Silvano Tessicini, Battito d’ali, La Caravella editrice, Roma, 2017, pp.106
“Il tuo progetto è scritto nel palmo delle mie mani” (cfr. Isaia, 46, 15-16)
Bisogna diffidare di quelle persone che sostengono che un “grande” dolore (di qualsiasi natura esso sia) si possa superare. Ci si può convivere, ma è cosa ben diversa. È al pari di una modificazione genetica. Crea “disabilità” e si diventa “diversamente abili” nell’affrontare la vita. Si perde il senso della vita perché è la vita a non avere più senso, o almeno così sembra.
Il protagonista di questo romanzo – Sergio – ci narra la sua personalissima esperienza, il suo travaglio interiore, la sua lotta quotidiana, le sue emozioni e sensazioni legate al superamento, all’accettazione della morte improvvisa, per un tragico incidente, della sua piccola figlia Andrea.
Un tema su cui si è scritto molto e si continuerà a scrivere, negli ultimi anni anche su basi scientifiche, grazie all’evolversi di metodiche specialistiche quali la “Narrative Based Medicine”.
L’Autore di questo breve ma intenso romanzo lo fa alla sua maniera attingendo dalla sua vita privata e professionale mezzi e strumenti di narrazione che gli appartengono. Arte cinematografica, pittura, poesia sono le quinte di questa vicenda umana, fanno da sfondo al lutto di Sergio ma, nello stesso tempo, accompagnano il lettore – o meglio fanno da eco – a quelle domande universali legate al senso della vita e, quindi, inevitabilmente anche al senso della morte. Anche i momenti più tragici e drammatici di questo percorso sono descritti con una delicatezza rara e con rispetto umano. È un tunnel che si deve attraversare, percorrere se si vuole ritornare a vedere la luce. Il dolore va accolto, va amato nelle sue mille sfaccettature, non bisogna farsi sconti anche quando l’estrema decisione appare, esclusivamente, come l’unica soluzione salvifica.
A una prima lettura si è catturati dalla storia di Sergio, dai suoi pensieri, dalla sua disperazione; rileggendolo, tuttavia, si può notare come alla fine sia – anche – un romanzo corale dove tutti i protagonisti (o co-protagonisti) stiano attraversando un loro particolare momento della vita.
Molto interessante, dal punto di vista narrativo e descrittivo, l’escamotage di citare alcuni quadri famosi per fissare, come in un piano sequenza, la sensazione del momento. Tre quadri per rappresentare altrettanti stati d’animo del protagonista: “La città che sale” del futurista Boccioni per l’estremo senso di solitudine e di vuoto; il “Cristo morto” del Mantegna che, forse, insieme al “Cristo velato” della Cappella Sansevero di Napoli, è la rappresentazione più bella e vera della deposizione. Una prospettiva diversa nel “vedere” il corpo esamine della figlioletta all’obitorio. Ma, come si sa, la tragicità del sudario è uguale a se stessa in ogni epoca e in ogni dove. Infine, “L’urlo” di Munch: la disperazione.
Scenograficamente parlando due sono i momenti che hanno catturato di più la mia attenzione e immaginazione. Il primo, nelle prime pagine ambientate a San Candido, quando viene descritta la messa in scena della sacra rappresentazione della Pasqua. Mi è tornato in mente il film “La Passione” di Mazzacurati. Sono pagine molto forti e anche molto intense: l’eterno dilemma di conciliazione tra la nostra e la volontà di Dio. Ma quale volontà di Dio? Giuda è stato funzionale al piano della Salvezza ma sarà stato “salvato” in un gesto estremo di misericordia dal Padre? “Perché Dio lo aveva risparmiato mentre Giuda aveva consumato nel suicidio la sua disperazione?” (cfr. pag. 32). Continua a leggere