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Lettere migranti

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Archivi Mensili: agosto 2013

Simonetta Bumbi, da: quando qualcuno

31 sabato Ago 2013

Posted by letteremigranti in Poesia, Traduzioni

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Anna Mari, Edizioni Smasher, Poesia, quando qualcuno, Simonetta Bumbi, traduzioni

copertina_bumbi_quandoqualcuno

Nella “totale assenza di maiuscole”, nella sua “quasi non-punteggiatura” (Alessandro Bertirotti), Simonetta Bumbi sa dare odore, luce e consistenza alle ‘sue’ presenze. Nella traduzione in tedesco delle due liriche il sapore del legno fresco e di notte e di note ho voluto rispettare le regole del suo cosmo, forzando quelle dell’ortografia tedesca, così come quelle della punteggiatura. (amc)


il sapore del legno fresco

resta intatto il tocco del tuo occhio
che vibrare è sensazioni d’ultimo gradino
da salire in fretta con il cuore in gola
per rincorrerti bagliore d’ora in ora

a piedi scalzi troverei le ante
che dischiusero la pelle al suo presente
e batterei le vene come creta
a dissetare la paura del dimenticare

e se mi accorgessi di non aver pareti
nel mio corpo vuoto troverei le redini
per quelle mani
che sanno ancora di tabacco

(p. 23)

der geschmack des frischen holzes

unversehrt bleibt dein leichter druck des auges
denn schwingen ist gefühle letzter stufe
die ich eilig außer atem besteige
um dir schimmer stunde um stunde nachzulaufen

barfuß würde ich die schranktüren finden
die ihrer gegenwart die haut aufmachten
und die adern würde ich wie ton schlagen
um den durst der angst vor dem vergessen zu löschen

und wenn ich merkte keine wände zu haben
würde ich in meinem leeren leib die zügel finden
für jene hände,
die noch nach tabak schmecken

di notte e di note

in questa notte che mi ricorda
di ogni giorno  in cui la mancanza
mi porta al giorno che è stato
e che mai più sarà
è in questa notte stonata
che trovo la forza
di viverne un altro
perché mai si impossessi di me
l’abitudine di amarti

(p. 46)

über nacht und über noten

in dieser nacht, das mich an jeden tag
erinnert, an dem das vermissen
mich zu dem tag bringt, der war
und der nie wieder sein wird
es ist in dieser misstönenden nacht,
dass ich die kraft finde
einen anderen zu leben,
damit mich die gewohnheit dich zu lieben
niemals aneignet

Simonetta Bumbi
da Quando qualcuno, Edizioni Smasher, Barcellona Pozzo di Gotto, 2010
(traduzione di Anna Maria Curci)

Remo Bassini, Il monastero della risaia

30 venerdì Ago 2013

Posted by letteremigranti in Per le strade di Roma, Racconti, Recensioni

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Anna Maria Curci, Giuseppe Giunti, Goethe-Institut, Il monastero della risaia, Per le strade di Roma, Racconti, Remo Bassini, Senzapatria

il-monastero-della-risaia

 

Due belle sorprese hanno illuminato, l’altro giorno, una pausa pranzo senza viveri e, come di consueto, senza fiato. All’uscita dal Goethe-Institut di Roma, in via Savoia, ho alzato lo sguardo dinanzi a me e ho scorto – ecco la prima sorpresa – che le luci che illuminavano il mezzogiorno di pioggia erano quelle della vetrina di una libreria aperta da poco. Ho pensato che, se avevo rinunciato al pranzo per spostarmi nel minor tempo possibile da un corso di aggiornamento a un corso pomeridiano a scuola, potevo concedermi una sosta – cinque minuti, solo cinque minuti, per cercare un racconto di Edgar Allan Poe che non fa parte delle raccolte più diffuse – nel luogo che rappresenta LA tentazione irresistibile per me, insegnante di scuola pubblica (“se scoprono che mi piace pensare, passo un guaio”, faccio mio questo motto che ho letto nello studio di un’altra persona alla quale, guarda un po’, piacciono i libri): la libreria.
Entro, chiedo del racconto di Poe e, mentre le gentili commesse si affannano a far ripartire un collegamento in rete che il nubifragio sulla città ha messo in seria crisi, lo sguardo mi cade su un tavolino che ospita, con una disposizione variopinta e solo apparentemente casuale, libretti smilzi e accattivanti. La distanza facilita anche all’incalzante presbiopia la lettura di un titolo e del suo autore, a me familiare. Si tratta de Il monastero della risaia di Remo Bassini. La casa editrice è Senzapatria, la collana, nella quale sono apparsi, tra gli altri, racconti di Gaja Cenciarelli, Marino Magliani, Emilia Dagmar, Carmen Covito, Barbara Garlaschelli, Enrico Gregori, porta il nome-programma On the road. È la seconda sorpresa della giornata, perché, come leggo nell’introduzione all’elenco dei titoli pubblicati, “I libri della collana possono essere acquistati nelle stazioni ferroviarie e degli autobus, sui traghetti e le navi da crociera, negli aeroporti, nelle metropolitane”: sono stata fortunata, dunque, ad averli trovati in libreria.
Decido di acquistare Il monastero della risaia. La ‘caccia’ al racconto di Poe non è andata a buon fine, in compenso ho un bottino rassicurante per questa breve incursione nel MIO paese delle meraviglie. Affronto il viaggio sui mezzi pubblici a stomaco vuoto, ma con passo reso più leggero dalla prospettiva della lettura che potrò iniziare sulla metropolitana. Così succede, ed è un piacere ritrovare, accanto a luoghi, situazioni e personaggi che ho ‘frequentato’ di recente, leggendo Bastardo posto di Remo Bassini, figure alle quali la ‘classicità’ del loro ruolo – il questore,il commissario, il vescovo, il sacerdote, ‘Sua Eminenza’ – nulla toglie in termini di efficacia trascinante e irresistibile nei dialoghi serrati, in battibecchi al telefono e non, in confessioni e colpi di scena. La lettura conferma: è bene, talvolta, non resistere alle tentazioni. È bene, soprattutto, non resistere MAI alla tentazione di pensare.

Anna Maria Curci, 4 marzo 2011

(articolo pubblicato il 4 marzo 2011 su “Cronache di Mutter Courage”, qui; con grande dispiacere ho dovuto constatare che, pochi mesi dopo, la libreria appena aperta ha chiuso i battenti: lascio a chi legge e ama farlo il compito di trarre le tristi conclusioni)

Lucia Tosi, Metafore del freddo. Sei poesie

29 giovedì Ago 2013

Posted by letteremigranti in Poesia

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Anna Maria Curci, Lucia Tosi, Metafore del freddo, Periferie, Poetarum Silva

LuciaTosi

 

Lucia Tosi, Metafore del freddo. Sei poesie*

Nota di lettura e una traduzione di Anna Maria Curci

Vorresti stringerla in un pugno e serbarla gelosamente, questa poesia, manciata di riso sapido, riserva tenace di arguzia, lume “antivedere” al sussiego mortalmente serio e mortalmente ridicolo; dietro la curva, tuttavia, si realizza la sorpresa dell’incontro – scontro, partita a scacchi, intuizione, momentaneo connubio o scazzottata – della pianura desolata della vita e dell’attrazione della parola:

e ancora e ancora. dietro il treno e dietro le mie spalle
stavi tu laguna, e tu luna invisibile. io a sognarvi entrambe,
senza vedervi in figura, con i bastioni dei cavalcavia
in ipnosi alcolica dentro gli occhi, ho pensato: ecco, il solito
scacco, la vita è qui e quando la vedo pulsare mi ammalo di parole,
la penso da subito in parole. opera aperta, in fieri, non so.
era poco fa

Comprendi, allora, che non può, non deve essere sottratta ai desti, a tutti coloro che desti intendono esserlo.

Sono le considerazioni scaturite dalla lettura di Fuori stagione, inediti 2013 di Lucia Tosi scelti da Natàlia Castaldi per La dimora del tempo sospeso, a introdurre questa mia breve nota alla poesia di Lucia Tosi.

Di Lucia Tosi ho letto e ascoltato le voci del Piccolo alfabeto del malumore come ‘gallenbittere Galgenlieder‘: la ferocia del disincanto sa trovare stiletti precisi e affilati nell’umorismo che rovescia e smaschera.

Con O Penati Lari! Venti conversazioni con i morti, raccolte da Francesco Marotta per La dimora del tempo sospeso nel numero XXXIX dei Quaderni di Rebstein, ho percorso un itinerario di cognizione del dolore e di ri-conoscenza del sé e dell’altro, del sé nell’altro. («Dialogo in vece di fiammella votiva / strattona la memoria. Evocare? / Invocare? Provocare forse. / Rapido e tagliente pensiero scuote / d’ambo le parti i muri, sussultano / stagni taciti, balenii bluastri», scrissi allora).

La scelta di testi che propongo qui nasce da un percorso di lettura, attenzione, consuetudine, al quale volgo lo sguardo con un sentimento di familiarità e, insieme, di aspettativa mai delusa.

Le metafore del freddo introducono e uniscono nel loro nome – un nome che promette, tenendo fede alla promessa,  il gelo arguto e chiarificatore della scrittura di Karl Kraus – una manciata di versi che mantiene lo sguardo acuto («essere aquila averne l’occhio guardare / il sole senza abbassare lo sguardo»), il capovolgimento intenzionale e ‘armato’ delle immagini consuete e altrove innocue («non possono essere gentili i narcisi: / non lo sono mai davvero e mai del tutto.»), la coscienza, divertita e disperata, beffarda e ‘fedele’,  tra il “vajont di disperazione” e il tracimare della risata; altro non è,  questa coscienza, che la consapevolezza, per sua natura dinamica e polifonica,  dell’imperfezione.

Non stupirà la mia scelta di tradurre Verfallenheit in tedesco. In Verfallenheit il punto di partenza è il concetto heideggeriano che il titolo riporta programmaticamente. Da quel punto di partenza, il percorso assume connotati autonomi, propri della poesia di Lucia Tosi. Nei Gallenwege, nelle vie biliari della paura, condizione primaria dell’essere nel tempo, Lucia Tosi sa districare la massa informe, il catafalco di vecchi e nuovi miti che arresta e imprigiona. Non indica vie di salvezza, ma dà alle cose il loro nome e, in questo suo guardare lucidamente la condizione di Verfallenheit, condizione umana troppo umana del non-uomo che siamo, sa trovare la giusta distanza e praticare ‘l’arguzia della ragione’.

 

metafore del freddo 1

essere aquila averne l’occhio guardare
il sole senza abbassare lo sguardo
non serve: una corrente fredda
ammala anche le aquile le cala
a venti metri da terra
le spiuma mentre precipitano
le ritrovi passeri infreddoliti
su una siepe puntuta
con l’aria a mezzo stupita
uccelli di dio abituati alle altezze
al vasto respiro dell’ala
indecisi da un ramo all’altro
che oscilla precario
preda del primo gatto rognoso
che s’acquatta nell’ombra
credendosi tigre, leone

*

metafore del freddo 2 (capita l’antigone?)

non possono essere gentili i narcisi:
non lo sono mai davvero e mai del tutto.
non lo possono essere, poverini: nessuno gliel’ha
insegnato! “ma giammai mio ospite sia, né amico, chi agisce così”.

*

metafore del freddo 3

non come sparvieri gli occhi cuciti
ma come avvoltoi alla carogna
non basta più lasciar grattar la rogna
avidi e lividi vanno zittiti

*

imperfetta

imperfetta
sono rimasta a letto
mentre fuori infuriava
la tempesta
neve e grandine e vento
tregenda di nubi bluastre
come all’improvviso
certe sere d’estate.
pensavo alle rose lassù
le vedevo tremare
a ridosso del sottotetto
mi dicevo resisteranno
non voleranno via
sentendo d’essere quasi
una madre indegna
come talora sono
quando non dico
la parola che attendi
lo sguardo azzurro e attento
quando amandoti tanto
mi trattengo al di qua
dei tuoi freschi pensieri.

*

Mostratevi entusiasti di avermi conosciuto

La vita si fa poco per volta:
coi sensi di oggi non riconosco
quello che allora, e più indietro,
devo aver per certo provato:
per il sangue le morti
– da spiaccicamento autostradale o da malanno –
i suicidi.
Ogni volta una diga che tracima
un vajont di disperazione.
Come l’acqua che si ritira
non si sa dove – di tanta
che n’è scesa – anche il dolore
lo risucchiano il da fare
del giorno e l’invocata tenebra.
A guardare indietro
parmi d’esser stata di pietra:
neanche il tempo per graffiarmi il volto
e buttarmi a terra, nel buio,
a brancolare.

*

Verfallenheit

secolo passato inutilmente
non c’è soluzione al problema
anzi, non c’è più un problema
ende oder anfang?
che  gran ridere l’ ubermensch
e l’acqua calda del male-di-vivere
e la speranza della poesia
invasa dalle erbacce dell’angoscia
non-uomo umanisticamente stravolto
il nulla e la morte sono bei ricordi
nostalgie di stupidi adulti
che non si sanno sbarazzare
dell’ingombrante inservibile infanzia
alla vertigine della libertà
oppongo la quiete e l’equilibrio
di questa paurosa schiavitù
mentre precipito/iamo in basso

Verfallenheit

Umsonst vergangenes Jahrhundert
auf das Problem gibt es keine Lösung
ein Problem gibt es ja nicht mehr
Ende oder Anfang?
Über den Übermenschen lache ich mich krumm
und das neu erfundene Rad der Lebensmüdigkeit
und die vom Unkraut der Angst eingedrungene
Hoffnung der Lyrik
humanistisch verdrehter Nicht-Mensch
das Nichts und der Tod sind schöne Erinnerungen
Sehnsüchte stumpfsinniger Erwachsener,
die die unhandliche unbrauchbare Kindheit nicht loswerden können
dem Schwindel der Freiheit
setzte ich die Ruhe und die Ausgeglichenheit
dieser ängstlichen Sklaverei entgegen,
während ich/wir tief hinunterfalle/n.

Lucia Tosi
(traduzione di Anna Maria Curci)

__________

«Lucia Tosi è da circa trent’anni una terribile insegnante di italiano e latino, ama poche cose nella vita come la poesia e il romanzo, mentre rifugge quanto più può, nell’esercizio delle sue funzioni, la chiacchiera letteraria. Scrive poesia con esagerata testardaggine da sei anni: prima vergognandosene immensamente, ora invece desiderando di scomparire ogni qualvolta sul web compare una sua piccola raccolta (anche se le fa un enorme piacere riscontrare degli apprezzamenti positivi: che la fanno sentire meno sola e meno stupida). Ama le parole, la loro storia, per questo si laureò nel lontano 19.. in Storia della lingua italiana all’Università di Ca’ Foscari, con una tesi da serissima filologa sulla poesia di Salvatore Di Giacomo, da cui ha tratto molti insegnamenti circa la musicalità e il senso amaro e comico della vita. Ha scritto in passato per il blog La poesia e lo spirito testi critico-creativi sulla scuola italiana, delle recensioni e qualche racconto; sue poesie sono comparse in vari blog – oltre il suo -, specie ne La dimora del tempo sospeso.» (L.T.)

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Questo articolo è stato pubblicato nel blog Poetarum Silva, qui, e nella rivista “Periferie”, n. 66/67, aprile-settembre 2013, pp. 19-21

Doris Emilia Bragagnini, Oltreverso. Il latte sulla porta

28 mercoledì Ago 2013

Posted by letteremigranti in Poesia, Recensioni

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Anna Maria Curci, Augusto Benemeglio, Doris Emilia Bragagnini, Oltreverso, Poesia, Rainer Maria Rilke, recensioni, Zona editore

oltreverso-copertina

 

Doris Emilia Bragagnini, Oltreverso. Il latte sulla porta

Nota di lettura di Anna Maria Curci

Al tempo del “sale sparso”, nel “presente/onnipresente”, il verso oltreverso di Doris Emilia Bragagnini rivendica diritto di parola, traghetta in direzione di sponde solitarie, contrasta “clangore” e “fragore”.
Gli ultimi cinque versi del componimento di Rilke La pantera, riportati in esergo nella splendida traduzione di Leone Traverso, non lasciano dubbi sull’impresa:

Solo, a volte, su l’arida pupilla,

tacito, un velo si solleva; e irrompe
una immagine in essa; e via balena
lungo il silenzio delle membra tese,
per smorzarsi, veloce, in fondo al cuore.

Le immagini che irrompono sfuggono a chi le vorrebbe immote. Ribellione, pesca di frodo, “lampo al volo”, provvista “per giorni muti” reprimono le urla e si esprimono con “soffiosibilo”, respiro, sussurro, incuranti di scuole e accademie, ma ben consapevoli del gelo da scontare per la diserzione.
Ha un colore dominante la gamma cromatica del sottrarsi a “canoni e tranelli”: è il rosso, che si manifesta nella sua versione ‘classica’ e nelle varietà “scarlatto” e “purpureo”; “non l’azzurro”, dunque, di un anelito che si conosce già come impraticabile – e il “cielo di cobalto” è l’altro da sé – ma terra dell’esilio e segno del quotidiano rischiare senza rete alcuna. Non è un caso che nel componimento centrale, dichiarazione di poetica, espressione di volontà, il colore ricorra nella versione “rosso” e “scarlatto”:

In fondo al cerchio

voglio essere quell’attimo
in cui dico – sono il rosso –
in fondo al cerchio
è scarlatto che mi sale addosso
un istinto che precede
lo stupendo, inesplicato
uragano dentro agli occhi che
si specchiano a ritroso
mentre mordo questo labbro
a permettere il progetto
che – gattona – per la stanza

La voce è, allo stesso tempo e come recitano i titoli di due testi nella raccolta, “impalpabile” e “implacabile”, la pluralità è associata ai

Presagi di lupi

Presagi di pluralità
frammenti ossei
conficcano tormenti

Desideri di mutazione
follia, sogno dilagante
nota dilatata di plenilunio

Infrangibile nucleo
di scissione temporale
d’irrealtà negata. Amata

* * *

Rimescolare voglia e agonia
promulgare parole
che incidono lo sterno

la forma infierire dentro
martello di pensieri
giunge al cervello

Codici infranti
bottiglie della mente riaperte
salvavita disinnescati

gemito e gocce arroventate
a serrare voleri
di molecole mutanti

Offro la gola
vedo – sollevare di denti
ringhio sfugge alla caverna

La vittoria si fa sangue
e te ne vai ignaro
con l’antico passo obliquo.
Si sottrae al ritmo altrui, l’oltreverso, ma ha un suo passo sicuro:

Il passo

Se un galoppo
mi rosicchia il cuore
non è ferrando il passo
che mi salvi in corsa

tutto è “compreso”
infilato all’inizio
scandito a riprese
che vinco e che perdo

tra il male e l’agire
di questa grancassa
che ancora si osa
nel fare rumore

Rilke scriveva: “Solo, a volte…” e “a volte” capita che il passo sicuro, la voce consapevole della propria esiliata diversità, accedano alla libertà e la mostrino in una bellezza ignota ai più, “l’attigua”:

L’attigua

mi rimane a volte libera – l’attigua
per sola clemenza, indulgenza o sorpasso
che scorre, come suono di latta
bidone/rimbombo, percossa
da quanto nemmeno fraintendo

– insaputo –

non ho memoria di me, galleggia
nella mente una figura orizzontale
vedo i suoi capelli, morti
m’inabisso a testa emersa

 

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Doris Emilia Bragagnini, Oltreverso. Il latte sulla porta. Introduzione di Augusto Benemeglio, Zona editore, 2012

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© Anna Maria Curci, 7 aprile 2013. L’articolo è stato pubblicato sulla rivista “Periferie” (n. 66-67, Aprile-Settembre 2013), pp. 18-19

Rita, Maris, Temi, Sira

27 martedì Ago 2013

Posted by letteremigranti in Racconti

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Anna Maria Curci, CFR edizioni, Gianmario Lucini, Oltre le nazioni, Racconti

Arrigo6

Rita, Maris, Temi, Sira

– Grazie, Rita.
La signora le allungò una banconota da cinquanta euro.
Rita allungò due dita della mano sinistra. Nella destra aveva mezzo pacco di ovatta con il quale tentava di rimuovere il trucco da clown. Giulia era già a letto. Rita aveva impiegato diverso tempo a riordinare il soggiorno dopo l’invasione degli amichetti di Giulia. Pesti viziate, era l’unica cosa che le veniva in mente.
– Però, Rita, sa, volevo dirle… ha visto che faccino aveva Giulia? È proprio sicura che i bambini si siano divertiti? E ha controllato che Veronica non facesse la prepotente? L’ultima cosa che desidero dopo una giornata come questa è una telefonata di quell’esaltata della madre. Non le ha requisito mica il cellulare, eh? Dico a Veronica, sa? Lo so che cosa pensa, Rita. Veronica ha solo otto anni, come Giulia. Non dovrebbe avere il cellulare e, dico io, non dovrebbe averlo sempre acceso. Ma guai a dirlo alla madre. No, no: le crociate le faccia lei, che non famiglia, non ha responsabilità.
Rita continuava a struccarsi. Sorrideva gentile, come sempre. Rita Sommefo aveva un bel sorriso da sfinge.
Se la signora, in piena inondazione verbale, avesse alzato lo sguardo verso lo specchio del bagno, avrebbe potuto cogliere un guizzo negli occhi di Rita. Rita stava ripensando agli occhioni sgranati di bambola della mamma di Veronica. Provò qualcosa di simile alla gioia dei bambini che ridono a crepapelle quando vedono punito il cattivo di turno. Un po’ le dispiaceva per Giulia, ma anche lei, ormai, stava diventando come Veronica, e tutte e due si avvicinavano a grandi passi ai trionfanti modelli materni.
Aveva ragione, la signora. Lei, Rita Sommefo, non aveva famiglia, non aveva responsabilità. Ma aveva ricordi, tanti. Maris Metofo, ballerina di avanspettacolo, scomparsa nei camerini dell’Ambra Jovinelli nell’ottobre 1943. L’impresario aveva l’abitudine di segnalare i casi sospetti alle autorità. Insomma, quelli che abitavano dalle parti del portico d’Ottavia.
Il ricordo di Temi Amorfos andava molto più indietro nel tempo. Temi abitava ad Atene. Non se ne era saputo più nulla dopo la vicenda di Stephanos, lo straniero che era riuscito a fuggire in tempo. Stavano per arrestarlo, era sospettato di omicidio. Poco male. Qualche tempo dopo si era scoperto che il vero omicida era tra coloro che preparavano l’arresto di Stephanos, a casa di Georgios. Temi aveva versato da bere agli ospiti di Georgios.
Rita aveva finito di struccarsi. Nello specchio vide riflessa l’immagine di una donna giovane, con i capelli e gli occhi scuri. Vide Rita, Maris, Temi. Vide anche Sira, Sira O’ Femmot. Sembrava salutarla, Sira, dublinese trapiantata a Berlino. Zona est, Deponie. Servizio ai tavoli. Locale alla moda per chi giocava a fare l’alternativo.
Qualcosa da fare ci sarebbe stato anche lì.
Lasciò la banconota sul ripiano del lavabo. Prima di uscire, spense la luce.

Anna Maria Curci
17 dicembre 2009

Il racconto è pubblicato in: AA.VV., Oltre le nazioni, CFR, Rende 2011, 19-20

Yzu – Francesco Albano

26 lunedì Ago 2013

Posted by letteremigranti in Poesia

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Anna Maria Curci, cucuwàsh, Francesco Albano, Pignola, Yzu

Yzu - Francesco Albano

Yzu – Francesco Albano

di Anna Maria Curci
Nei suoi versi i suoni, i profumi, i giochi e le gare dei quartieri di Pignola: oggi, 26 agosto 2013, a due anni dalla sua scomparsa, la poesia di Yzu è tra le “Lettere migranti”.

L’ho conosciuto appena nato, Yzu. Era l’estate del 1971 e la sua mamma, figlioccia della mia, aveva appena dato alla luce Francesco, che poi avrebbe scelto Yzu come nome d’arte. Noi bambini di città, in vacanza nel paese materno, lo guardavamo incantati. Quaranta anni dopo, sempre d’estate, ci ha raggiunto un’altra notizia, quella della sua morte. Alla fine di settembre 2011, con la posta, è arrivato un biglietto con due foto e due poesie di Francesco. Poi, in rete, scopro questi suoi versi dedicati a un quartiere del comune paese materno. E, tutti insieme, sono arrivati i suoni, i profumi, i giochi e le gare dei quartieri di Pignola di quella estate che ha visto nascere Yzu-Francesco.

‘a chiazz’
sonetto p’u’ spusalizj’ d’ Mimm’ e Marij ………………….

a vederla dall’alto, sembra quasi un fiume,
Vignuol’: dau P’zzo’, s’apre in due rami e avvolge
di case un’isola, per riunirsi in salto
che i passi travolge, a camminarlo: scosceso –
‘a Chiazz! -, come appeso un imbuto a rovescio,
largo precipita – vertigine di pietre –
un invaso a sghimbescio sul vuoto sospeso
che accoglie un fluire denso di voci e suoni;
dai muri i mascheroni guardano passare
immobile il tempo; nascoste sotto i balconi,
sembrano pronte a lanciarsi, per abbrancare
prede ignare che qui indugiano, si fermano,
fiere dal femmineo sembiante; quieti leoni
placidi s’informano di quel che si dice;
e qui scenn’ u’ Paschier’, qui arriv’n’ vic’,
cundan’, l’addor’ da terr’ e di bosch’;
qui s’ sta buon pur si u’ Sol’ nun ghé;
qui s’ ferm’ ogn’ prucessio’; qui, puoi v’de’,
ogn’ tand’, ‘na bella figlio’ ca pass’
cundend, ca uoij s‘è spusa’ all’amor’ soij

Yzu – Francesco Albano

Il 26 agosto 2012, a un anno dalla sua scomparsa, ho trascorso l’alba a leggere il libro che Francesco, con il nome d’arte di Yzu Selly, pubblicò il 17 agosto 1999, cucuwàsh. Il nome della civetta nel dialetto pignolese racchiude un romanzo “da bere sorseggiando vino”, un itinerario articolato in dodici racconti e quattordici poesie, nel quale lo scrittore mescola le carte e scompiglia volutamente i numeri romani che precedono ogni composizione. Al lettore la scelta dell’ordine da dare al suo percorso di esplorazione del testo. L’esergo con i versi da La terra e la morte di Cesare Pavese e i tributi, sparsi e riconoscibili, riepilogati in parte nei ringraziamenti – tra questi, Buzzati, Kafka, Rimbaud, Blake, Joyce, Ovidio, Campana, Fortini, CCCP–Fedeli alla linea – scandiscono il libro della consapevolezza. La rabbia sacrosanta non è relegata alla condizione giovanile – a 28 anni Yzu lo dichiara esplicitamente – e la scelta di liberarsi dal cappio ha un prezzo pesante. In questo i versi della poesia XVI – L’ergastolano sono significativi: “Stanco un giorno del cappio che mi obbligava/ movimenti e mente mi misi in viaggio/ cercando antiche strade che obliassero/ questo vivere immobile in un tempo assente./ Tornato vivo presi a combattere/ immerso in una ragione tenace/ tentai d’affermare l’indicibile./ Come un criminale eretico/ sono stato costretto a camminare/ fra gli scherni e la derisione/ accusato di assassinii che legalmente/ compie il potere, quasi con candore.” (100-101)

Nella raccolta cucuwàsh i versi che seguono portano il numero II.

II
Le pietre e i giochi – Il bambino a sette anni
Da bambino raccoglievo le pietre
e ci giocavo. Gli davo forma.
Le facevo vivere in dimensioni
parallele alla loro concretezza,
perché ogni pietra narrava una storia.
Le loro forme erano così vere
da non poter far altro che sedermi
osservarle fra le mani e ascoltare.
Senza saperlo, di quel gioco
ero la parte più importante.

Una volta trovai l’isola
del minotauro, di teseo e arianna.
Dal lato opposto un drago spaventoso
mi soffiava fuoco negli occhi.
Trovai anche un pugnale turco
dalla lama ondeggiante e intarsiata.
La strana disposizione di alcune pietre
mi raccontò la vita di un brigante
ammazzato dai piemontesi; ecco le sue ossa.

Un’altra volta trovai tombe di barbari
sulla collina di ginestre.
Con gli amici e le nostre bimbe
andammo a smuovere quei cumuli di pietre.
Ci atterrì qualcosa e la luna enorme.
Corremmo a farci benedire
e fummo costretti ad aspettare
con la paura gonfia di lacrime
– il prete è impegnato, una scopa
a quattro e bicchieri di buon vino.

Il bambino aveva un paio di jeans rossi;
costrinse la madre a comprarli
col suo lagnare prepotente
al mercato assieme a una cinta anch’essa rossa
dalla fibbia difficile. Si sporcò.
Andò a giocare a pallone la sera stessa
nel campo sportivo di sabbia grigia
dimenticando il materno divieto:
“Nun t’gì a z’v’lià, ca t’accid’!’”

Poggiato contro la finestra
una guancia contro la grata fredda
un corpo adulto che preme alle spalle
chiede “Dov’è la luce”.
Accesala

tornò contro la finestra. Una curiosità
infantile pagata a un prezzo troppo alto.

Nonostante il recriminare di sua madre
non mise più quei jeans rossi; i gerani
sul suo balcone gli diedero sempre
fastidio, dopo, per quel rosso.
Fino alla consapevolezza.

(da: Yzu Selly, cucuwàsh, 27-29)

L’ultima raccolta pubblicata da Yzu è Canzoni per una stanza abbandonata (Erreciedizioni, Anzi 2011). Come ricorda Antonio Lotierzo in Suonaci una poesia, YZU. Poesia e performance in Francesco Albano (Erreciedizioni, Anzi 2012), Yzu pubblica «la sua opera poetica più matura e più complessa» nel maggio 2011. Scelgo tre poesie dalla silloge, la prima e la settima dalla sezione ex machina , prima delle tre parti, e un lunedì – (in chiaroscuro), ultima delle sette poesie che compongono la terza parte, settimana di passione. Di questa poesia esiste una versione recitata da Vinicio Capossela ed eseguita presso l’Auditorium del Conservatorio di musica “Gesualdo da Venosa” di Potenza il 18 novembre 2011, come testimonia il DVD che accompagna il volume Suonaci una poesia, Yzu. Il mio ringraziamento va alla mamma di Francesco Albano, che mi ha fatto dono dei volumi di poesia di suo figlio, Yzu.

I
scrivo per non perdere memoria del brutto.
il lavoro sulla parola –
l’incisione in muri di pietra
di un quadro mobile
che ha vita propria e
un proprio incedere
svilupparsi metamorfosarsi narrare
come registrazione e proiezione –
la vita come un block notes …-
sì, prendo appunti –
fare di ogni miseria ricchezza
cogliere da ogni fiore
la merda che l’ha nutrito
serbare tra le mani
ogni goccia di profumo carpita
all’ignoranza dei corpi che incontro
donare quel po’ di puzza
che mi resta – baciare –
oppure diciamo così,
cerchi di salvare la tua vita
da bacarozzo in un processo
inverso di sublimazione
che passa tra la parola.

(argomento, p, 33)

VII

la mia mano sinistra
mi piace il suo imbarazzo
nell’affrontare un gesto
è impacciata non riesce
dinamica o precisa
ha una naturalezza
improvvisa come di
fotogrammi isolati
vive sorprese estreme
incantati contatti.
amo la sua estraneità
.

(la mia mano sinistra, p. 42)

un lunedì – (in chiaroscuro)

fratello buio

mesi vissuti al buio
mesi vissuti senza luce
luce ch’era riuscita
a smuovere un po’ la cenere
che asettica copriva
una brace dimenticata.

giorni abbracciato al buio
giorni serrati forte gli occhi
occhi che sanno luce
e fingono di non vedere –
ché tanto bellezza vissuta
non è brace dimenticata.

sorella luce

(p. 135)

“Matriarche” – Opere su carta di Luigi Simonetta

25 domenica Ago 2013

Posted by letteremigranti in Arte, Disegni, Pittura

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Tag

Anna Maria Curci, arte, disegni, Kokonton gallery, Luigi Simonetta, Matriarche, pittura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                Kokonton Gallery  – Venezia

                                                     Via Garibaldi 1771

                                                         Castello VENEZIA

 

                                                         “Matriarche”

                                      Opere su carta di Luigi Simonetta

Matriarca biancaMatriarca nera

 

              Vernissage 30 agosto ore 18          

 Dal 30 agosto al 14 settembre 2013, ore 16/20

Chiuso domenica e lunedì

 

 

I dipinti di Luigi Simonetta qui esposti indicano un percorso sostenuto da un progetto insieme chiaro e complesso, singolare e plurale allo stesso tempo. Colpisce la posizione scelta per le matriarche: sedute o in piedi, con le braccia a tracciare simmetrici contorni, si rivolgono a chi guarda, con la maestosità enigmatica dello sguardo. A distinguerne identità, funzione e significato intervengono fattori diversi e uniti dal rigore e dalla coerenza delle scelte: il capo scoperto o velato, il corpo fasciato o morbidamente avvolto dalle vesti, la capigliatura, sciolta o raccolta, l’abbinamento dei toni cromatici e, a seconda delle composizioni, il colore dominante, la qualità della pennellata ovvero del tratto, la presenza o l’assenza di linee di contorno e di linee interne volte a creare non tanto meri decori, quanto piuttosto una ragionata e riconoscibile struttura portante.

 Anna Maria Curci

 

 

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Luigi Simonetta è nato a Pavia nel 1941 e vive a Roma. Pittore e incisore, noto al pubblico di Venezia per avervi tenuto diverse mostre personali e per aver partecipato per oltre quindici anni alle iniziative di “Atelier aperto”,  unisce nelle sue opere uno sguardo critico sulla realtà contemporanea a una riflessione su figure ricorrenti nell’immaginario universale. “Matriarche”, il ciclo di opere su carta in esposizione presso la Kokonton Gallery di Venezia dal 30 agosto al 14 settembre, conferma la sua originale  rielaborazione di storia e mito, di attualità e archetipo (A.M.Curci).

.

Mostre personali di pittura e grafica

 

Venezia 1985 (Galleria Segno Grafico); 1998/2001/2008/2010 (Galleria Venezia viva);

Milano: 2000 (Galleria Nuovo Aleph;:

Roma 1993/1995 (Galleria Trifalco; 2007 (Villa Torlonia);

Lerici: 1996 (Castello di S. Terenzo);

Umbertide: 2005 (Rocca di Umbertide – Centro di Arte contemporanea):

Tivoli: 2006 (Scuderie Estensi)

 

web.tiscali.it/luigisimonetta

luigisi@tiscali.it

 

 

 

Kokonton Gallery

Via Garibaldi 1771, Castello Venezia

Fermate ACTV Arsenale oppure Biennale

 

www.facebook.com/kokontongallery

kokontonvenezia@hotmail.it

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