima di riprendere in mano il volume delle Lettere, attraversarne i testi ed addentrarsi nella loro architettura, nella loro partitura, è un procedimento che conduce alla scoperta della caratteristica principale di questa opera di Maria Gabriella Canfarelli: l’equilibrio tra l’intuizione profonda dello stato d’animo, di volta in volta ritratto e restituito, e la sapienza compositiva.
I trentacinque testi di Memento sono tutti condensati in un’unica strofa, la cui lunghezza varia, tuttavia, tra sei, otto, nove o undici versi. Anche la misura metrica è diversificata: settenari («Non più di un giorno al mese») si alternano a ottonari («qualcuno ordinava: Aprite!»); a novenari («in un’ora viola e imprecisa»), a decasillabi («clandestina al tramonto sui monti») e a endecasillabi («che le parole senza fiato incorda»; «fasciata nella nebbia novembrina») si affiancano versi formati dall’accostamento di un quinario e di un settenario («che non sapete, come stretto mi tiene») o di un settenario con un novenario («la pistola tedesca, il colpo sparato alla nuca»).
Quando l’attacco di una poesia è costituito da un decasillabo («Ho vissuto contando le ore»; «In piedi, sulla porta socchiusa») o da un doppio decasillabo («Pensavo di incontrarti a Torino/ ma un agguato mortale aspettava»), anche il ritmo induce all’associazione con il canto dei salmi nella Bibbia. Altri importanti richiami biblici si riferiscono, tra l’altro, al lamento nella cattività («annodato all’orecchio di un Dio/ che non mi sente») o al tradimento («chiacchiere alle orecchie di giuda»).
Le poesie di Memento iniziano tutte con un verso che viene trascritto in corsivo: colei o colui che ‘scrive’ richiama l’attenzione con una frase che introduce in maniera incisiva al breve monologo nel quale riferisce i fatti che hanno condotto alla sentenza, rievoca il passato comune, rivendica le proprie scelte – dolorose, laceranti per sé e per i propri cari, ma scelte: non è dato, come ricordava Gustavo Zagrebelski nell’introduzione alle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, lo stare alla finestra, l’opportunistico prendere tempo, il non schierarsi -, richiede conforto, comprensione, perdono per la sofferenza del distacco, ricordo come esercizio vivo della memoria.
La densità di tutti i versi e, in particolare, dei versi iniziali, ha fatto tesoro di una lunga consuetudine con costrutti e forme della prosa in latino: un esempio significativo è l’incipit «Da pochi istanti emessa la sentenza», che discende da un ablativo assoluto latino e rende con un perfetto endecasillabo la situazione dalla quale l’io poetico di quella determinata poesia (la prima di pag. 18) articola la propria testimonianza.
La forma verbale prevalente è, esattamente come nel titolo, quella dell’imperativo o, in alternativa, quella del futuro con valore di esortazione («l’epitaffio per me. Farete scrivere:/ Resistere è un dovere non da poco»), una “parola” (parola che si fa alleanza, patto e, ancora una volta “parola che fa accadere”) che diventi la prosecuzione di un impegno: «Comando a voi tutti prudenza, non vi fidate», insieme alle ultime volontà: «sigillatemi il cuore,/ gli occhi, la bocca, le braccia conserte/ nella terra di Sestola».
Un imperativo che è, insieme, consegna del testimone di una “parola che fa accadere”, è nei versi di pagina 15, che non ripropongono soltanto alcuni passaggi della lettera a Settimo Costantino di Giulio Biglieri, fucilato il 5 aprile 1944 da un plotone di militi della guardia nazionale repubblicana al poligono nazionale del Martinetto di Torino, ma compiono un passo ulteriore:

Conserva invece i miei versi
non per farli stampare, li darai a mio nipote
perché viva di me, con i libri, la parte
migliore.

Questi di Maria Gabriella Canfarelli in Memento sono versi che, insieme alla memoria, affidano a chi legge un lascito consistente e coinvolgente per l’oggi.

© Anna Maria Curci

Non avrò altri giorni
con te, non verrà il tempo per due.
Mi avresti reso felice, lo so.
Ti prego, Vittoria, resisti.  Dovrai essere
forte, e non morire di dolore
per me che lascio la luce intensa, pulita
di questo mattino e la respiro a fondo
ed è l’ultima volta (non potrò più
stringerti, mai più la bocca coprire di baci).

***

Mimma, un giorno ti diranno
saprai che la tua mamma non ha avuto
un processo giusto o ingiusto che fosse.
I tuoi piccoli anni orfani
come un dolore attorcigliato adesso
sfiancano le poche, necessarie parole
raccolte per te. Non ti vedrò
crescere, altri ti alleveranno:
perdona la brutale sparizione,
l’assenza non voluta.

***

L’ufficio, le scartoffie
i giorni mi stavano stretti
(mentre altri morivano). Staffetta partigiana
clandestina al tramonto sui monti,
portavo il pane e le armi. E una notte
di calma sospetta, mi hanno presa
al ritorno, arrestata sull’uscio di casa.
Comando a voi tutti prudenza, non vi fidate,
non parlate coi vostri vicini, non date inutili
chiacchiere alle orecchie di giuda.

***

Abbiamo pochi minuti
sarò il primo a passare la porta.
Madre, prega per me se credi
possa fare la fede del bene
al tuo dolore.
Amici, compagni di lotta
venite a prendermi: troverete
il mio corpo dove l’hanno lasciato
– di qua dal ponte, nei pressi
della scuola cantoniera.

***

Conserva fino all’ultimo
respiro dell’anima tua
il ricordo di me, custodisci
questo mio scritto sempre
per non dimenticare. E di portare
fiori alla fossa e di parlarmi, non
dimenticare. Tienimi accanto
come fossi vivo, tienimi sin d’ora
ch’è l’ora del tramonto
e tanto nevica, e batte i denti
l’ultima parola.

Maria Gabriella Canfarelli, Memento. Dalle Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana. Prefazione di Anna Maria Curci, Edizioni Cofine 2021

Incontri con Stig Dagerman – di Giovanna Amato e Anna Maria Curci

12 sabato Feb 2022

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Giovanna Amato, Lettere migranti, Letture a due voci, reportage, Storia

≈ Lascia un commento

Tag

Autunno tedesco, Fulvio Ferrari, fvƏeditori, Giorgio Fontana, Ilaria Rossetti, Iperborea, Massimo Ciaravolo, Stig Dagerman, Stig Dagerman. Il cuore intelligente, storia

Incontri con Stig Dagerman – di Giovanna Amato e Anna Maria Curci

Su Autunno tedesco di Stig Dagerman e Stig Dagerman. Il cuore intelligente di Ilaria Rossetti

Dal titolo del primo degli articoli raccolti nel 1946 e pubblicati nel 1947, scaturisce Tysk Höst, Autunno tedesco nella traduzione di Massimo Ciaravolo, di Stig Dagerman. Il giovane autore svedese, allora ventitreenne, si trovava nella Germania occupata, come inviato del quotidiano “Expressen”.
Lo sguardo di Dagermann è acuto e ampio, la sua narrazione colpisce per la precisione e l’assoluta mancanza di retorica. D’altro canto, una visione storico-politica chiara, quella di un intellettuale anarchico avvezzo a smascherare interessi e motivazioni dietro l’agire umano – e, in questa consuetudine, geniale – illumina i reportage negli scenari urbani e rurali. Berlino, Amburgo, Monaco di Baviera si alternano a villaggi lungo le rive dei fiumi o al limitare dei boschi con una storia antichissima di sacralità, recente di eccidi, rapida nel “leccarsi le ferite”, mentre le piaghe restano aperte e altre vengono scavate.
La nuova guerra – la guerra fredda -, la fame, l’assenza di una casa o anche solo di un riparo, le farse dei testimoni nelle Spruchkammern, vale a dire nei tribunali per la denazificazione, la sofferenza analizzata a distanza dal letterato classicista che si sfama con le macchine da scrivere e i libri venduti: tutto questo, analizza lucidamente Dagerman, non pacifica, bensì alimenta il rancore, il risentimento, l’astio nazionalista.
L’acutezza dello sguardo, la lucidità dell’analisi non è disgiunta, tuttavia, da un sentimento di vera comprensione e cognizione del dolore.

Anna Maria Curci

Si pretendeva da chi stava patendo questo autunno tedesco di imparare dalla propria disgrazia. Non si pensava che la fame è una pessima maestra. Chi ha davvero fame ed è privo di mezzi non accusa se stesso per la sua fame, bensì quelli da cui crede di potersi aspettare aiuto. La fame non favorisce certo la ricerca delle cause, e chi è permanentemente affamato non riesce a stabilire alcun’altra relazione che la più immediata, per cui in questo caso accuserà chi ha rovesciato il regime che prima provvedeva al suo mantenimento, sostituendolo con un trattamento peggiore di quello a cui era abituato. (Stig Dagerman, Autunno tedesco, p. 20)

Il mio incontro con Stig Dagerman, invece, è stato seduta alla scrivania, mentre dal tavolo virtuale di un magnifico incontro di lettura un’amica ha detto queste sue parole: «Se la letteratura è un gioco di società, me ne andrò nel crepuscolo con i piedi sporchi di terra a farmi amici i serpenti e il piccolo ratto grigio delle sabbie. Ma se la poesia è una necessità vitale per qualcuno, non dimenticare a casa i sandali, guardati dai mucchi di pietre! Adesso i serpenti mi insidiano il calcagno, adesso mi disgusta il ratto delle sabbie». Vengono da Lo scrittore e la coscienza: Ilaria Rossetti le cita in breve dialogo a margine di un suo libricino miracoloso, Stig Dagerman, Il cuore intelligente, edito da FVE nel dicembre del 2021. Il libro apre, con il volume su Franco Loi a cura di Rudy Toffanetti, la collana Animula Vagula Blandula, che la casa editrice milanese dedica all’“amorosa avventura” del racconto di uno scrittore da parte di un altro scrittore che l’ha caro.
L’incontro di Ilaria Rossetti con l’autore svedese è stato invece all’insegna di Autunno tedesco, nella sala di una biblioteca popolata da lettori di quotidiani. Entrambe abbiamo avuto la simile impressione di sfrigolio, «il presagio di un senso prima intravisto appena e poi evidente». Entrambe sappiamo dare un luogo a questa comparizione. Io devo aver mosso la mano come per afferrare qualcosa, piano piano, perché la sua voce mi sembrava una chiamata a qualcosa di bellissimo, una scelta definitiva e stupenda, arrotondata da un linguaggio che era estraneo a ogni forma di retorica, ma leggero e biblico, come di piuma.
Di questo riconoscimento, e di questa riconoscenza, Ilaria Rossetti parla affiancando con gentilezza ricordi (la lunga preparazione del gioco dell’infanzia che appaga più del gioco stesso, la colazione di nebbia al bar prima di una serrata), facendo di impressione e carne, e non solo di ragionamento e idea, i brani di Dagerman che cita, i racconti della sua vita complessa e della sua biografia intellettuale, e il suo esito che, chiarisce, non è il suicidio (che non è il «risultato della sua biografia») ma la capacità di «tenere la posizione, nonostante tutto». Tra le varie parole chiave che possono occorrere a disegnare questo scrittore dalla scrittura esattissima e la lucidità rigorosa, una è “conflitto”: fin dall’incontro con la narrazione imperterrita del dolore dei vinti in Autunno tedesco, lì dove Dagerman ha rifiutato la visuale comune post-bellica di spezzare sotto il tacco un popolo colpevole, mai nell’autore svedese è mancata la fermezza di sguardo di comprendere, con la sua penna, quella che Walter Siti, citato da Rossetti, indica come necessità del libro: essere luogo in cui «ogni asserzione può essere rovesciata». Il “conflitto” non è allora il motore di una trama, come direbbe McKee, ma una capacità di visione, l’accoglienza di un pensiero discrepante, la disposizione a seguire un ragionamento imprevisto, una forma viva e ospitale di ogni lato, anche il più insospettabile e crudo, della realtà.
«Il giornalismo è l’arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possibile», cita ancora Rossetti da Autunno tedesco. Il punto, e Dagerman riesce, e Rossetti ci ricorda con questo libro splendido, è costruire su quel troppo tardi qualcosa che permane.

Giovanna Amato

Stig Dagerman, Autunno tedesco (tit. orig. Tysk höst), traduzione di  Massimo Ciaravolo, cura di Fulvio Ferrari. Con un saggio di Giorgio Fontana (“L’autunno di Stig”), Iperborea 2018

Ilaria Rossetti, Stig Dagerman, Il cuore intelligente, FVE 2021

Giorgio Galli, Il matto di Leningrado

10 lunedì Gen 2022

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Lettere migranti, letture, Memoria, Narrativa, Prosa, Recensioni, Romanzi, Storia

≈ Lascia un commento

Tag

Daniil Charms, Gattomerlino, Giorgio Galli, Il matto di Leningrado, letture, prosa, recensioni, romanzi

Giorgio Galli, Il matto di Leningrado. Tre passeggiate con Daniil Charms, Gattomerlino 2021

Le tre passeggiate con Daniil Charms – questo è il sottotitolo del volume Il matto di Leningrado,  che Giorgio Galli ha pubblicato nell’aprile 2021 con la casa editrice Gattomerlino – hanno una scansione temporale che colloca la narrazione in una cornice storica drammatica: 21 marzo 1941, 21 giugno 1941, 21 agosto 1941, giorno della sparizione, quest’ultimo, di Daniil Ivanovič Juvačëv, in arte Daniil Charms.
Le investigazioni a proposito dello scrittore che appare, nelle pagine avvincenti scritte da Giorgio Galli, come «un tale che fumava una pipa ricurva e portava un cappello alla Sherlock Holmes», sono tributi d’amore e di una certa ‘affinità elettiva’ da parte di un viaggiatore nel tempo che per tutto il libro viene indicato, talvolta apostrofato, con il pronome personale alla seconda persona singolare.
Il testimone raccoglie gli indizi, sparsi e scarni, sugli ultimi mesi di vita di un autore del quale sono giunte a noi pochissime opere, per vie fortunose, da una misteriosa valigia, attraverso samizdat.
Nella Nota dell’autore Giorgio Galli precisa: «Questa è un’opera narrativa e non di rigore storico». Tuttavia, essa sprona all’indagine letteraria in un contesto storico, un’indagine che sia sottratta e abbia il coraggio di sottrarsi non solo a mistificazioni, bensì anche alla tentazione di sovrapposizioni e di parallelismi con epoche successive.
Una lettura attenta, infatti, permette di individuare alcune piste di ricerca, feconde e degne di interesse:

  • L’esemplarità della vicenda di Charms nonostante la sua eccentricità ovvero, al contrario, proprio in virtù di questa – si pensi alle pagine che Felicitas Hoppe dedica a Charms nelle pagine iniziali di Sieben Schätze. Augsburger Vorlesungen (“Sette tesori. Lezioni di Augusta”).
  • Il filo conduttore della geniale follia, della incomparabilità e della unicità della letteratura russa che è raccolto anche qui, da Giorgio Galli, e che ha una ragguardevole storia della ricezione in Italia – si pensi alle parole di Giorgio Manganelli che aprono il volume di Paolo Nori, dal titolo oltremodo significativo, Repertorio dei matti della letteratura russa. Un altro titolo che appartiene chiaramente a questa linea è sempre di Paolo Nori: I russi sono matti.
  • La produzione letteraria in lingua russa vicina a quella di Daniil Charms, sia per prossimità di scelte, come è avvenuto per Aleksandr Ivanovič Vvedenskij in particolare e per il gruppo “Oberju” (nomignolo con il quale è nota la “Accademia dell’Arte Reale”, fondata da Charms nel 1928) in senso più ampio, sia per legami di parentela: mi riferisco in questo caso alla figura del padre di Daniil, Ivan Pavolvič Juvačëv, la cui opera letteraria era molto apprezzata da Lev Tolstoj.
  • La comicità come slancio alla sovversione e allo svelamento, molto più vicina al tragico di quanto una percezione soporifera purtroppo diffusa – che nega e annega in un brodo indistinto entrambe le istanze. Tratto, questo, distintivo di Charms, che lo accomuna a due scrittori che, come lui, sfuggono a classificazioni riduttive: Jean Paul e, in particolare per il romanzo Fame, Knut Hamsun.

Che si vogliano esplorare o meno le piste di ricerca suggerite, anche soltanto tra le righe, da Giorgio Galli con Il matto di Leningrado, la lettura dell’opera trasmette il desiderio di leggere, e tornare a leggere, tutte le opere di Charms, a partire dalle sue poesie e dai suoi racconti per l’infanzia.

© Anna Maria Curci

Hai letto da qualche parte che a Daniil piacciono i libri sul buddhismo. Sai che campa scrivendo storie per bambini. Ma forse è più giusto dire campava, perché da un paio d’anni non gli fanno più pubblicare. Daniil scrive storie un po’ assurde, e in Unione Sovietica nel 1941 il governo preferisce che i bambini leggano storie edificanti sulla patria e sul socialismo. Uno come Daniil è un po’ sospetto. Quello che scrive fa ridere. Vorrà farsi gioco della patria e del socialismo? Secondo alcuni fa parte di una setta segreta. Secondo altri di un’organizzazione clandestina. Altri ribadiscono: è un matto.
Eppure è difficile sottrarsi alla sua suggestione. Daniil ha charme. Anche quelli che lo considerano un matto un fallito o una spia, subiscono quello charme, e se non gli rivolgono la parola è perché preferiscono ignorarlo piuttosto che guardarlo negli occhi. Dicono che sia un illusionista e che i bambini fanno tutto quello che lui dice.*

*Giorgio Galli, Il matto di Leningrado. Tre passeggiate con Daniil Charms, Gattomerlino 2021, p. 11

Brunella Bassetti, Un tè nel deserto. Viaggio nei campi profughi Saharawi

28 martedì Gen 2020

Posted by letteremigranti in Brunella Bassetti, cronache, Lettere migranti, Migranti, Storia

≈ 1 Commento

Tag

Brunella Bassetti, cronache, deserto, profughi, Saharawi, viaggio

Un tè nel deserto

(Viaggio nei campi profughi Saharawi con l’Associazione di Solidarietà e Amicizia con il Popolo Saharawi ASAPS “Enzo Mazzarini”)

 

Il mio viaggio nei campi profughi Saharawi inizia all’Aeroporto Internazionale di Fiumicino il 28 dicembre 2019. Ai desk dell’Air Algerie mi attendono i compagni di viaggio: alcuni, come Carmen Frasca (Presidente dell’Associazione ASAPS), conosciuti negli anni passati durante i progetti accoglienza dei “piccoli ambasciatori di pace”; altri conosciuti in quel momento. Dopo le presentazioni di rito e i convenevoli il nostro maggior problema è come imbarcare le numerose e pesantissime valigie senza pagare il sovraccarico previsto dalle leggi aeroportuali. Alla fine, riusciamo ad imbarcare tutto senza pagare alcuna tassa aggiuntiva. Siamo in possesso di un “visa collectif” da parte della Repubblica Algerina Democratica e Popolare: “… dans les campements des refugies Sahraouis de la region de Tindouf sur invitation de la representation du front Polisario a Rome”. Non è un semplice viaggio di turismo responsabile e solidale; no, è qualcosa di più che, alla partenza, ancora non so definire. Oltre ai bagagli porto, e partono, con me suggestioni letterarie e cinematografiche che mi accompagneranno per l’intera permanenza nei campi profughi.
Atterriamo ad Algeri dopo circa due ore di viaggio. Ci attende un aeroporto moderno mentre i primi pensieri vanno al film “La battaglia di Algeri” visto negli anni ’80 in un lontano cineforum a Napoli. E, subito, penso: “Mai avrei pensato, nella mia vita, di venire o sostare per qualche ora nella città di Algeri”. Considerata terra difficile e violenta … un pensiero immediato alla “Legione Straniera” e alla constatazione che con meno di due ore siamo al di là delle coste del “mare nostrum”, il nostro Mediterraneo. Soltanto due ore di aereo e quante vite – recise in mare – potrebbero essere salvate! Sì, i corridoi umanitari, rimangono – forse – la soluzione più veloce e più sicura per la piaga dell’immigrazione clandestina. Ma, questo, naturalmente è un altro argomento. Una digressione spontanea e fulminea subito messa a tacere per pensare alla meta del nostro viaggio.
Ci aspetta una giornata di attesa estenuante all’aeroporto nazionale di Algeri. Infatti, il volo per Tindouf – ultimo avamposto dell’Algeria – è previso per le tre di notte. Arriviamo nell’ex città militare a notte fonda. La prima impressione, superati i controlli e dopo aver compilato i moduli di ingresso, è un piccolo aeroporto color seppia offuscato da luci gialle che mi rimanda, immediatamente, alle tipiche atmosfere del film “Casablanca”. Attendo Humphrey Bogart, con il suo immancabile soprabito, mentre nella testa risuona il refrain della famosa “Play it, Sam”.  Mi guardo intorno e cerco di catturare i volti, gli sguardi: siamo quasi tutti “étrangers” in missione umanitaria grazie alle numerose ONG e associazioni che operano in questi territori.
Fuori, ad attenderci, ci sono le jeep e i relativi autisti che ci faranno da guida e da “capo-cammellieri” durante tutto il nostro soggiorno. Un altro benvenuto ci viene dal cielo stellato sopra di noi; un cielo così lo avevo visto soltanto in Somalia, tanti anni fa. Una coperta blu indaco trapuntata di luci e di stelle. Cerco di individuare il Carro dell’Orsa Maggiore (che individuerò soltanto uno degli ultimi giorni) accanto ai “tre mercanti”, ben visibili e scintillanti. Viene a confortarmi l’amico Kant: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”.
Primo posto di blocco, se così si può chiamare: una garitta che ricorda – fotograficamente – alcune scene de “Il deserto dei Tartari”. Dall’aeroporto fino al confine del primo campo siamo accompagnati dalla scorta militare algerina: per la nostra incolumità. Un tragitto surreale. Così come surreali sono le emozioni e le sensazioni che si rincorrono e si sovrappongono nella mia mente.
Arriviamo a casa di Salek quasi alle prime luci dell’alba. È bello ritrovare un amico conosciuto in Italia grazie al progetto accoglienza dei bambini Saharawi. Sulla tavola, all’europea, è già imbandita la colazione delle prossime ore.  Un’ora o forse meno di riposo e già siamo in partenza per Dakhla, il più lontano campo profughi (circa 170 km da Tindouf) quasi al confine con il Mali. Abdul – il nostro autista, la persona che il protocollo del Polisario ha affidato al nostro gruppo – ha dormito con noi e, prima di partire, ci ha già preparato il tè. Con il passare dei giorni ci affezioneremo sempre più a questa cerimonia. In una dimensione dello spazio dove il tempo è una variabile infinitesima questo antichissimo rituale riveste una importanza fondamentale. Fulcro della casa, dell’ospitalità, della famiglia, del ritrovarsi tutti insieme attorno ad un piccolo braciere, una teiera come se – fuori – non ci fosse la vita che pulsa.
Iniziamo il nostro viaggio percorrendo l’unica strada asfaltata dei campi. Una lunga nera linea retta che taglia in due il “deserto dei deserti”. Tentiamo di fare qualche video, qualche foto ma già dalle prime ore capiamo che i mezzi tecnologici non possono minimamente racchiudere ciò che stiamo vedendo e vivendo.  Il nulla, il nulla a 360° gradi. Deserto, non quello delle immagini pubblicitarie, ma il deserto fatto veramente di nulla. Una distesa infinita di niente e, immancabilmente, tornano alla mente le storie dalle mille e una notte di questi popoli appartenenti a queste latitudini e longitudini; film come “Un thè nel deserto”, “Il paziente inglese” o altri tipi di deserto (nello specifico quello visto in Samaria dove si svolse la famosa parabola del Buon Samaritano) ma nulla hanno a che vedere con lo scenario che si presenta ai nostri occhi. In alcuni punti, grazie a depressioni e a protuberanze del suolo create dal continuo gioco del vento – il Ghibli – sulla sabbia, sembra di essere sulla Luna.
Arriviamo in tarda mattinata nel campo profughi più lontano e più povero, perché qui, a causa della maggiore distanza rispetto agli altri campi gli aiuti umanitari internazionali arrivano con più difficoltà. Accolti calorosamente nella “jaima” (tenda, ogni famiglia ne possiede una accanto alla propria casa) dalla famiglia di Debha e Azman, veniamo catapultati nella vita quotidiana dei Saharawi. L’Africa, il Sahara ci dà il benvenuto con la luce che filtra attraverso i variopinti tessuti della tenda. Ma il benvenuto più bello è senz’altro quello che ci riservano i bambini. Si siedono accanto a te, ti guardano, ti sorridono e, dopo qualche iniziale diffidenza, ti prendono per mano e ti portano a conoscere il loro mondo. Ti accompagnano al recinto delle capre, ti presentano ai loro amichetti cercando di farti sentire a tuo agio come meglio possono. Ti aiutano, ti indicano la strada, sono attenti che tu non ti faccia male, ti proteggono in una sorta di scorta in questo mondo primordiale e vero. Sono felici della tua presenza e te lo fanno capire in mille modi. Si tolgono quello che hanno per darlo a te: il poco che hanno lo condividono con gioia e serenità. Dopo mezza giornata sei una di loro: ti donano e ti aiutano ad indossare la “melfa” (abito tipico della cultura femminile Saharawi. È composta da un unico telo lungo circa cinque metri che le donne si avvolgono attorno al corpo e alla testa. Serve per ripararsi dal sole e dal vento. La veste tradizione maschile è il “dhra”, simile alle tuniche blu dei Tuareg. Per proteggere il capo, invece, gli uomini utilizzano il “thelm”, un turbante che viene avvolto sulla testa e sul viso), ridono delle tue imbranataggini: togli le scarpe, metti le scarpe … e, alla fine, ti ritrovi a camminare a piedi scalzi sulla nuda sabbia. Sorridi, sei felice di queste giornate ricche di umanità.
Il giorno dopo ci rechiamo al Municipio del campo: l’architettura continua a ricordarmi il fortino di Drogo: il pantone azzurro del cielo – accecante e brillante – fa da contrasto con i muri bianchi, un po’ sgretolati, e la bandiera della RASD (Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi) che ricorda il sacrificio, il dolore e le speranze di un intero popolo. Anche qui deve accadere “qualcosa”, dovrà accadere “qualcosa” ma non si sa quando …
Il sindaco e la vice-sindaco hanno chiamato a raccolta le famiglie cui andranno i soldi delle adozioni a distanza. Una cosa che mi ha sempre colpito e affascinato sono i colori sgargianti delle stoffe e dei vestiti delle donne africane, in genere: icone bellissime di femminilità e sensualità. Un’esplosione di colori, di linee e disegni. Quest’anno 30 famiglie italiane hanno adottato altrettante famiglie Saharawi. Dignitose e fiere nella loro compostezza e deferenza ringraziano con lo sguardo e, nonostante il loro nulla, donano regali e piccoli oggetti artigianali da portare alle rispettive famiglie italiane che hanno deciso di sostenerle nelle loro difficoltà. Non nascondo che in quella mattinata ho vissuto momenti di vera commozione.
Fuori ancora il deserto, tende, baracche, il nulla, il vento, il sole, nessun albero e, in lontananza, un carretto trainato da un asino. Accanto dei bambini. Uno di loro ha uno zaino in spalla e, in italiano, mi dice: “Io madras”. Le scuole, in questo periodo, sono chiuse; evidentemente le scuole religiose no. Tuttavia, anche se di religione mussulmana, qui esiste un Islam moderato, più vissuto quotidianamente che non professato o reclamizzato a gran voce. Mi pare di non avere visto alcuna moschea, in nessun campo.
Proseguiamo la nostra visita di Dakhla recandoci all’ospedale comunale: anche questo isolato e sperduto nel nulla, tra dune di sabbia. Il responsabile ci fa visitare l’intero complesso … pensiamo ai nostri ospedali. Scopriamo che c’è anche una moderna sala operatoria … forse la nostra coscienza si placa un po’…
Ritorniamo alla nostra casa, dalla nostra famiglia. Abbiamo ancora un po’ di difficoltà a delineare le varie discendenze e parentele: figli, cugini, nipoti. Qui vige ancora il senso della “famiglia”. Nessun bambino sarà mai orfano perché ci sarà sempre qualcuno (della famiglia o vicino di casa) che si prenderà cura di lui. Cerchiamo di rispettare le regole e le tradizioni di questo fiero popolo: nei rituali, nei pranzi e nelle cene, nel rispetto dei bambini, delle donne e degli anziani.
Le stanze principali delle case sono confortevoli. Cuscini piccoli e grandi sono l’unico arredamento. Nei campi profughi non vi è nulla di definitivo perché basta il minimo indispensabile per sopravvivere bene. Lo ripetono da 44 anni da quando il controllo dei loro territori è passato dalla colonia spagnola a quella – illegale e sanguinaria – imposta dall’invasione marocchina nel 1976. Non utilizzare il cemento – qui – è una scelta politica. Una sera, all’imbrunire, i nostri piccoli amici ci hanno preso per mano e ci hanno portato a vedere la “casa delle bottiglie”. Un progetto di Tateh Lehbib per realizzare case con bottiglie di plastica riempite di sabbia. In tutti i campi ci sono 25 case realizzate in questo modo.
L’ultimo appuntamento, a Dakhla, sarà con le dune. Un naturale parco dei divertimenti … difficile dire quali siano state le emozioni e le sensazioni in quei momenti!!!
Lasciamo, a malincuore Dakhla. Forse è troppo dire che dopo soltanto due giorni ci siamo affezionati ma, si sa, non esistono regole del cuore. Alcuni dei bambini e bambine si nascondono o vanno lontano … hanno ragione: il saluto presuppone un distacco. Ma, ormai, un filo che ci terrà uniti per sempre è stato creato.
Ritorniamo a Auserd, a casa di Salek. È il 31 dicembre e solo la torta fatta da Kaltum “Welcome 2020” ci ricorda questa data. Per il pomeriggio è stata organizzata una festa con i bambini e bambine ospiti, nell’estate 2019, in alcuni comuni del Lazio. Rivederli lì mi fa un certo effetto … trattengo, molto spesso, l’emozione e, discorrendo in spagnolo, arabo e italiano, trascorriamo il pomeriggio tra risate, fotografie, giochi e sorrisi. Ho portato con me il gioco “Uno” e le carte da gioco italiane. Attorno ad un tavolo organizziamo giochi di prestigio (tre trucchi imparati da ragazzina da mio padre che riciclo sempre in queste particolari occasioni) e la famigerata “scopa” italiana così da esercitare un po’ di matematica e imparare i numeri. Disegniamo e coloriamo insieme. Regalo a Mariude e Rafia i libri “Piccolo blu e piccolo giallo” e “Tutti in coda”. I “silent book” (come socia IBBY) li ho utilizzati spesso con i migranti sia a Lampedusa, sia a Roma. E, anche qui, creano “ponti” inaspettati. La giornata sembra non avere più fine … rimani senza parole di fronte al rubeo tramonto, aspetti l’imbrunire e l’accensione del cielo, cerchi un po’ di solitudine (difficile da queste parti) per riflettere un po’ e per elaborare tutto ciò che si sta vivendo ma … all’interno già ci aspetta il “thè con il latte” della sera e le chiacchiere in famiglia.
Il giorno dopo è prevista la visita al “muro”: 2720 km di muro (di sabbia e fango) in pieno deserto; 20 mila km di sfilo spinato controllato a vista dall’esercito marocchino e 6 milioni di mine antiuomo e anticarro. Siamo un bel gruppo – scortati – e ben protetti. Nonostante tanti diktat e proclami – al mondo – ci sono ancora, troppi muri “dimenticati” e che dividono. Quasi due ore di vero “Camel Trophy” per arrivare nel punto consentito. Una Parigi-Dakar in piena regola … ma lo spirito con cui ci avviciniamo alla meta sicuramente è diverso. Scrutiamo i nostri amici Saharawi e vediamo, nel loro volto, nel loro sguardo, tutto il loro dolore, tutte le loro speranze. In religioso silenzio percorriamo un breve tratto del deserto … delimitato da alcune pietre per evitare le mine e … in lontananza vediamo piccoli minuscoli puntini neri. È l’esercito marocchino che ci ha visto da lontano. Si apre una bandiera della RASD e si fa il segno di vittoria con le dita. Un piccolo omaggio, da parte nostra, al loro sacrificio, alle loro scelte, alla loro vita.
Durante il ritorno ci fermiamo, in pieno deserto, per il pranzo. Il solito braciere per il thè, un piccolo fuoco acceso all’impronta, spiedini di carne di cammello, pane, datteri e “cous cous”. E tanta libertà, nonostante tutto.
È difficile tenere una sorta di diario di viaggio. Troppe le emozioni, le suggestioni, le impressioni. Forse la cosa migliore è lasciarsi trasportare da questo flusso ininterrotto di esperienze di vita, in un continuo altalenarsi tra idee acquisite, pregiudizi e smentite. Stiamo vivendo il “deserto”: uno dei luoghi più inospitali della Terra ma, nello stesso tempo, uno dei luoghi più ospitali (qui l’ospite è veramente “sacro”). Continua a leggere →

Rosa Luxemburg, nel tempo, oggi

15 martedì Gen 2019

Posted by letteremigranti in anniversari, letture, Memoria, Storia

≈ Lascia un commento

Tag

Anna Maria Curci, Karl Liebknecht, letture, Maxie Wander, memoria, Rosa Luxemburg, storia, traduzioni

«La libertà solo per i sostenitori del governo, solo per i membri di un partito – per quanto numerosi possano essere – non è libertà. La libertà è sempre libertà di chi pensa diversamente». (Rosa Luxemburg:”Freiheit nur für die Anhänger der Regierung, nur für die Mitglieder einer Partei – mögen sie noch so zahlreich sein – ist keine Freiheit. Freiheit ist immer Freiheit des Andersdenkenden.”)

Questo è vero, e lo è con un discreto grado di esattezza, per ciò che riguarda le debolezze della società. Di ogni società. Questa storia dell’io e del suo giocare a fare effetto – perché non è cresciuto! Questa brama cieca di fare colpo sempre e dappertutto, di pretendere lodi e di parlare sempre degli stessi successi. Solo se ci confrontiamo quotidianamente con le contraddizioni della vita le nostre forze possono crescere, la società può rimanere viva. Ed ecco qui la frase che ho trovato in Rosa Luxemburg, che porto con me e che mando a tutti i nostri amici: «Solo una vita non repressa e spumeggiante perviene a mille forme nuove, a improvvisazioni, ottiene forza creatrice, corregge da sola tutti i propri sbagli. Per questo la vita pubblica degli stati a libertà limitata è così misera, così disagiata, così schematica, così arida, perché escludendo la democrazia si preclude le fonti viventi di ogni ricchezza, di ogni progresso spirituale!»
(da: Maxie Wander, Ein Leben ist nicht genug. Tagebuchaufzeichnungen und Briefe – “Una vita non è abbastanza. Diari e lettere” – a cura e con una premessa di Fred Wander, Frankfurt 1990; la traduzione del brano è di Anna Maria Curci)

100 anni fa, il 15 gennaio 1919, Rosa Luxemburg fu rapita e, insieme a Karl Liebknecht, uccisa da ufficiali della Garde-Kavallerie-Schützen-Division. Dal carcere di Berlino nella Barnimstraße aveva scritto a Sonja Liebknecht il 5 agosto 1916: «Bleiben Sie tapfer und lassen Sie sich nicht niederdrücken», «Rimanga coraggiosa e non si faccia buttar giù». Raccolgo oggi, per tutti i giorni, l’invito di Rosa Luxemburg.

Gaia Spera, Distanze (recensione di Brunella Bassetti)

03 martedì Ott 2017

Posted by letteremigranti in anniversari, Brunella Bassetti, letture, Recensioni, Storia, Uncategorized

≈ Lascia un commento

Tag

3 ottobre 2013, A.P.N. editrice, AfricanPeopleNews, Brunella Bassetti, Gaia Spera, immigrazione

Gaia Spera, Distanze,  A.P.N. (AfricanPeopleNews), Roma, 2017, pp. 48

Sentire come una perdita la morte
Di coloro che non abbiamo mai visto –
Implica una Vitale Affinità
Fra la nostra Anima – e la loro –
Per l’Estraneo – gli Estranei non si piangono –
(E. Dickinson, Poems, trad. G. Ierolli)

Il 3 ottobre si celebra la “Giornata della Memoria e dell’Accoglienza” (istituita dalla Legge 45/2016) con lo scopo di ricordare e commemorare tutte le vittime dell’immigrazione e promuovere iniziative di sensibilizzazione e solidarietà.
Una data dall’alto contenuto simbolico che ricorda il giorno in cui – nel 2013 – 368 persone tra bambini, donne e uomini persero la vita in un naufragio a largo dell’isola di Lampedusa.
Qualche giorno dopo l’immane tragedia mi sono trovata sulla “zattera d’Europa” per un campo di volontariato con l’associazione Ibby Italia. E, naturalmente, le emozioni vissute attraverso i media si sono amplificate e sono diventate cassa di risonanza in quei giorni intensi vissuti a stretto contatto con la popolazione – locale e immigrati – di questo scoglio (sinonimo alternativamente di morte e/o di solidarietà e accoglienza) in mezzo al Mediterraneo.
“Nel villaggio, quando i bambini vivevano in povertà, arrivò un re che schiavizzò tutte le persone. Un giorno, il figlio del re Giasone XVII si recò dagli schiavi e disse loro: “Scappate! Ma prima costruiremo dei robot che vi somigliano; così ogni volta che mio padre – il re – darà dei colpi di frusta loro si ribelleranno e alla fine lo uccideranno” … Allora il principe con le poche informazioni che aveva ricevuto mise delle telecamere nella loro vita … Allora in città c’era un funerale ma era un inganno. Era una finzione … non si sa quello che accadrà dopo … (La corona misteriosa)”.
Quello riportato sopra è lo stralcio di un racconto scritto da una bambina delle elementari durante un nostro laboratorio. In un certo senso è la “trasfigurazione” fantastica di quello che in quei giorni, in quelle settimane non solo gli adulti ma anche i bambini avevano vissuto e sofferto. Continua a leggere →

Sandra Luigia Rebecchi, Con mezzi propri

18 mercoledì Mag 2016

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Prosa, Recensioni, Sandra L. Rebecchi, Scuola, Storia

≈ Lascia un commento

Tag

Daniel Pennac, periferia, prosa, recensioni, Roma, Sandra Luigia Rebecchi, Scuola

Rebecchi_Con_mezzi_Propri

Sandra Luigia Rebecchi, Con mezzi propri, Nulla Die edizioni 2014

Nota di lettura di Anna Maria Curci

Mi sono spesso domandata quale relazione intercorra tra l’amore per la lettura e la sua appassionata opera di ‘contagio’ virtuoso da un lato e la vocazione pedagogica dall’altro. Scorgo legami stretti ancorché di non immediata percezione e li riassumo in termini tanto fuori moda da apparire retorici: rispetto per sé e per gli altri, curiosità, desiderio di indagare senza invadere, di accendere la luce dell’esplorazione senza far brillare la miccia dell’esplosione, fosse pure per spianare le differenze.  C’è in entrambi i termini della questione (e nella sostanza ai quali questi termini si riferiscono)  un ottimismo, non velato, sì, eppure accompagnato dalla chiarezza nel discernere all’interno dei dati reali – come li percepiamo, come arrivano a noi – che senz’altro smorza ogni velleità celebrativa.  C’è nell’una e nell’altra molla della ricerca una disponibilità a muoversi, a camminare, a cercare conferme e ad accettare smentite, a considerare punti di vista diversi, a vedere quello che si può cambiare, ad agire di conseguenza. Non si sale su carrozze imbottite e a prova di sobbalzi, insonorizzate e impermeabili alle dissonanze, ma si persegue, talvolta optando necessariamente per più d’una scomodità, l’obiettivo dell’uso di strumenti autonomi. Autonomi sì, ma non autarchici. Per queste affinità e in ragione della complessità dei loro intrecci, delle loro conversazioni, di osmosi e contrappunti, ritengo che Con mezzi propri di Sandra Luigia Rebecchi restituisca con franchezza e partecipazione un esempio vissuto, meditato e qui narrato di dialogo continuo tra amore per la ricerca, in primis attraverso la lettura, e vocazione pedagogica. In apertura, è proprio l’autrice a sottolineare questa prossimità, scegliendo le parole e l’esperienza di Daniel Pennac, autore dallo straordinario talento narrativo, incantevole redattore del decalogo del lettore in Come un romanzo e, per sua esplicita ammissione, studente ‘salvato’ dall’emarginazione proprio in virtù del talento pedagogico di quegli insegnanti che ‘sanno guardare oltre’ catalogazioni semplicistiche ed erronee di apprendenti e apprendimenti. Continua a leggere →

Franz Marc, a 100 anni dalla morte

04 venerdì Mar 2016

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, anniversari, Arte, Disegni, Storia, Traduzioni, Uncategorized

≈ 2 commenti

Tag

Anna Maria Curci, Bibbia, Blauer Reiter, centenario, Else Lasker-Schüler, Franz Marc, Grande Guerra, Talmud, traduzioni, Verdun

Marc_Zitronenpferd

Franz Marc, Cavallo limone e bue di fuoco del principe Jussuf. China, acquerello, inchiostro da stampa. Cartolina a Else Lasker-Schüler del 9 marzo 1913.

100 anni fa, il 4 marzo 1916, moriva a Verdun, sul fronte occidentale, Franz Marc. Voglio ricordarlo con qualche riga tratta dal carteggio con Else Lasker-Schüler. Un libro a me tra i più cari, che possiedo nell’originale in lingua tedesca. La traduzione italiana, del 1991, è attualmente pressoché introvabile.

Negli anni tra il 1912 e il 1914, l’artista Else Lasker-Schüler, poetessa e autrice di originali disegni, e il pittore Franz Marc, tra i fondatori del Blauer Reiter, ebbero una corrispondenza che si caratterizza per il continuo ricorso a due linguaggi diversi: quello verbale e quello figurativo. C’è un gioco di rimandi a personaggi storici, mitologici e biblici nella corrispondenza, cartoline, lettere e biglietti corredati di illustrazioni originali del pittore e della poetessa.  “Jussuf Prinz von Theben”, Jussuf principe di Tebe, si firmava Else Lasker-Schüler nelle lettere e nelle cartoline inviate a Franz Marc (“mein lieber wundervoller blauer Reiter”, “mio caro prodigioso cavaliere azzurro”, lo chiamava) e alla moglie di lui, Maria. Ne L’arte della fuga Angelo Maria Ripellino scrive, a proposito delle cartoline illustrate che Marc invia a Lasker-Schüler: «quadretti con raffigurazioni di animali, resi con pura forma ritmica, compenetrazione di colori e incantata, tenera, poesia.»

Ecco quello che scrivono Franz e Maria Marc il 9 marzo 1913 a Else Lasker-Schüler:

Zitronenpferd und Feuerochse des Prinzen Jussuff [sic!]

M.

[Sindelsdorf, 9. März 1913, Sonntag.]

Lieber guter Prinz, Es war lieb von Dir, unsrer Mutter zu schreiben, sie hat sich sehr gefreut.

In unser Schlafzimmern flimmern so viel Sterne herein, daß wir kein Sternennachtlichtlein anzuzünden brauchen, so sind wir die Glücklicheren! Wir freuen uns auf die Märzbriefe, wir haben sie uns schon bestellt. Einen Kuß von Deinen blauen Kindern.

Aus: Else Lasker-Schüler – Franz Marc, Mein lieber wundervoller blauer Reiter. Privater Briefwechsel, Artemis & Winkler 1998, 56

Cavallo limone e bue di fuoco del principe Jussuff [sic!]

M.

[Sindelsdorf, 9 marzo 1913, domenica.]

Caro buon principe, è stato carino da parte tua scrivere a nostra madre; se ne è rallegrata molto.

Nella nostra camera entrano, pulsando,  così tante stelle, che non abbiamo più bisogno di accendere lumini da notte stella, così siamo noi, se vogliamo metterci a paragone, quelli più felici! Non vediamo l’ora di ricevere le lettere di marzo, ce le siamo già prenotate. Un bacio dai tuoi bambini azzurri.

(traduzione di Anna Maria Curci)

Quando morì Franz Marc, Else Lasker-Schüler scrisse queste parole:

Der blaue Reiter ist gefallen, ein Großbiblischer, an dem der Duft Edens hing. Über die Landschaft warf er einen blauen Schatten. Er war der, welcher die Tiere noch reden hörte; und er verklärte ihre unverstandenen Seelen.
Immer erinnerte mich der blaue Reiter aus dem Kriege daran: es genügt nicht alleine, zu den Menschen gütig zu sein, und was du namentlich an den Pferden, da sie unbeschreiblich auf dem Schlachtfeld leiden müssen, Gutes tust, tust du mir.

Er ist gefallen. Seinen Riesenkörper tragen große Engel zu Gott, der hält seine blaue Seele, eine leuchtende Fahne, in seiner Hand. Ich denke an eine Geschichte im Talmud, die mir ein Priester erzählte: wie Gott mit den Menschen vor dem zerstörten Tempel stand und weinte. Denn wo der blaue Reiter ging, schenkte er Himmel. So viele Vögel fliegen durch die Nacht, sie können noch Wind und Atem spielen, aber wir wissen nichts mehr hier unten davon, wir können uns nur noch zerhacken oder gleichgültig aneinander vorbeigehen.

In dieser Nüchternheit erhebt sich drohend eine unermeßliche Blutmühle, und wir Völker alle werden bald zermahlen sein. Schreiten immerfort über wartende Erde. Der blaue Reiter ist angelangt; er war noch zu jung zu sterben.
Nie sah ich irgendeinen Maler gotternster und sanfter malen wie ihn. »Zitronenochsen« und »Feuerbüffel« nannte er seine Tiere, und auf seiner Schläfe ging ein Stern auf.
Aber auch die Tiere der Wildnis begannen pflanzlich zu werden in seiner tropischen Hand. Tigerinnen verzauberte er zu Anemonen, Leoparden legte er das Geschmeide der Levkoje um; er sprach vom reinen Totschlag, wenn auf seinem Bild sich der Panther die Gazell vom Fels holte.
Er fühlte wie der junge Erzvater in der Bibelzeit, ein herrlicher Jakob er, der Fürst von Kana. Um seine Schultern schlug er wild das Dickicht; sein schönes Angesicht spiegelte er im Quell und sein Wunderherz trug er oftmals in Fell gehüllt, wie ein schlafendes Knäblein heim, über die Wiesen, wenn es müde war.

Das war alles vor dem Krieg.

Il cavaliere azzurro è caduto, una grande figura biblica, sulla quale aleggiava il profumo dell’Eden. Proiettava sul paesaggio un’ombra azzurra.  Era lui ad essere ancora capace di sentir parlare gli animali; ed era lui a trasfigurare le loro anime non comprese.
Il cavaliere azzurro me lo ricordava sempre dal fronte di guerra: non basta essere benevoli solo con le persone; ciò che infatti fai di buono ai cavalli, lo fai a me, ché essi sono costretti a soffrire indicibilmente sul campo di battaglia.

Egli è caduto. Angeli grandi portano il suo corpo gigantesco a Dio, che tiene nella mano la sua anima azzurra, una bandiera luminosa. Penso a una storia che si trova nel Talmud e che mi fu raccontata da un sacerdote: narra di come Dio stesse in piedi, insieme alle persone, dinanzi al tempio distrutto, e piangesse. Là dove si recava il cavaliere azzurro, donava cielo. Così tanti uccelli volano attraverso la notte, sanno ancora giocare a vento e respiro, ma noi quaggiù non ne sappiamo più niente, sappiamo soltanto farci a pezzi l’uno con l’altro oppure passare l’uno accanto all’altro con indifferenza.

In questa sobrietà si erge minacciosa una smisurata macina di sangue, e presto noi popoli saremo triturati. Continuiamo a procedere sulla terra in attesa. Il cavaliere azzurro è arrivato; era troppo giovane per morire.
Non ho mai visto un pittore dipingere in maniera più divinamente seria e mite di lui: «buoi limone» e «bufali di fuoco» chiamava i suoi animali, e sulla sua tempia si accendeva una stella.
Ma anche gli animali dei luoghi selvaggi cominciarono a farsi piante nella sua mano tropicale. Col suo incantesimo le tigri diventavano anemoni, attorno al collo dei leopardi avvolgeva il monile delle violacciocche; parlava di puro colpo mortale, ogni qualvolta sul suo quadro la pantera andava a prendersi la gazzella dalla roccia.
Aveva gli stessi sentimenti del giovane patriarca biblico, lui, un magnifico Giacobbe, il principe di Cana. Si caricava sulle spalle la boscaglia fitta; specchiava nella sorgente il suo bel volto e quando era stanco portava spesso per i prati, avvolto in pelli, il suo cuore prodigioso, così come si porta a casa un fanciullino dormiente.

Tutto questo fu prima della guerra.

Else Lasker-Schüler

(traduzione di Anna Maria Curci)

Letture a due voci, 4: Mauro Valentini, Cianuro a San Lorenzo

03 mercoledì Feb 2016

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Letture a due voci, Prosa, Rubriche, Storia

≈ Lascia un commento

Tag

Anna Maria Curci, Letture a due voci, Mauro Valentini, Poetarum Silva, prosa, recensioni, Roma, San Lorenzo, Sandra Luigia Rebecchi, Sovera, storia

copertinaCianurosoloprima

Mauro Valentini, Cianuro a San Lorenzo. La storia di Francesca Moretti, Sovera edizioni, Roma, 2015

Il libro di Mauro Valentini è il resoconto di un fatto di cronaca avvenuto a Roma nel febbraio del 2000. Francesca Moretti, una ragazza marchigiana, sociologa, vive a Roma, nel quartiere di San Lorenzo, con due sue amiche, Mirela e Daniela. Francesca è attiva all’interno dell’Opera Nomadi come operatrice scolastica nei campi Rom. Così ha conosciuto Graziano Halilovic, rom, operatore culturale sposato con figli; Francesca se ne è innamorata e lui sembra ricambiare. Hanno concordato di trasferirsi a Torino in un campo rom per cominciare una nuova vita insieme. La cultura rom consente ad un uomo di sposarsi più volte.

La sera del 22 febbraio del 2000 Francesca si sente male e viene trasportata d’urgenza all’Ospedale S. Giovanni dove muore poche ore dopo. L’autopsia rivela che è stata avvelenata da una dose di cianuro e poiché l’ultima cosa che ha ingerito è stata una minestrina cucinata dalla sua coinquilina Daniela Stuto, la ragazza viene accusata del delitto e trascorreranno due lunghi anni nei quali verrà additata da tutti come la colpevole. Ad aprile del 2002 la ragazza viene assolta per non aver commesso il fatto e verrà assolta in appello nel 2003.

La vita di Daniela Stuto è segnata per sempre dai due anni di indagini, interrogatori ed arresti domiciliari. Il caso è ancora oggi insoluto.

Ecco, pensavo scrivendo questo commento, poche parole e la cronaca è completata. La cronaca, cioè la registrazione dei fatti fatta in modo impersonale e mancante di qualsiasi criterio interpretativo. È questo l’intento di Mauro Valentini nel suo libro? Fare un resoconto dei fatti  particolareggiato, attentamente documentato, ricavato da atti ufficiali ormai pubblici, resoconti di intercettazioni telefoniche, arringhe del PM e dell’avvocato della difesa? La si può definire una cronaca?

Fin dalle prime pagine il lettore diviene partecipe in qualche modo dei fatti e fa la conoscenza dei protagonisti e non è una conoscenza asettica, perché fin dall’inizio si viene proiettati nel mondo delle tre ragazze che condividono appartamento e giovinezza, abitudini ed esperienze. Il fatto che abitino in un quartiere popolare con una storia dolorosa alle spalle, il fatto che l’appartamento sia situato nel quartiere di San Lorenzo è di certo per il lettore romano qualcosa che fa la differenza. È un posto “famigliare”, mentre risulta spontaneo pensare che certi fatti di cronaca nera avvengano sempre “altrove”.

Ma allora quello di Valentini è il racconto di una storia. In effetti il giornalista ricostruisce ordinatamente gli eventi, oggetto di una sua indagine critica che riferisce al lettore collegandoli nel corretto sviluppo temporale. Allora si tratta di una storia? E anche qui la risposta è difficile, perché le pagine di Valentini trascinano come quelle di una storia, anche se fin dall’inizio si è ben consapevoli che finire di leggere il libro non ci porterà a nessuna conclusione, per il semplice fatto che conclusione non c’è stata.

È proprio questa sensazione di essere di fronte ad una realtà, narrata ma non manipolata, descritta ma non giudicata, essenziale senza tralasciare nessun particolare, che rende interessante e coinvolgente la lettura.

Questo tipo di racconto è mille volte lontano da quello urlato, ad effetto, troppo deciso nelle conclusioni, caratteristico della pagina di cronaca di un qualsiasi giornale. E forse è questo che attira il lettore e che gli dà la sensazione di conoscere da vicino i protagonisti dei fatti.

@Sandra L. Rebecchi

Un fatto di cronaca, un rebus, una drammaturgia. La ricostruzione dei fatti intorno alla vicenda che viene ancora oggi ricordata come “il caso della minestrina al cianuro” diventa in Cianuro a San Lorenzo di Mauro Valentini costruzione di un’opera a più voci della quale il cronista-autore mantiene ben saldo il timone. Si badi bene: Mauro Valentini non bara, non falsa le carte, non offre sacrifici sull’altare del facile effetto, eppure riesce a incatenare chi legge alle vicende di Francesca Moretti, la giovane sociologa marchigiana morta a Roma al pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni, alle 19, 35 del 22 febbraio 2000, dopo essere stata ricoverata d’urgenza per dolori lancinanti. A pranzo aveva mangiato soltanto una minestra con il formaggino, preparata da una delle ragazze che con lei divideva l’appartamento nel quartiere romano di San Lorenzo. È la minestrina la causa del decesso? E se questa è stata avvelenata, chi ha messo il veleno? E le medicine che Francesca prendeva da giorni per la lombo-sciatalgia? Di tutto questo tiene conto e dà conto Mauro Valentini, distribuendo voci e passi a una costellazione di personaggi di diverse culture e provenienze. Altra non è, questa costellazione, se non quella delle persone che, nella vita di Francesca, dalla nascita agli ultimi giorni, hanno occupato un posto di primaria o di secondaria importanza, ma che un ruolo nelle vicende di Francesca hanno svolto. Provengono da varie parti dell’Italia, questi personaggi, o da altri paesi europei, come Mirela Nistor, romena, una delle due coinquiline di Francesca,  oppure appartengono a culture percepite come molto distanti e viste con diffidenza, come Graziano Halilovic, rom, sposato, padre di cinque figli,  che  con Francesca ha una storia d’amore. Sono donne e uomini in carne e ossa, non solo personaggi, ovviamente, e ci vengono incontro, attraverso le pagine di Cianuro a San Lorenzo, con le loro deposizioni, le confidenze, i gesti riferiti, con i loro tic, le loro manie, le reticenze su alcuni aspetti e, d’altro canto,  la sovrabbondanza – quasi un fiume, se si pensa, ad esempio, alla deposizione di Antonella, amica di Francesca, al processo – di dettagli su altri aspetti. Uno dei meriti di Mauro Valentini va individuato senz’altro nella capacità di dare alle vicende narrate e alle persone coinvolte sia la veridicità della cronaca sia l’animazione drammaturgica.

Anche i luoghi, gli interni come gli esterni, assumono in Cianuro a San Lorenzo il ruolo di indicatori del contesto in cui si svolgono i fatti e, allo stesso tempo, di veri e propri personaggi. Il quartiere di San Lorenzo è, ovviamente, in primo piano, con i suoi locali, le botteghe, lo scalo ferroviario e i piloni della Tangenziale, con la sua storia ricca di eventi e l’impatto sull’immaginario collettivo, ma pagine significative vengono dedicate anche alla città natale di Francesca Moretti, Pesaro, così come a quella di Daniela Stuto, Lentini. Daniela Stuto è l’altra coinquilina di Francesca in quel tragico febbraio 2000; Daniela è la giovane donna accusata dell’omicidio di Francesca. Come e perché si sia arrivati a quell’accusa, con quali sentenze si siano conclusi i processi lo apprenderemo nel corso della lettura.

Lo studio preparatorio, le indagini sulle indagini che hanno preceduto e accompagnato la stesura di questo libro, tuttavia, permettono a chi legge di apprendere molto di più delle semplici risultanze dei due gradi di giudizio. Chi legge entra nel vivo del dibattito processuale, impara a conoscere dinamiche relazionali e caratteristiche dei singoli individui che formano la costellazione qui presentata attraverso documenti e testimonianze. Si fa strada e prende corpo, così, un’ipotesi di soluzione del caso che smentisce le vie finora prevalentemente seguite.

Una nota a parte deve essere dedicata agli approfondimenti che arricchiscono Cianuro a San Lorenzo e che offrono scorci di varia natura, dalla panoramica sull’avvelenamento al cianuro nel cinema e nella letteratura, alle indagini compiute dallo stesso Mauro Valentini tra gli artigiani del popolare quartiere romano sulla possibilità di accedere al veleno mortale, ai veri e propri ‘studi di caso’ compiuti su misteri e delitti che presentano analogie con la storia di Francesca Moretti.

© Anna Maria Curci

La nota di Anna Maria Curci è apparsa precedentemente su “Poetarum Silva”, qui

← Vecchi Post

Migrazioni

  • Anna Maria Curci
  • Il Network
  • Informativa

Categorie

  • Anna Maria Curci
  • anniversari
  • Arte
  • Brunella Bassetti
  • Cinema
  • Cristina Bove
  • cronache
  • Disegni
  • Gialli
  • Giovanna Amato
  • interviste
  • la domenica pensavo a Dio/sonntags dachte ich an Gott
  • Laura Vazzana
  • Lettere migranti
  • letture
  • Letture a due voci
  • Lutz Seiler
  • Memoria
  • Migranti
  • Musica
  • Narrativa
  • Per le strade di Roma
  • Pittura
  • Poesia
  • Poesia in due lingue
  • Prosa
  • Racconti
  • Recensioni
  • Reiner Kunze
  • reportage
  • Romanzi
  • Rubriche
  • Sandra L. Rebecchi
  • Scuola
  • Simonetta Bumbi
  • Storia
  • Teatro
  • Traduzioni
  • Uncategorized

Ultime Migrazioni

  • Maria Pina Ciancio, Tre fili d’attesa (nota di Rosaria Di Donato)
  • La forza della verità in “Autobiografia del silenzio” di Cinzia Marulli (di Sonia Giovannetti
  • Annamaria Ferramosca, Come si veste di luce il buio (su “Insorte” di Anna Maria Curci)

Archivi

  • dicembre 2022
  • ottobre 2022
  • agosto 2022
  • luglio 2022
  • giugno 2022
  • aprile 2022
  • febbraio 2022
  • gennaio 2022
  • febbraio 2021
  • agosto 2020
  • luglio 2020
  • marzo 2020
  • gennaio 2020
  • gennaio 2019
  • agosto 2018
  • gennaio 2018
  • ottobre 2017
  • settembre 2017
  • gennaio 2017
  • ottobre 2016
  • settembre 2016
  • agosto 2016
  • luglio 2016
  • giugno 2016
  • Maggio 2016
  • marzo 2016
  • febbraio 2016
  • gennaio 2016
  • novembre 2015
  • ottobre 2015
  • settembre 2015
  • agosto 2015
  • marzo 2015
  • gennaio 2015
  • dicembre 2014
  • ottobre 2014
  • settembre 2014
  • luglio 2014
  • giugno 2014
  • Maggio 2014
  • aprile 2014
  • marzo 2014
  • febbraio 2014
  • gennaio 2014
  • dicembre 2013
  • novembre 2013
  • ottobre 2013
  • settembre 2013
  • agosto 2013
  • settembre 2012
  • agosto 2012

lettere migranti allinfo.it bumbimediapress.com l’ideale network di allinfo anna maria curci

  • Registrati
  • Accedi
  • Flusso di pubblicazione
  • Feed dei commenti
  • WordPress.com

RSS Allinfo.it

  • Si è verificato un errore; probabilmente il feed non è attivo. Riprovare più tardi.

RSS L’Ideale

  • La lista Fontana Presidente – Lombardia Ideale alle elezioni in ... - Fanpage.it
  • Picco di contagi di influenza gastrointestinale: i quattro consigli per curarsi al meglio (e guarire prima) - Il Fatto Quotidiano
  • Sanremo 2023, Fuortes: "Zelensky? Escludere la guerra sarebbe ... - Adnkronos
  • Alto Adige. Tra ciaspole, sci di fondo, alberghi igloo e miniere. Valle Aurina, neve e lentezza - la Repubblica

RSS esti kolovani

  • Che succede a Lampedusa? Fuochi razzisti, l’ennesima orribile pagina di violenza e intolleranza verso il migrante.

RSS il blogascolto

  • BOB DYLAN, Shadows in the Night (2015)

RSS il blogfolk

  • Allen Collins, il magico chitarrista Southern Rock dei Lynyrd Skynyrd

RSS bumbimediapress

  • Si è verificato un errore; probabilmente il feed non è attivo. Riprovare più tardi.

Lettere Migranti

Lettere Migranti

Le ultime migrazioni

  • Maria Pina Ciancio, Tre fili d’attesa (nota di Rosaria Di Donato)
  • La forza della verità in “Autobiografia del silenzio” di Cinzia Marulli (di Sonia Giovannetti
  • Annamaria Ferramosca, Come si veste di luce il buio (su “Insorte” di Anna Maria Curci)
  • Salvatore Statello, Ines de Castro (nota di Norma Stramucci)
  • Reiner Kunze, CROCE DEL SUD

Crea un sito o un blog gratuito su WordPress.com.

Privacy e cookie: Questo sito utilizza cookie. Continuando a utilizzare questo sito web, si accetta l’utilizzo dei cookie.
Per ulteriori informazioni, anche sul controllo dei cookie, leggi qui: Informativa sui cookie
  • Segui Siti che segui
    • Lettere migranti
    • Segui assieme ad altri 82 follower
    • Hai già un account WordPress.com? Accedi ora.
    • Lettere migranti
    • Personalizza
    • Segui Siti che segui
    • Registrati
    • Accedi
    • Segnala questo contenuto
    • Visualizza il sito nel Reader
    • Gestisci gli abbonamenti
    • Riduci la barra
 

Caricamento commenti...