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Maurizio Rossi, La ruota di Duchamp (nota di Anna Maria Curci)

16 giovedì Mar 2023

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Anna Maria Curci, edizioni Cofine, La ruota di Duchamp, Maurizio Rossi, recensioni, romanzi, Sandro Montanari

Maurizio Rossi, La ruota di Duchamp. Prefazione di Sandro Montanari, Cofine Edizioni 2022

C’è un confine tra io e noi
una discreta linea d’orizzonte
quando per mare vai
e trascolora con la luce, a volte
si confonde, dispiegato e onde,
un fascio d’energia
nel prisma delle ore
a declinare voci della mente
e toni dell’anima.
Intanto ad Occidente vai
– solitudine e abbraccio –
vele tese sottovento
a precedere la notte.

Maurizio Rossi, La linea incerta

 

Come i versi posti in esergo, tratti dalla poesia La linea incerta, tutto il romanzo di Maurizio Rossi La ruota di Duchamp – il cui titolo fa riferimento, come osserva Sandro Montanari nella Prefazione, alla “stabile disarmonia”, al centro di quest’opera, così come lo è per Ruota di bicicletta di Marcel Duchamp – si muove tra poli che si contrappongono e che pure sono complementari, giacché è del loro coesistere che si nutrono le vicende umane.
La prima coppia è quella indicata dalla poesia menzionata: io e noi. Il cammino che separa «la linea incerta tra io e noi» passa per la riscoperta del sé, un sé che gradualmente, non senza soste, momenti di stallo e scossoni dolorosi, accoglie i propri limiti e, allo stesso tempo, impara ad apprezzare le proprie inclinazioni, i propri talenti sprofondati in precedenza nella disistima, nei “j’accuse” propri e altrui. È il cammino che percorrono i due protagonisti del romanzo, Umberto e Valeria, tanto che non è azzardato affermare che la storia del loro incontro si sviluppa includendo la storia della loro formazione e della loro trasformazione.
Un’altra coppia di ‘opposti complementari’ che riveste un ruolo centrale nel romanzo è quella della malattia e della guarigione. I due poli sono messi in evidenza sia dalla collocazione temporale delle vicende narrate, ambientate all’epoca dell’emergenza sanitaria per l’epidemia di Covid-19, sia dall’irrompere della malattia nelle biografie dei protagonisti. Un episodio, in particolare, segnerà il passaggio dalla prima alla seconda parte del romanzo.
Anche per la coppia malattia-guarigione va messa in evidenza la dinamicità del romanzo, che cresce e si evolve, trasformandosi in progressivo divenire, insieme ai suoi personaggi. La malattia comprende anche i traumi che hanno provocato profonde cesure nella vita di Umberto e di Valeria, in particolare nei rapporti con i partner precedenti. La guarigione passa per un altro nodo fondamentale, un nodo che va sciolto: è quello del perdono, del perdono di sé stessi e del perdono di chi ha inferto la ferita.
L’attesa, la riflessione, l’attenzione, il perdono, possono essere ricondotti alla parte femminile della psiche, che cerca e trova, almeno in questo romanzo, una riconciliazione con la parte maschile. Anche in questo caso il processo di incontro e coesistenza sempre più consapevole ne esalta la dinamicità. L’equilibrio non è acquisito una volta per tutte, ma si ricombina continuamente. Il processo è, inoltre, così come avviene per gli altri nuclei, sia interiore che esteriore, sia individuale che attento alle dimensioni collettive.
Non tanto in contrapposizione, quanto piuttosto in una complementarità che superi pregiudizi e posizioni secolari, è il concetto di paternità rispetto alla maternità. In tal senso la vicenda di Umberto è paradigmatica, giacché egli, provenendo dalla trascuratezza che gli viene rimproverata e che senz’altro paga anche duramente, se si pensa alla scelta di Cristina, sua moglie, e alle recriminazioni che per anni gli esprimono le figlie Francesca e Serena, giunge a una pienezza che abbraccia cura e sollecitudine.
Sono molte, del resto, le figure paterne che illuminano la storia, dal padre di Umberto, ricordato con devozione e riconoscenza, al professor Albergati, nel cui affetto paterno trova conforto Valeria.
Arte e scienza, e tra le scienze in particolare la medicina, vista la professione di Umberto, ora in pensione, sono un binomio che si confronta già nella stessa persona del protagonista maschile del romanzo, attratto dall’arte in senso lato, curioso e appassionato, e scienziato, sia pure di una scienza come la medicina, nella quale i dati empirici e le numerose variabili, esaltate e messe in primo piano dall’emergenza pandemica, non possono fare a meno, a rischio di un fallimento totale, di un’attenzione, continua e sollecita, all’aspetto squisitamente umano.
All’interno del vasto ambito dell’arte, inoltre, come già mostra l’incipit del romanzo, con la descrizione dettagliata dell’interno di San Lorenzo fuori le mura in attesa del concerto, la coppia degli ‘opposti complementari’ architettura e musica convive in maniera significativa non solo per ciò che concerne le predilezioni dei due protagonisti, di Valeria e di Umberto e in quest’ultimo in misura più evidente, ma anche per quanto riguarda le caratteristiche dello stile di Maurizio Rossi in questo romanzo. Si tratta infatti di uno stile che alla musicalità di una prosa, che ha fatto tesoro della consuetudine con il ritmo e la sonorità della poesia, unisce gli elementi architettonici della struttura rigorosa, che alterna i brani in tondo (lo svolgersi dei fatti) e in corsivo (il ricordo, gli antefatti, che nella seconda parte sono anch’essi riportati al tempo presente, in un continuum che mette in evidenza quanto, del passato, sia vivido e attuale e quanto, nella vita vissuta, sia importante il bagaglio di memorie che portiamo con noi).
Anche i luoghi che accolgono i tratti delle esistenze delle persone in questo romanzo si animano di vita fino a diventare realtà diverse, talora contrapposte, sempre complementari: sono i quartieri romani di Centocelle e San Lorenzo, sono Roma, la città, e il litorale di Santa Marinella per Umberto, sono Roma e Ancona, Ancona e Bologna per Valeria.
I sentimenti e gli stati d’animo in gioco sono anch’essi complementari e contrapposti: curiosità, slancio, diffidenza, timore, gioia, dolore, malinconia. Ciò che si attenua, nel volgersi del romanzo verso il futuro, come scoprono con riconoscente stupore i due protagonisti, è, finalmente, il rimpianto per le occasioni perdute.

©Anna Maria Curci Continua a leggere →

Simone Zafferani, L’ora delle verità (rec. di Giovanna Amato)

14 martedì Mar 2023

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Giovanna Amato, L'ora delle verità, PeQuod, Poesia, recensioni, Simone Zafferano

Simone Zafferani, L’ora delle verità

Allora bisognò mettersi in ascolto,
trascrivere l’udibile in un gesto,
luminosamente fare

Leggo le poesie di Simone Zafferani con una sensazione di convivenza degli estremi. Ci sono versi che accecano, ma con maniere di gentilezza. Un senso di spalancamento, ma senza bufere, con un refolo di stampo educato. Provo un camminare quieto su un rivolo di sabbia ma con qualche improvviso strattone, come di vipera che si drizza dalle dune, tanto velenosa (e mai tossica) sa essere la bellezza dei suoi versi.
C’è un senso di nido che mi ha permesso di scivolare nelle poesie di Zafferani con confidenza nei loro smottamenti: in L’ora delle verità, edito da Pequod all’inizio di quest’anno, mi sembra di acciuffare l’eco tematica, ma anche ariosamente ritmica, di due poetesse da me molto amate, la Dickinson delle poesie più pacate (per quanto sempre in Dickinson si tratti di pacatezza che ribolle) e la Bre delle superne dolcezze di Le barricate misteriose. Immagino che questo sia perché, ancora convivenza degli estremi, la sua poesia sa essere estremamente naturale, pacata e aperta così come d’improvviso cosmica:

E dopo saremo anche noi
silenziosa matematica di luci
tutta fatta di segni e noi stessi segni di qualcosa
– diremo fulmine, pianoro, subsidenza
cambiando la causa con l’effetto.
Ci sopravvivrà la coscienza di quel sovvertimento
l’avere fatto a meno delle stelle
per orientarci nel buio del frattempo.
Saremo tutt’uno con la cosa precipitata
e adesso smetto di pensarlo,
lo so, non lo conosco.

La poesia è questione quasi sciamanica (Quel suono che ti inghiotte, / la musica dell’alba, / rifallo fino a che non ti sfinisce […] Ma tu resisti fino a dove / quel suono trova il nome che lo spezza / e senza compimento te lo rende) e sciamanici sono gli occhi con cui si osserva il mondo, e liturgico il modo (E tu stai lì in segreto a celebrare / l’ultima liturgia di questo mondo, / la sua più sostenibile finzione) di stare al suo interno, ma con un sacro che abbatte la separazione che ha in sé, finché l’osservare, il conoscere, il nominare, perfino il camminare sono l’operare con cui si abita e assieme si contribuisce all’esistere del mondo. E la metrica che non si concede mai bruschi strappi diventa ancora più dolce e più larga nella sezione Vite perpendicolari, sorta di Spoon River dei vivi: l’impiegato, il professore, il (se ho colto bene) prete, il contadino, il direttore d’orchestra che per accontentare un desiderio di sua madre intraprende il mestiere e si scopre “canale” attraverso il quale il molteplice si acquieta e permette “all’armonia di esistere trionfando”. E mentre questi ritratti hanno una loro narratività, è visione pura (anzi assoluta acustica) la successiva sezione, Piccola storia boschiva, nella torsione delle sue radici e nei fremiti delle piccole vite sconvolte da un suono. Se si può dire che ciò che è vita coincide con ciò che scambia informazioni in una comunità, questa sezione lo dice certamente come un piccolo capolavoro. Come piccoli capolavori sono alcune scelte di sintagmi (tra tutti, a Marilyn Monroe viene attribuita una “leggerezza esiziale”) e le cartoline da una Roma apocalittica e scura, dalle “albe lunari” e da un fiume “affatato” e dagli alberi caduti e dai passaggi segreti aperti a tutti che mutano chi li percorre dall’interno. Fino all’ultima sezione, Sul finire, un breve e malinconico canzoniere sulla fine e sulla permanenza di ciò che è stato.
Ho seguito il filo delle sezioni così come il suo autore le ha decise per conservare, da una certa distanza, quell’idea di respiro simile all’alternanza di concavi e convessi del Sant’Ivo alla Sapienza. Ho attraversato anch’io questo libro e “non sono uscito come ero entrato”. Come in un diorama, credo di aver pestato tante delle terre del mondo, e di averne avuto, assieme al poeta, cura.

Da questo pianto nasce il tuo futuro.
Lascialo andare ma tienilo con te.
Ti resti il distillato del dolore
per costruirci sopra un abitato.
Dei tuoi singhiozzi fai una collana.
Quello che ora ti appare irreparabile
visto da molto lontano nello spazio
è alchemicamente in sé perfetto.

Il tuo futuro qualcuno già lo vede
e mentre tu piangi lui stupisce.

 

©Giovanna Amato

Maria Lenti, “Beatrice e le altre: a Dante” (rec. di Maurizio Rossi)

26 domenica Feb 2023

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Beatrice, Cunizza da Romano, Dante, Francesca, letture, Loredana Magazzeni, Maria Lenti, Maurizio Rossi, Pia de' Tolomei, Piccarda Donati, plaquette, Poesia, recensioni, Susanna Galeotti, Vivarte

Maria Lenti, Beatrice e le altre: a Dante, con uno scritto di Loredana Magazzeni e una stampa di Susanna Galeotti,  Vivarte, Urbino, 2022  – plaquette d’arte –

Brevità, perché la poesia ha da essere breve; immagini e musicalità, perché la poesia è pittura e musica; sostanza ed emozioni, perché la poesia è cuore e cervello. Non vuole essere un canone poetico né una critica alla poesia in genere: il mio è il riconoscimento per una poetessa che spazia dal dialetto alla lingua e sa essere ironica, arguta e seria quando è opportuno.
Per chi la conosce come scrittrice sa che già in Elena Ecuba e le altre (2019) Maria Lenti rovescia non solo il punto di vista dell’agire umano e le sue conseguenze, ma anche ribadisce la necessità di ri-leggere la storia e l’arte dopo secoli e secoli di dominio maschile. Non si tratta di ribaltare riaffermando una diversa supremazia, ma piuttosto esprimere il primato dell’ascolto – troppo a lungo sminuito – e dell’accettazione della diversità, come premessa e conseguenza di quest’ascolto.
Lo stesso Dante, uomo del suo tempo, sommo poeta, scivola in una visione “di parte” sulle vicende umane, sui sentimenti e sul pensiero. “Cornice, la tua visione della donna, quasi ectoplasma”, Beatrice non usa mezzi termini, ma neanche la violenza verbale: la nettezza di un desiderio espresso con “potenza” femminile (“Io sono io e l’altro è l’altro che desidero non fermato sulla mia forma ma autonomo nei suoi filamenti esistenziali…”). Lei rivendica un’autonomia che riconosce parimenti all’uomo: c’è nella visione tradizionale della donna  una sorta di obbligo ad essere dipendenti l’uno dall’altra, in bene e in male, a realizzarsi solo con l’altrui o del tutto senza l’altrui.
   Francesca dichiara la propria innocenza e verità e soprattutto la verità dell’amore: “Con Paolo ho imparato l’amore, quello che inizia con lo sguardo che cerca l’anima, quello che s’apre ad un incontro-incanto non inusuale…che condivide parole nuove”. Ben altro che lussuria e peccato e il “libro galeotto” è solo “conferma o sconferma del proprio vibrare in conoscenza”.
Pia de’ Tolomei rinuncia alla vendetta per la probabile sua uccisione da parte del marito, non  per accettazione del proprio destino, che la rende inutile, ma a causa della “limpidezza della propria interiorità” per il “dolce quieto vivere pur nella costrizione”. Ed è questo che suscita il sospetto, e che non viene compreso.
   Piccarda Donati, pur posta da Dante nel Paradiso, sente la necessità di “correggere”  la narrazione della sua vicenda da parte del Poeta – nel contesto del disegno divino la sua scelta e la violenza subìta – dichiarando la sua libertà – in libera mente – che scatena la paura degli uomini e il suo coraggio che viene punito, anziché celebrato come accade spesso per quello maschile.
  Cunizza da Romano risponde alla domanda “mi vinse amore?” in modo schietto e diretto: “Rivolto il detto e ne traggo il succo. Non ho negato le mie vene…Ho preso la mia vita nelle mie mani” e sorride e ride dello scandalo e del paradosso che altri le attribuiscono; ma nello stesso tempo si affranca dalla denuncia storico-politica che Dante le attribuisce, a scapito della sua vicenda umana.
Verso lungo, a tratti prosa poetica: la lucida, libera urgenza del dire chiede cesure, più che versi.
E concludo come nella mia lettura di Elena, Ecuba e le altre: “Bene ha fatto, attraverso la Poesia, Maria Lenti con il ritmo, il canto, l’immagine che Lei conosce ed usa, nella scrittura attenta e originale, non priva di intelligente ironia: la sua Poesia è alchimia che scioglie le sinapsi della mente, ricrea le connessioni tra emisfero destro e sinistro, rende agile, riplasmandolo, il pensiero”.

©Maurizio Rossi

Maria Pina Ciancio, Tre fili d’attesa (nota di Rosaria Di Donato)

23 venerdì Dic 2022

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LucaniArt, Maria Pina Ciancio, Poesia, recensioni, Rosaria Di Donato

Maria Pina Ciancio, Tre fili d’attesa. Con una stampa di Stefania Lubatti. Interventi di Anna Maria Curci e Abele Longo, LucaniArt 2022

 

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». (Cesare Pavese, La luna e i falò).

Forte è il legame che unisce l’Autrice a San Severino Lucano, anche se è nata in Svizzera, dove lei rinviene le sue origini esistenziali profonde. È il suo un canto senza tempo che narra il legame ancestrale con un luogo “sospeso”, nascosto alle cronache, ai media e lontano dai social: quasi una favola antica, un mito che ripropone la vita semplice, essenziale di un paese rurale del Sud. “Tre fili d’attesa”, detto popolare lucano, racchiude l’essenza e il significato di una dimensione antropologica contadina di un mondo ancorato al ciclico corso della natura e al senso tragico dell’esistere: rassegnato all’ineluttabile. “Siamo nidi sfilacciati sugli alberi d’inverno”(pag. 11). Eppure vibrano i versi nel dare vita alle storie di persone e di  cose che custodiscono un vissuto sapienziale conteso tra la vita e la morte, tra il tempo della festa e quello ordinario. C’è un brivido che accende come un vento le vie del paese, i suoi muretti, le stanze delle case e percorre le vene del lettore che si ritrova in Gennaro e Vincenzino, in zio Pietro e la sua casa”pittata” di rosso, in Antoniuccio Vito e Mariuccia, Marietta e Giacomino, Antonella e il suo pallone “rincorso” dai cani…a sussurrare tra le pieghe del tempo:”…a bona sciorta / nu lavoro ca cunta / u capattiempo ca vene sempre chiù luntano” (pag. 8). La stampa di Stefania Lubatti impreziosisce il Quaderno poetico n. 1 di M. P. Ciancio stampato in 65 esemplari firmati e numerati. Resilienti, la poesia e l’arte pittorica si fondono in un abbraccio che rischiara il passato nell’attesa che le radici fioriscano

Rosaria Di Donato

23 Dicembre 2022

Maria Pina Ciancio, di origine lucana, è nata in Svizzera nel 1965. Trascorre la sua infanzia tra la Svizzera e il Sud dell’Italia e da qualche anno vive nella zona dei Castelli Romani. Viaggia fin da quand’era giovanissima alla scoperta dei luoghi interiori e dell’appartenenza, quelli solitamente trascurati dai grandi flussi turistici di massa, in un percorso di riappropriazione della propria identità e delle proprie radici. Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia, alla narrativa, alla saggistica. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo Il gatto e la Maria falena (Premio Parola di Donna, 2003), La ragazza con la valigia (Ed. LietoColle, 2008), Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro (Fara Editore 2009), Assolo per mia madre (Edizioni L’Arca Felice, 2014), Tre fili d’attesa (Associazione Culturale LucaniArt 2022). Nel 2012 ha curato il volume antologico Scrittori & Scritture – Viaggio dentro i paesaggi interiori di 26 scrittori italiani.

La forza della verità in “Autobiografia del silenzio” di Cinzia Marulli (di Sonia Giovannetti

30 domenica Ott 2022

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Autobiografia del silenzio. L'orco e la bambina, Cinzia Marulli, La Vita Felice, Poesia, recensioni, Sonia Giovannetti

La forza della verità in Autobiografia del silenzio. L’orco e la bambina  (La Vita Felice, 2022) di Cinzia Marulli

“La poesia ha questo compito sublime
di prendere tutto il dolore che ci spumeggia
e ci romba nell’anima e di placarlo,
di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte,
così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare”.
(Antonia Pozzi)

 

Dopo aver letto il nuovo libro di Cinzia Marulli Autobiografia del silenzio sono stata colta da una duplice, fortissima emozione. La prima, più immediata, dovuta al racconto, in versi e in prosa alternati, dell’atroce esperienza vissuta nell’infanzia. Mi è venuto spontaneo immedesimarmi nelle sensazioni di quella bambina, nella paura e nel ribrezzo suscitate in lei dall’atto abominevole di quell’ “orco”. Sarebbero di certo state le mie, ho pensato, se mi fossi trovata al suo posto; e sarebbe toccato anche a me, com’è stato per lei, vivere per tanto tempo col sordo malessere di quel ricordo, acuito dal non averlo saputo confessare al momento. Ma l’altra e altrettanto grande emozione l’ho provata davanti a una scrittura che ha saputo affidare alla parola l’evocazione di una vicenda autobiografica così intima e dolentissima, ma anche, insieme, di importante valore sociale. Una parola, quella di Cinzia, profondamente poetica e di tale misurata drammaticità da riuscire a comunicare un doppio messaggio: la sua avvenuta guarigione, innanzitutto; il superamento di un malessere dell’anima a lungo sopportato. Ma anche, al tempo stesso, un esempio di come la parola della poesia, che Cinzia coltiva con preziosa chiarezza, sia stata essa stessa parte della cura, lenimento di quelle ferite: “La bambola dimenticherà quelle mani sporche…ognuno trova poi il suo riparo/ quel luogo sicuro e sacro dove non sentire”.
Ecco, tutti questi pensieri e queste emozioni acutissime sono affiorati in me sin dalle prime pagine di questo libro “difficile”, difficile sia per chi con coraggio lo ha scritto, sia per chi vorrà leggerlo e farsene carico. Inevitabile, credo, provare una profonda immedesimazione con l’autrice, una donna che, ormai divenuta adulta e madre, è riuscita a mettere a nudo l’anima propria graffiata dalla crudeltà di un “orco”. Un’empatia, nel mio caso – e non perché le sia amica da tempo, pur avendo ignorato a lungo questi suoi dolorosi trascorsi – che scaturisce, oltre che da un sentimento di profonda solidarietà femminile e umana, anche dall’ammirazione per uno stile poetico di limpida apertura sui recessi più riposti della propria interiorità, ai quali Cinzia permette di accedere con apparente semplicità, con ciò dimostrando di non aver smarrito, nonostante tutto, o almeno di essere riuscita a riconquistare una convinta fiducia nel prossimo, negli altri; in quell’umanità tra cui pure sempre si nascondono chissà quanti altri “orchi”  pronti ad aggredire vittime deboli e  innocenti. Ma dimostra anche, con le sue poesie, di aver (ri)trovato fiducia nel vigore dell’amore: in quello accudito nel “grembo”, che ha “il volto meraviglioso del bene”; in quello del padre: “forse sono loro la ragione e il senso della vita”. Fiducia nell’amore ma anche nel perdono, che da quello discende: “Quello che è stato è stato, il male è indietro”, entrambi capaci di richiamare a sé la vita, messa allora in pericolo ma, dopo tanto tempo e tanto lavoro su se stessa, riguadagnata. Di qui la potenza che si sente nei suoi versi: asciutti, efficaci, autentici e intensi.
È la forza della verità, una verità che commuove perché frutto di un sentimento di amore per la vita che, al di là del dolore provato, ha finito per vincere e convincere anche tutti noi che vale la pena di combattere per essa, bene assoluto e inalienabile.


Sonia Giovannetti

 

Annamaria Ferramosca, Come si veste di luce il buio (su “Insorte” di Anna Maria Curci)

23 domenica Ott 2022

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Anna Maria Curci, Annamaria Ferramosca, Il Convivio, Insorte, Luigi Simonetta, Poesia, recensioni

In copertina: “Il borgo fantasma di Celleno” di Luigi Simonetta

Anna Maria Curci, Insorte, Il Convivio Editore, 2022

Lettura di Annamaria Ferramosca

Come si veste di luce il buio

 

Seguo l’indicazione che Anna Maria mi porte nella sua affettuosa dedica e “cammino  lungo i sentieri della poesia in/sorte”. Leggo e rileggo e qui tento di scriverne.  Impressioni che trasmetto attraversando queste pagine in punta di piedi, con gran timore e umiltà, sapendo della mia possibile incapacità di penetrare tutti i messaggi, tutte le metafore e le tante aree profonde di pensiero che Anna Maria dissemina nei versi. Ma ci provo, questa volta con una dose di curiosità raddoppiata, visto il titolo così inaspettato nella sua ambivalenza di senso: Insorte.
Come Giuseppe Manitta dichiara nella sua acuta nota in seconda di copertina, il doppio significato di questo termine è dato dal suo essere participio del verbo insorgere e insieme indicare di stare nella sorte, cioè nella casualità. Mi aspetto dunque di trovare nei testi senso di ribellione e rassegnazione – sempre vigile – alla imprevedibilità della vita, ma sono ansiosa di vederne le declinazioni personalissime che la poeta offre nei testi.
Nella prima delle tre sezioni già il titolo Tragedia e idillio richiama un contrasto che nei testi ispirati a personaggi mitici o della tragedia greca, come in Psyche, Creonte, Kore, Sfinge, sembrano chiedere con forza al mito di far cadere il velo ad ogni ambivalenza delle sue narrazioni. Analoga  richiesta è rivolta ad essenze della natura, come all’Elce, che ha nomi ambigui in due lingue, sospesi nel significato tra offerta di protezione e resistenza, tra rifugio e appiglio, o come al fiume Ciane, per il suo scorrere che è doppia metafora di sosta e ripartenza, addensare e rifluire. Più enigmatiche le richieste che l’autrice si porge / porge, sostando su versi di suoi amati autori come Yeats, Dagerman, Dickinson.
La seconda sezione dal titolo Quando tace il latrato si apre con la poesia eponima che rivela la nostra urgente necessità di silenzio, per porci in ascolto della immensa sofferenza umana, per poter accogliere svelamenti che possono rischiarare il disordine compatto che circonda, definizione ossimorica del mondo, che è caos e pure densa verità celata nel disordine. Seguono testi in distici di grande suggestione, che hanno andamento come di profezie pìtiche, assiomi fieri su cui a lungo riflettere. Forte è l’invito a porsi in ascolto pure di note rivelatrici dalla musica, che la poeta trova nei suggestivi brani del Consorzio Suonatori Indipendenti.
Questa più robusta sezione contiene poesie che appaiono come soste del pensiero su temi essenziali e profondi, come Vigilia, testo sull’attesa della fine che, partendo dalla lettura di un brano poetico di Auden, dice degli attimi durante l’abbandono del corpo, mentre già giungono le voci dall’oltre. E Anna Maria con la sua estrema sensibilità lascia a chi legge la scelta di accogliere queste indicibili voci, che a ognuno parlano in diverse parole, e dunque dalla poeta sottaciute, o di ignorarle.
E qui pure si offrono testi dalla costruzione singolare, che prende l’avvio con una sospensione di senso per poi esplodere in fulminante chiarezza. Esemplare è il testo Nell’angolo del verde che concerta, in cui si parte dall’attesa della primavera tra piante e fiori in boccio, complessa metafora di tutto ciò che viene promesso senza termine e data, cosa che provoca orrore, ma che si apre improvvisamente alla consolazione, se la promessa ha a che fare con l’amore.
Non mancano gli strali, come in La loi quello lanciato sull’omologazione attuale e ovunque imperante, anche nel linguaggio, che rende chi si lascia omologare, servo truccato da padrone.
E nelle pagine successive prende il sopravvento la ribellione severa alla disumanità dilagante di ieri e oggi, e si rivela la sorprendente militanza civile di Anna Maria, che non smette di vigilare e denunciare storture e delitti, come la strage di Ustica o l’assassinio di padre Pino Puglisi.
A chiudere questa sezione è il testo Sottotraccia, che accanto all’amarezza per la violenza  e allo sberleffo lanciato a tutti i malversatori, definisce la necessità di una ostinata opposizione al male, soprattutto quello più subdolo e celato da un perbenismo di facciata. È un’esortazione che la poeta-docente di liceo ogni giorno trasmette ai suoi allievi, come fiero invito a guardare la realtà esercitando lo sguardo critico, non facendosi fuorviare dalla immaterialità virtuale e mai smettendo di praticare quell’attività che affina sensibilità e umanità, che è la lettura. Per cui l’esortazione Tolle, lege, che dà il nome all’ultima sezione, resta l’imperativo da seguire come universale strumento di salvezza.
Mi sento dunque di dire che questa parola poetica, così vicina a una sociologia della letteratura, afferma la sua irrevocabile necessità in questo nostro tempo di crisi. Del resto anche l’appassionato lavoro di poliedrica operatrice culturale che Anna Maria Curci compie sul territorio testimonia il suo costante dialogo con la collettività, il suo tenersi sempre lontana dall’ autoisolamento intellettualistico, frequente prassi di molti scriventi.
Centrale nella terza sezione appare la poesia dedicata a Hölderlin, dal titolo Scardanelli, pseudonimo che il grande poeta si diede nella seconda fase della sua vita creativa, trascorsa rinchiuso in una torre per 37 anni. Holderlin, disconoscendo la sua vita e opera precedente, scrisse le sue Poesie della torre con un tono altro e umilissimo, attendendo la fine; esempio luminoso di negazione di ogni aura autocelebrativa, testimonianza della consapevolezza dell’effimero che tutti siamo, e dell’attenzione doverosa al legame che sempre tutto tiene unito, dall’infimo all’altissimo.

Tutto è connesso,
scriveva in altra firma
un altro te sulla soglia del buio.

E commuove questa postura spontanea di un’autrice che mostra la sua tenace umile devozione ai grandi maestri della parola come per chiedere sostegno e conforto lungo la propria ricerca umana e creativa. Tensione che leggiamo nel successivo intenso testo E ogni giorno, in cui augura a tutti la bellezza di camminare a fianco e, sempre, il dovere della riconoscenza per ogni bene ricevuto. E su questa scia di pensiero l’anima altruista e profondamente cristiana di Anna Maria si lascia trasportare dicendo delle virtù della misericordia, dell’ascolto e della ricomposizione di ogni contrasto. Accanto a questi temi che costituiscono il fermo fondale della sua parola, la poeta continua nel suo giocoso metodo poetico-didattico, divertendosi a nascondere, lasciando tracce da seguire per scavare, approfondire, dilatare, indicando la via maestra della costante curiosità e dello studio, per non fermarsi alla superficie, per continuare a cercare e trovare Nel buio stella.
Siamo dunque invitati a leggere questi versi seguendo ritmo e incanto di curatissimi endecasillabi o di versi perfino di un solo termine, oppure disposti in distici, per sostenere ogni intensa sollecitazione che sempre giunge, portando a un’altezza impensabile di pensiero. Un pensiero che chiede condivisione e che promette quella serenità che inesorabilmente investe chi legge per l’immersione in cieli di inaspettata chiarezza.
E noi che leggiamo sempre confidiamo nella vigile e sognante trobadora-menestrella che cantando continua a farsi guida, vestendo di luce il buio.

Annamaria Ferramosca, ottobre 2022

 

 

Salvatore Statello, Ines de Castro (nota di Norma Stramucci)

30 martedì Ago 2022

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balletto pantomimico, Di Nicolò edizioni, Ines de Castro, letture, Norma Stramucci, recensioni, Salvatore Statello

Annotazioni a proposito di: Salvatore Statello, Ines de Castro eroina del balletto pantomimico italiano tra Settecento e Ottocento, Di Nicolò Edizioni, Messina 2021

Salvatore Statello pubblica un libro che, se non fossi stata consigliata a farlo, non avrei letto, credendolo esulare non tanto dai miei interessi quanto dalle mie competenze. Non solo infatti è dedicato all’eroina di melodrammi famosi (tra cui quello del compositore recanatese Giuseppe Persiani, 1835), cioè Ines de Castro, ma nella fattispecie se ne indaga la figura in un settore ben particolare, come specifica il sottotitolo: eroina del balletto pantomimico italiano tra Settecento e Ottocento. Ines de Castro è davvero vissuta a metà del XIV secolo, amata da don Pedro del Portogallo erede al trono, ma avversata dal padre re Alfonso IV, che la fece uccidere a Coimbra il 7 gennaio 1357. Una tragica storia di amore e morte che ha ispirato fondamentali lavori della letteratura portoghese ed europea (Garcia de Resende, António Ferreira, Luís de Camões, Luís Vélez de Guevara, solo per citare alcuni autori), circa una quarantina di melodrammi tra il secondo Settecento e la fine del secolo scorso e numerosi coreodrammi. Un mondo, quello del balletto italiano ottocentesco, tanto affascinante quanto semisconosciuto, che questo interessante volume (il terzo dedicato da Statello al soggetto Ines de Castro) ha il merito di disvelarci.
Giuseppe Canziani, nel 1775 a Venezia -e che successivamente portò il soggetto a Pietroburgo con la sua Inessa de Castro -, Giuseppe Herdlitzka, Domenico Le Fèvre, Antonio Muzzarelli e più tardi Antonio Cortesi e Salvatore Taglioni sono stati i maggiori coreografi che hanno offerto al pubblico la loro versione della storia di Ines. Statello, oltre a dedicare loro una sezione del libro con schede biografiche, ne analizza nel dettaglio i lavori ed è interessantissimo notare quali sono le varianti tra l’una e l’altra versione e scoprirne, insieme all’autore, le motivazioni. Ad esempio, Canziani si ripromette, secondo le teorie illuministiche, di osservare le virtù borghesi, e dunque non presenta Ines nel ruolo di amante ma in quello di sposa segreta; nella rappresentazione romantica di Cortesi Ines non morirà a causa del veleno, ma sulla scena ci sarà un cruento spargimento di sangue, secondo, appunto, il gusto dell’epoca.
A parte il rigore scrupoloso della ricerca, quel che più si apprezza del volume è il suo avere salvato dalla dimenticanza un importante tassello di storia culturale, come pure sottolinea, alla fine della sua Introduzione, dove ci istruisce sul ballo teatrale in Italia tra il XVIII e il XIX secolo, Paola Ciarlantini.

Norma Stramucci

Rosaria Di Donato, Preghiera in gennaio (recensione di Antonietta Tiberia)

25 lunedì Lug 2022

Posted by letteremigranti in Poesia, Recensioni

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Antonietta Tiberia, Macabor, Marzia Alunni, Poesia, Preghiera in gennaio, recensione, Rosaria Di Donato

Rosaria Di Donato, Preghiera in gennaio, Macabor Editore 2021

Sull’onda di un verseggiare ben ritmato, Rosaria Di Donato ha scritto la sua nuova raccolta di poesie: 36 liriche, alcune molto brevi, altre di poche decine di versi sciolti, divisi in strofe di varia estensione, che esprimono verità profonde e invitano alla riflessione sulla vita; quasi una meditazione sulla Morte, sul Tempo e sul nostro effimero. Poche ma intense pagine, nelle quali l’autrice ci fa intravedere la parte più intima della sua anima. Uno sguardo attento al tempo interiore. Circola in questa raccolta una segreta, misurata armonia, quasi che l’autrice, pudica, volesse far intendere oltre i brevi versi, sempre limpidi e salmodianti, l’essenza e la purezza del sentimento.
Marzia Alunni nella sua prefazione, che denota compartecipazione ed entusiasmo per le sensazioni e i sentimenti sprigionati da questa poesia e per le emozioni che essa può suscitare nel lettore attento, capace di discernere tra un verseggiare comune e uno ben qualificato, scrive: «Non c’è fede in Dio senza testimonianza. Chi parla di Lui è stato scelto, anche se non ne è consapevole».
Se l’elemento centrale della poesia, in un momento complesso e convulso come questo, deve tornare a essere quello dell’intensa riflessione e profondità del messaggio, non si può dunque non rimanere colpiti dal lavoro di Rosaria Di Donato, che fa di questi due aspetti il cardine del proprio percorso poetico. I moti dell’animo riposano, come la quiete dopo la tempesta, nella riscoperta della luce della verità, che vive negli occhi di coloro che hanno il coraggio di cercarla e di esprimerla.
Da donna del suo tempo nel suo tempo, la poeta cerca se stessa nella musica dei versi, con queste poesie che si stagliano come preghiere, come celebrazione di tutto quello che non può ricevere risposta. Accosta i versi uno all’altro per dare quel senso di commozione; va alla ricerca di piccole sfumature per trarne una sensazione di pace interiore, adottando un lessico che si distingue per la sua pregnanza semantica, cioè per la sua capacità di oggettiva definizione della realtà interiore: versi essenziali e ruvidi, brevi, affilati, ripuliti da ogni orpello, che mirano all’essenza delle cose, riducendo tutto all’osso, al nocciolo duro che non si può comprimere.
Nella maggior parte delle composizioni sono presenti una forte percezione del continuo divenire di tutte le cose e la consapevolezza della fragilità della vita; inoltre, in svariate, l’intensità dell’inquietudine esistenziale non riesce a essere mascherata e coinvolge nel suo vortice anche l’emotività del lettore.
Questa raccolta, riuscita, si presenta come una compiuta espressione dell’interiorità della sua autrice e dei procedimenti dell’arte sua, permeata di riflessione filosofica, che spazia dai temi più semplici a quelli più profondi e spirituali, che non esprimono solo gioia e piacere, ma soprattutto sofferenza, ad evocare una spiritualità tutta umana.

©Antonietta Tiberia

 

prima che sia notte
ancora vorrei qualcosa
qualcosa di mio
qualcosa che irrompa
nel tempo mostrando
un seme nuovo
un germoglio
e non disamore

*

germinazione

ah se dato mi fosse
d’incontrare i santi
mi aggrapperei
alle loro mani
e stringendole forte
lascerei cadere
sulla terra
quella luce
che sola trapassa
il corpo
e poi in gocce
di calore
ricade
diffondendo amore

terra promessa
iridati pensieri
duraturi orizzonti

il bene

*

quanto errasti maddalena

audace maddalena
sciogliesti i tuoi capelli
a carezzarmi i piedi
mai seta fu più fine
e profumata
mai lacrime più calde
fruscio d’oriente
quasi geisha
soave fu il perdono
che scivolò nel cuore
che ti (nacque) dentro
a ri-trovare il mare di spuma
e sale (sole) di onde a contenere
i giorni a scan-dire il passo
rinnovato del tuo andare
alla sequela ormai
del redentore
ché quelli che si perdono
trovano dio

*

il padre-il figlio

ti chiama il padre
e tu rispondi abbà
non riesco a farcela
troppo pesante
vivere morire
amare sopportare
piangere lottare

dov’è la festa
che sognavo
il mondo
in cui credevo
la vita
che aspettavo
io chi sono

dove sto andando
a chi appartengo
è un sogno-finzione
oppure è vero
il nulla impera
il mondo è vano
sono solo

no tu sei con me
risponde il padre
sempre ti ho avuto
in grembo
all’alba dei giorni
ti ho pensato
di Spirito nutrito

non temere il buio
non prevarrà

*

maria bambina giocava con l’agnello

giocava maria bambina con l’agnello
che ancor non si teneva sulle zampe
ritto stringendolo al suo petto

di baci copriva il muso
e con le dita intrecciava riccioli nel vello
belava l’agnellino confuso
per tanta soavità fatta persona

luce circonfondeva i due festosi
di gioia ricolmi e Santo Spirito
aleggiava intorno profetizzando
che l’agnello uomo sarebbe divenuto
nel grembo della vergine-fanciulla
al tempo stabilito

giocava maria nella sua infanzia
e l’innocenza tingeva d’entusiasmo
le gote e il vivo sguardo s’accendea
di consapevolezza che dio l’aveva scelta
per dimora

Margherita Rimi, Il popolo dei bambini (lettura di Norma Stramucci)

11 lunedì Lug 2022

Posted by letteremigranti in letture, Prosa, Recensioni

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Il popolo dei bambini, Le voci dei bambini, Margherita Rimi, Marietti, Norma Stramucci, recensioni

Margherita Rimi, Il popolo dei bambini, Marietti 2021 e il tema dell’abuso. Appunti di lettura

Margherita Rimi ha trattato il tema dell’abuso in Le voci dei bambini, Mursia 2019.  Il libro raccoglie poesie di un decennio, dal 2007 al 2017 e quelle a cui allude il titolo sono voci che lasciano spiazzato chiunque rabbrividisca al pensiero che esistano adulti capaci di essere carnefici. Per abuso si intende naturalmente qualsiasi strumento, qualsiasi ferita inferta all’anima dell’infanzia. Letto questo libro, singhiozzato come singhiozzano i suoi versi, sofferti il bianco, il nero, il blu, il rosso e il verde, i colori che ne delimitano le parti, sono mancate le parole per qualsiasi commento: la poesia aveva, nella sua assolutezza, detto già tutto.
Si è ritrovato però lo stesso tema in un libro diverso, Il popolo dei bambini, Marietti 2021, un saggio dove il tema è visitato non dal punto di vista delle “anime coatte e violate”, come scrive nel risvolto della copertina di Le voci dei bambini, Guido Oldani, ma dallo stesso della Rimi, non a caso medico e neuropsichiatra infantile che tanta dedizione e cura ha rivolto al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. E dunque ancora alla Rimi si è manifestata la necessità quasi di un accorato appello al mondo adulto per, come recita il sottotitolo, “ripensare la civiltà dell’infanzia”.
Anche quando di abuso esplicitamente la Rimi non parla è comunque sotteso: è abuso, ad esempio, non riconoscere ai bambini la dignità di essere popolo. Eppure, quello dell’infanzia, ci induce a riflettere l’autrice, è un popolo che si riconosce oltre i confini di razza e lingua, capace di comunicare attraverso il gioco anche nelle situazioni più drammatiche. È abuso il costringere ore e ore dietro a un banco di scuola (e aggiungo che ci sono adolescenti alti anche un metro e 80 centimetri…) bambini che ne soffrono. È abuso la mancanza di rispetto nei loro confronti quando disprezziamo un adulto per le sue “bambinate” o perché “piange come un bambino”. È abuso il linguaggio di certa pubblicità, sia corporeo e gestuale, quando ne fa degli adulti in miniatura, sia verbale, quando li fa parlare come non farebbero. È abuso ogni qual volta un bambino o un adolescente non incontra un “maestro-profeta”, una guida capace di cogliere le sue potenzialità. È abuso ogni libro per l’infanzia che sia semplicistico, che non sia di valore, dal momento che scrivere per l’infanzia non è assolutamente semplice. È abuso che anche là dove l’abuso è più atroce non esista una preparazione linguistica adeguata per chi deve interpretarlo.
Non è possibile una graduatoria di gravità tra gli abusi. Certo i bambini in guerra, le spose bambine, la prostituzione minorile, il lavoro minorile, i bambini venduti, – tutti temi per cui si invita alla lettura sconvolgente di Le voci dei bambini –, sembrano orrori più gravi di una bimba truccata che scimmiotta una top model. Eppure.
A dire quanto quello dell’abuso sia tema fondamentale, Il popolo dei bambini si chiude proprio con una Postilla sull’abuso: la Rimi vi ribadisce che l’abuso sessuale è un atto criminale e invita, attraverso una scioccante pagina di Dostoevskij  al valore conoscitivo della grande letteratura.

©Norma Stramucci

Cristina Polli, Quando fioriscono le tamerici (nota di Agostina Pagliaroli)

14 martedì Giu 2022

Posted by letteremigranti in letture, Poesia, Recensioni

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Agostina Pagliaroli, Cristina Polli, FusibiliaLibri, letture, Poesia, Quando fioriscono le tamerici, recensioni

Cristina Polli, Quando fioriscono le tamerici (nota di Agostina Pagliaroli)

Questa seconda raccolta, 20 poesie, di Cristina Polli dal titolo suggestivo Quando fioriscono le tamerici ci introduce da subito nell’incanto di un mondo che trae la sua forza dall’umile, spontanea magnificenza della vegetazione delle nostre coste. La Natura che l’autrice ama con passione, senza ambiguità, riecheggia instancabilmente nei componimenti. Eco di marosi, sparsi elementi di paesaggio sfilacci di posidonia sulla sabbia conchiglie leggerezza dell’aria movimento impetuoso di vortice che scuote squassa di onde e di spuma la superficie liquida. Natura protagonista. In tinte di delicato acquerello essa apre la silloge.
Nel componimento un unico verso, un climax Suono onda spuma _ azzurra velatura (p.14) nella sequenza dei tre sostantivi da campi semantici diversi, interviene a creare una tensione crescente che sembra sciogliersi sospesa nella delicata velatura azzurrina a pelo d’acqua. Pennellata veloce che abbozza un’immagine di grande impatto emotivo per l’analogia con le vicende umane.
Presenza sonora palpitante potente la Natura oppone in controcanto la sua voce al muto silenzio dell’altra comprimaria, l’anima. Lei che Ha composto l’arte dell’ascolto nella partitura del silenzio (43) entra in scena nel secondo componimento.
E nel tempo più dolce in cui la vita rinasce, il mondo si fa accogliente, ne saluta il ritorno. Il suono del vento libera voci e sfiora con delicata carezza e mentre l’eco dei marosi si placa Lei passa avanti e canta (p. 15).
Senso di tenerezza materna nell’invito che l’autrice finalmente rivolge al suo doppio Vieni quando le tamerici sono in fiore, quando le pendule infiorescenze tacciono i bisbigli (p.17) che diventano voci sonore quando parla il bianco col bianco della spuma e del ritorno (p.17).
Tamerici voci sussurri, umili piccole cose, il riferimento è al mondo incantato del Pascoli delle Myricae che ritorna nell’ultimo componimento e chiude in perfetta circolarità il viaggio esistenziale dell’anima.
Ogni componimento nella brevità di una strofa quasi delicato “haiku” si presenta sotto una veste doppia. In un’atmosfera rarefatta e raffinata i primi versi accarezzano svelando una ben radicata passione per la vita che inaspettatamente si trasforma in altro. Non c’è spazio per l’abbandono. La luminosa leggerezza delle immagini si dissolve e improvviso irrompe un sentimento che destabilizza, provoca un déplacement.  Al lirismo iniziale si sovrappone si sostituisce l’inquietudine di una coscienza in cerca. Dirompe squassa pietra scoglio frase.   (p. 19). Sinestesia metamorfosi semantica e la sofferenza emerge dal profondo per placarsi solo alla fine di un lungo cammino di silenzio.
Poesia di immagini splendenti nella loro bellezza che nulla concedono se non al lampo di una percezione che si dissolve nell’immediatezza dell’istante.
Poesia che si definisce per negazione.
Non è “appaisante”, non promette né regala facile consolazione né attraverso di essa l’autrice la ricerca.
Non mira a descrivere.  Non narra. Si scioglie dal vincolo dei significati concreti per tradursi in sequenze sonore evocative, rimandi originali a un tempo e a un luogo altri. Il suo approdo: la spiaggia del puro simbolismo, consapevolmente coniugato con un originale moderno ermetismo.
L’attraversa fortissimo il senso di nostalgia per un passato che non si svela mai. Infanzia perduta? Luoghi remoti dell’adolescenza? Una sofferenza che ben si rispecchia nell’Heimweh. Dolore per la ‘dimora’, per i luoghi di un tempo, per un’innocenza antica. ‘Dimora’ dei sentimenti ancestrali dalle profondità inattingibili. Dimora, giardino di pietra della pianta silente (p.23) da custodire tuttavia perché l’anima possa ritrovarlo.
La nostalgia allora si colora di accenti paradossali, guarda all’incompiuto nel suo aprirsi ad un futuro mai realizzato. Non solo desiderio ardente del ritorno, amore struggente per l’impossibile recupero del tempo.
Diventa anelito, brama, accoglie in sé l’assurdo. Rinnovata Sehnsucht dei romantici tedeschi, è aspirazione appassionata a qualcosa di mai accaduto, a un nuovo mondo possibile. È sete mai sazia di ri-scrittura della vita alla luce di uno sguardo rinnovato. Ed ecco allora il ritorno tanto agognato perché Nell’ossimoro della fuga (p. 33) ogni fuga è un ritorno (p.21). E nel tempo più dolce, quando le tamerici sono in fiore, l’anima può finalmente acquietarsi. Torna! Vieni, è l’invito che l’autrice riprende nei versi finali di questo viaggio. Desiderio di ritorno mai dichiarato, sempre celato, chiuso semmai in un verbo, in un sostantivo.
La parola-scrigno diventa custode fedele di preziosi non detti. Attenta, quasi ossessiva la sua ricerca. Scelta lessicale che benedice la sottrazione l’insegnamento della leggerezza (p. 33) Originali, inediti gli accostamenti che l’ampio ricorso all’analogia e alla sinestesia, di ermetica matrice, assicura superando nessi logici e semantici.
Libere, le “parole” si rincorrono rinviano alludono danno voce a una straordinaria ricchezza interiore che mai si manifesta interamente.
Radicate fortemente nella esperienza umana dell’autrice, ad essa attingono senza tuttavia mai esplicitarla, quasi a significare un pudore che teme di rivelarsi.
Spoglia di ogni autobiografismo, la poesia di Cristina Polli chiama in causa la vicenda di ognuno, parla al lettore trascinandolo nel profondo della propria interiorità in un dinamismo che assurge a universalità.
Nessuna certezza nell’avventura della vita, Ci accostiamo imperfetti allo spartito alla coloritura di fraseggi e nel difficile viaggio Cerchiamo tracce antiche nelle voci (p.27). Gli esseri, quasi frammenti di pietra, silice che Graffio e luce tagliano (p.29), appaiono Sgretolati. Occultati dal moto sinuoso bianca spuma che sabbia li riduce e sabbia sperde (p.29)
Unisce l’universalità. E l’autrice si consegna, si affida alla libertà di ognuno di colmare il vuoto nella ri-costruzione del mondo. Accetta il rischio. Perché ogni lettura è ri-scrittura, creazione di nuovo inedito significato
Ne nasce un dialogo che squarcia la superficie ghiacciata, penetra la profondità, trascina ‘dentro’ chi si avventura in quel mondo, chi vuole svelarne il segreto che i versi riescono solo a evocare.
Dialogo fecondo in cerca di tracce antiche come luci nella notte.

©Agostina Pagliaroli

Cristina Polli, Quando fioriscono le tamerici. Poemetto. Prefazione di Alessandro De Santis, FusibiliaLibri 2020

 

 

 

 

 

 

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