Sonia Giovannetti legge “Una remota stazione” di Bruno Bartoletti
Ogni opera poetica è in sé un viaggio; un viaggio, come ci illumina Ungaretti, verso quel “porto sepolto in fondo al nostro essere” che la poesia cerca di svelare per capire chi siamo. “E per capirlo – aggiunge Milo De Angelis – dobbiamo ritornare, dobbiamo scoprire cosa ha spinto anticamente i nostri passi fino al punto in cui adesso ci troviamo. Per questo il viaggio in avanti verso il nostro porto è nel medesimo tempo un viaggio all’indietro verso ciò che siamo stati e che ora possiamo riconoscere”.
Ecco, dunque, il senso profondo di “Una remota stazione”, la raccolta poetica di Bruno Bartoletti, il cui titolo, assai suggestivo, lascia tuttavia impregiudicata la questione se si tratti di “una stazione di arrivo o un punto di partenza” (p. 5), sebbene il poeta ritenga inessenziale, o forse persino impossibile chiarirlo a se stesso e al lettore, dando così credito ai mirabili versi di Eliot – il celebrato autore dei “Quattro quartetti” – posti all’inizio dell’opera: “Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine/ e finire è incominciare/ la fine è là donde partiamo” (p. 8). Queste, che potrebbero apparire non più che mere chiose preliminari, sono invece una chiave decisiva per collocare “Una remota stazione” nella prospettiva ad essa più adeguata. Che di un viaggio si tratti, e che ad una prima lettura sia un viaggio a ritroso nel tempo, è fuor di dubbio. Un viaggio lungo e travagliato nella memoria del poeta, che prende la mosse sin dai primi componimenti in un’atmosfera crepuscolare, satura di ricordi e di rimpianti – per le persone care ormai scomparse, per i luoghi stravolti dalle ingiurie del tempo e degli uomini, per le scelte mai compiute, per le strade non tentate – e il cui esito, al cospetto di una terza età ormai sopraggiunta, è in un tempo ormai nemico, intriso di solitudine e di silenzio e venato da una malinconica, inerme rassegnazione – ben altra dalla foscoliana “fatal quiete” densa di trepidi umori, “sì cara” al poeta romantico – con cui l’autore di “Una remota stazione” guarda al tratto residuo della propria vita, alla sua “stazione di arrivo”. Fragilità dolente del sentire, rarefazione del senso della vita simboleggiata dai colori autunnali che il poeta adotta a metaforica rappresentazione del proprio stato d’animo (“…attendo nell’autunno inoltrato/ di ritrovare il senso di ogni cosa” (p.184), inimicizia e inesorabilità del tempo sono le note dominanti in molti dei componimenti, declinate in una scrittura suggestiva e ammaliante, ospitale di poesie altrui e ibridata da prose riflessive che contrappuntano i singoli temi del libro.
Se la poesia di Bartoletti parlasse quest’unica lingua, ci troveremmo pur sempre di fronte ad un’opera di squisita fattura – ricca peraltro, nei temi affrontati, di illustri precedenti nella nostra storia letteraria – dalla tonalità dimessa e antiretorica, come si addice ad un’anima piegata a scandagliare i propri più intimi recessi per confessare con totale autenticità i propri tormenti, il peso delle esperienze vissute, l’angoscia del futuro, di quell’oltre misterioso che succede alla vita terrena.
Ma l’indugiare insistito in una postura retrospettiva è lungi dall’esaurire l’ampiezza e la profondità del suo sguardo. Il suo guardarsi indietro, il ricordo accorato delle amicizie perdute e l’acuto rimpianto dei propri cari elevano il suo poetare ad una meditazione speculativa sul pensiero della morte. E proprio alla morte il poeta dedica molte sue pagine. Non sembra qui inutile ricordare che dal timore della morte, la fine di tutte le cose cui l’uomo è destinato, nasce la filosofia, così come la religione. Dal thauma del nulla che inghiotte la vita la civiltà umana invoca da sempre un riparo, una salvezza, che nella storia della civiltà si è chiamata Dio o Essere eterno, ma che per il poeta è invece la poesia. Continua a leggere