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La mia scala cromatica

17 martedì Dic 2013

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Anna Maria Curci, lettere, Racconti

cerchio_cromatico_Itten

Ho scritto queste righe sette anni fa, quando mia madre ha compiuto ottant’anni. Oggi, nel giorno del suo 87° compleanno, pubblico qui, con i miei auguri alla “Mater” della “Mutter”

La mia scala cromatica

In musica, la scala cromatica procede per semitoni ed è costituita dai dodici suoni. I dodici toni della mia vita sono i dodici colori legati a mia madre.

Azzurro: il fiocco che orna il mio grembiule dell‟asilo e che mi ballonzola davanti mentre percorriamo di corsa il quotidiano tragitto casa-scuola (poi, per la tua, dovrai prendere un tram). Siamo in ritardo, come sempre, non perché ti sia svegliata tardi, ma perché hai già sistemato e organizzato una mole inimmaginabile di cose. Con te, che mi tieni forte per mano, mi sembra di volare sicura nella tramontana del dicembre romano.

Beige: il capolavoro di tua sorella, un golfino fatto a maglia e terminato – fatale hybris – in un giorno di festa. Protagonista di quella – tra le tante storie che racconti a figli e nipoti – che ricorre con maggior frequenza nelle tue affabulazioni, ogni volta con l‟aggiunta di un particolare nuovo e avvincente.

Blu: la borsetta di stoffa, elegantissima e il cappello coordinato che portavi nelle occasioni speciali – matrimoni, prime comunioni… – “perché sono gli accessori che danno il tocco essenziale!” Dimenticavo: blu per te è sempre stato, alla francese, bleu!

Giallo: il colore delle righine di quella tua camicetta alla quale ho fatto la corte per tanti anni. Sagomata sulle sinuosità femminili delle mediterranee anni Cinquanta – seno florido e vitino di vespa – mi è stata quasi sempre preclusa… non certo per tua ingenerosità, ma per… incompatibilità di misure al giro vita! Ma tu, tu come facevi ad averla così sottile? Questo resterà un interrogativo di fondo per me.

Indaco: il completino – casacca a mezze maniche e gonna svasata – di cotone indiano che tu e papà avete regalato alla vostra primogenita ribelle. Tra i tesori che riservava la bottega dello zio, ideale continuatore dell‟attività del nonno paterno, è il romantico “fiore azzurro” della mia esistenza. Misteriosamente scomparso il completo, l‟indaco resta a dominare il mio immaginario.

Lilla: il soprabito dall‟inconfondibile taglio anni Sessanta, che abbinavi a borsetta e cappello blu e che usavi soltanto per le cerimonie. Anche a me hai trasmesso, insieme al latte e alle tue storie, la rigorosa distinzione tra abbigliamento per la festa, per il lavoro – sono figlia d’arte, è lo stesso per entrambe – e per la casa.

Ocra: può un tailleur avere il colore dell‟ocra gialla? Nel tuo guardaroba, sì. Il tailleur ocra aveva la gonna dritta e improbabili bottoni del diametro di quattro centimetri. Lo avevi quella domenica in cui, a mo’ di celebrazione del quartiere in cui eravamo venuti ad abitare, papà ci fotografò di fronte al laghetto dell‟EUR. Il nostro Sessantotto ha il colore del tuo tailleur.

Rosso: più ci penso, più sono convinta che questa è la tua tonalità cromatica dominante, non solo perché papà desiderava che lo indossassi sempre. Il rosso ti dona e rivela il tuo carattere caparbio e pugnace sotto un involucro di apparente arrendevolezza, il rosso accende quella che mi piace chiamare la tua “soave ostinazione”. Il giorno del mio matrimonio avevi un meraviglioso abito rosso e mi hai resa felice per quel rossetto carminio che accendeva le tue labbra.

Tortora: “Se fosse per te, ti vestiresti sempre di questo colore!” Quante volte ti sei sentita rivolgere questo rimprovero? Il color tortora sta per tante tue doti: la modestia, la sapiente capacità di cedere ad altri la ribalta, la sollecitudine operosa nella famiglia, e non solo nella famiglia. Chi ti vuole bene, tuttavia, desidera che le tue doti sfavillino con un blu pavone, un rosso Magenta, un verde veronese, perché anche altri le possano percepire chiaramente.

Turchese: la pietra dura che ornava la splendida parure – braccialetto e girocollo – preda di ladri occasionali in quella domenica mattina di luglio di tanti anni fa. Il turchese rivela, della tua poliedrica e variopinta personalità, la raffinatezza, che troppo spesso celi senza motivo.

Verde: uno dei tanti impermeabili double-face che tanto ami. Probabilmente la tua scelta è frutto di un compromesso tra la tua naturale ritrosia, che ti farebbe optare per il tortora, e il coro dei tuoi cari che tifa per il rosso.

Zaffiro: gemma che ornava un anello che mi hai regalato quando ero bambina. Quel dono è stato per me la dimostrazione tangibile di quanto tu sappia leggere nell’animo altrui. Grazie anche per questo.

Anna Maria Curci

17 dicembre 2006

Francesca Ricci, Il treno dell’arcobaleno

26 martedì Nov 2013

Posted by letteremigranti in Lettere migranti, Racconti

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Chiari, fiabe, Francesca Ricci, il treno dell'arcobaleno, Racconti, siringomielia

il treno dell'arcobaleno

Un bambino solo e triste camminava lungo una vecchia linea ferroviaria abbandonata quando, da dietro un grosso cespuglio, sentì qualcuno piangere sommessamente. Incuriosito si avvicinò e vide, con sua grande sorpresa, una vecchia locomotiva con due vagoni alquanto malridotta. Era una di quelle locomotive che andavano a carbone e che una volta trasportavano tanta gente.

Il bambino le chiese: ” Perché piangi, ti sei fatta male?”

Sorpresa, la vecchia locomotiva, gli rispose: “No, è che sono qui sola soletta, perché tutti mi hanno abbandonato: ormai sono troppo vecchia e lenta .La gente va sempre di corsa,vogliono treni veloci e comodi per fare presto e a me non  vogliono più. Così mi hanno lasciato qui ed il vento,  la  pioggia ed il sole mi stanno rovinando ancora di più. Sono tutta ruggine ormai, sono una povera vecchietta sola e triste. Ecco perché piango!”

“Mia cara locomotiva” disse il bambino “oggi hai trovato un nuovo amico!

Anche io sono solo e triste, non ho nessuno con cui  stare e tu  da oggi sarai la mia migliore amica. Io ti accudirò, ti pulirò e ti farò diventare ancora più bella di prima!”

La vecchia locomotiva sorrise tra le lacrime: quel piccolo bambino era veramente forte, era veramente un grande amico.

Ma come avrebbe potuto rimetterla tutta a posto? – si domandò.

Il bambino mantenne la promessa.

Da quel giorno, si diede da fare per ripulirla tutta.

Lavò tutti i vetri, con pezzi di stoffa colorati riparò i buchi dei sedili, ma alla fine non era ancora contento.

Se dentro la vecchia locomotiva era tutta bella e splendente, fuori lasciava molto a desiderare.

La vernice mancava in più punti, e la ruggine non faceva un bell’effetto.

Ci sarebbero voluti chissà quanti barattoli di vernice nera per ridarle il colore e di soldi per comprarla ne aveva proprio pochi. E allora? Come poteva fare?

Ma la fortuna gli venne incontro.

Trovò un barattolo di vernice verde semivuoto e lo usò per colorare un pezzetto della locomotiva. L’effetto non era niente male: così si mise in cerca di altri barattoli chiedendo a destra e a manca, ed alla fine ne raccolse un bel numero, ma di tanti colori differenti. “Pazienza” disse “meglio che niente !” e si mise all’opera.

Mentre dipingeva, il vecchio treno gli raccontava dei suoi tanti viaggi, delle persone che aveva visto salire e scendere dai suoi vagoni, delle fatiche che aveva fatto per andare in giro, delle cose belle che aveva visto. E così raccontando lei e dipingendo lui, passava il tempo e anche l’ultimo avanzo di vernice finì ed il bambino poté contemplare il suo lavoro o meglio….. il suo capolavoro!

E sì, perché tutta quella vernice colorata dava alla locomotiva un aspetto veramente carino, un po’ vistoso forse  ma molto originale. “Sei proprio bella, – disse il bambino – ho fatto proprio un buon lavoro. Ora non sei la vecchia locomotiva di una volta! Ti voglio chiamare “il Treno dell’Arcobaleno”

“Grazie, mio caro amico, sei stato proprio bravo, hai fatto un ottimo lavoro e per questo motivo ti voglio premiare. Prendi un pezzettino di carbone e mettilo nella mia pancia ed io ti farò fare un bel viaggio intorno al mondo.”

“Ma come puoi muoverti con un solo pezzetto di carbone?” rispose il bambino.

“Non ti preoccupare, ci riuscirò così come te da solo sei riuscito a fare tutto questo lavoro! Vai ora! “

Il bambino si mise alla ricerca ed alla fine trovò un pezzetto di carbone che secondo lui non avrebbe neppure consentito alla locomotiva di accendersi.

Aprì in ogni modo lo sportellino e vi inserì il carbone.

Subito la locomotiva cominciò a muoversi: all’inizio molto lentamente, facendo un gran rumore.

“Ciuff-ciuff, sono un po’ arrugginita, è tanto tempo che non mi muovo più. Ciuff-ciuff ciuff ecco con un po’ di pazienza riuscirò a muovermi meglio. Ciuff-ciuff, ciuff-ciuff, ciuff-ciuff ora comincio  a sentirmi un po’ più sciolta e… possiamo partire”

Il bambino la guardava a bocca spalancata, non credeva ai suoi occhi. Non riusciva a parlare ed a muoversi.  “Su che aspetti a salire, vuoi che vada via senza di te? Ti sto aspettando per partire! Non mi credevi eh? Dai sali che andiamo via!”

Il bambino si riscosse e con un salto fu sulla locomotiva, tirò il fischietto e…”Ciuff, ciuff ciuff ciuff  tuuuu tuuu ……. SI PARTE !”

Ed iniziò così’ il loro viaggio!

Era proprio bello e videro tanti bei posti, finché arrivarono in una stazione, ma nessuno degnò il treno di uno sguardo. Solo un gruppetto di bambini mal vestiti e soli si avvicinò. “Salite, presto” disse il bambino “Questo è il Treno dell’Arcobaleno e andiamo in giro per il mondo!”

I bambini salirono ed il treno ripartì tutto contento.

Arrivarono ad un’altra stazione e di nuovo si ripeté la stessa storia.

E così ad ogni stazione in tutti i paesi che giravano, salivano bambini d’ogni razza e di tutte le età ma tutti  soli e senza una famiglia.

Il Treno era ormai pieno quando arrivò in una piccola stazione.

Non c’era nessuno ad attendere il treno, non c’erano persone, non c’erano bambini, non c’era neppure il capostazione.

Era una piccola stazione tutta grigia, senza colore e senza rumori.

I bambini, incuriositi, scesero dal treno per cercare altri amici in giro. “Forse –pensarono – non hanno sentito arrivare il treno”

S’incamminarono fuori della stazione e furono subito colpiti dal paesaggio.

C’era un grande viale lungo il quale vi erano delle casette con il prato e gli alberi, ma quello che era strano è che tutto era grigio senza colore. Sui prati non c’erano fiori, sugli alberi non c’erano foglie, non c’erano uccellini a cantare, non c’erano rumori, non c’erano persone, non c’erano bambini. Le case erano grigie, le finestre grigie, le porte grigie. Sembrava un paese abbandonato.

Ma il primo bambino si fece coraggio: bussò ad una porta grigia ed aprirono due signori, un uomo ed una donna tutti vestiti senza colori, lo sguardo triste ma…..alla vista del bambino i loro occhi s’illuminarono, i loro volti presero colore, “Sei arrivato finalmente, ti abbiamo aspettato per tanto tempo. La nostra vita era grigia e triste ma tu gli hai ridato il colore! Vieni, entra!”

E la casa prese colore, il prato fuori divenne di un bel verde brillante, gli alberi misero le foglie e gli uccellini ripresero a cantare.

E così fu per ogni casa, per ogni bambino.

Ed il Paese grigio divenne bellissimo: lo chiamarono “il Paese dell’Arcobaleno”.

Ed il Treno nella sua stazioncina colorata era immensamente felice!

Aveva compiuto la sua missione ed ora poteva riposare.

 locomotiva

 

 ______________________________________________________

Francesca  Ricci è nata  nel 1960, ha iniziato a  scrivere  favole  per  bambini per  poterle  raccontare  ai propri figli; ha  scritto e pubblicato  due libri  per  bambini che  trattano due  malattie rare,   la MC1 e  la  siringomielia.  La  Chiari: la  buffa  storia  del signor  cervello, signor  cervelletto, signor midollo e signor  liquor è stata presentata in occasione di congressi sulla malattia e a un convegno dell’ISS, “La medicina  narrativa”.

Remo Bassini, Il monastero della risaia

30 venerdì Ago 2013

Posted by letteremigranti in Per le strade di Roma, Racconti, Recensioni

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Anna Maria Curci, Giuseppe Giunti, Goethe-Institut, Il monastero della risaia, Per le strade di Roma, Racconti, Remo Bassini, Senzapatria

il-monastero-della-risaia

 

Due belle sorprese hanno illuminato, l’altro giorno, una pausa pranzo senza viveri e, come di consueto, senza fiato. All’uscita dal Goethe-Institut di Roma, in via Savoia, ho alzato lo sguardo dinanzi a me e ho scorto – ecco la prima sorpresa – che le luci che illuminavano il mezzogiorno di pioggia erano quelle della vetrina di una libreria aperta da poco. Ho pensato che, se avevo rinunciato al pranzo per spostarmi nel minor tempo possibile da un corso di aggiornamento a un corso pomeridiano a scuola, potevo concedermi una sosta – cinque minuti, solo cinque minuti, per cercare un racconto di Edgar Allan Poe che non fa parte delle raccolte più diffuse – nel luogo che rappresenta LA tentazione irresistibile per me, insegnante di scuola pubblica (“se scoprono che mi piace pensare, passo un guaio”, faccio mio questo motto che ho letto nello studio di un’altra persona alla quale, guarda un po’, piacciono i libri): la libreria.
Entro, chiedo del racconto di Poe e, mentre le gentili commesse si affannano a far ripartire un collegamento in rete che il nubifragio sulla città ha messo in seria crisi, lo sguardo mi cade su un tavolino che ospita, con una disposizione variopinta e solo apparentemente casuale, libretti smilzi e accattivanti. La distanza facilita anche all’incalzante presbiopia la lettura di un titolo e del suo autore, a me familiare. Si tratta de Il monastero della risaia di Remo Bassini. La casa editrice è Senzapatria, la collana, nella quale sono apparsi, tra gli altri, racconti di Gaja Cenciarelli, Marino Magliani, Emilia Dagmar, Carmen Covito, Barbara Garlaschelli, Enrico Gregori, porta il nome-programma On the road. È la seconda sorpresa della giornata, perché, come leggo nell’introduzione all’elenco dei titoli pubblicati, “I libri della collana possono essere acquistati nelle stazioni ferroviarie e degli autobus, sui traghetti e le navi da crociera, negli aeroporti, nelle metropolitane”: sono stata fortunata, dunque, ad averli trovati in libreria.
Decido di acquistare Il monastero della risaia. La ‘caccia’ al racconto di Poe non è andata a buon fine, in compenso ho un bottino rassicurante per questa breve incursione nel MIO paese delle meraviglie. Affronto il viaggio sui mezzi pubblici a stomaco vuoto, ma con passo reso più leggero dalla prospettiva della lettura che potrò iniziare sulla metropolitana. Così succede, ed è un piacere ritrovare, accanto a luoghi, situazioni e personaggi che ho ‘frequentato’ di recente, leggendo Bastardo posto di Remo Bassini, figure alle quali la ‘classicità’ del loro ruolo – il questore,il commissario, il vescovo, il sacerdote, ‘Sua Eminenza’ – nulla toglie in termini di efficacia trascinante e irresistibile nei dialoghi serrati, in battibecchi al telefono e non, in confessioni e colpi di scena. La lettura conferma: è bene, talvolta, non resistere alle tentazioni. È bene, soprattutto, non resistere MAI alla tentazione di pensare.

Anna Maria Curci, 4 marzo 2011

(articolo pubblicato il 4 marzo 2011 su “Cronache di Mutter Courage”, qui; con grande dispiacere ho dovuto constatare che, pochi mesi dopo, la libreria appena aperta ha chiuso i battenti: lascio a chi legge e ama farlo il compito di trarre le tristi conclusioni)

Rita, Maris, Temi, Sira

27 martedì Ago 2013

Posted by letteremigranti in Racconti

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Anna Maria Curci, CFR edizioni, Gianmario Lucini, Oltre le nazioni, Racconti

Arrigo6

Rita, Maris, Temi, Sira

– Grazie, Rita.
La signora le allungò una banconota da cinquanta euro.
Rita allungò due dita della mano sinistra. Nella destra aveva mezzo pacco di ovatta con il quale tentava di rimuovere il trucco da clown. Giulia era già a letto. Rita aveva impiegato diverso tempo a riordinare il soggiorno dopo l’invasione degli amichetti di Giulia. Pesti viziate, era l’unica cosa che le veniva in mente.
– Però, Rita, sa, volevo dirle… ha visto che faccino aveva Giulia? È proprio sicura che i bambini si siano divertiti? E ha controllato che Veronica non facesse la prepotente? L’ultima cosa che desidero dopo una giornata come questa è una telefonata di quell’esaltata della madre. Non le ha requisito mica il cellulare, eh? Dico a Veronica, sa? Lo so che cosa pensa, Rita. Veronica ha solo otto anni, come Giulia. Non dovrebbe avere il cellulare e, dico io, non dovrebbe averlo sempre acceso. Ma guai a dirlo alla madre. No, no: le crociate le faccia lei, che non famiglia, non ha responsabilità.
Rita continuava a struccarsi. Sorrideva gentile, come sempre. Rita Sommefo aveva un bel sorriso da sfinge.
Se la signora, in piena inondazione verbale, avesse alzato lo sguardo verso lo specchio del bagno, avrebbe potuto cogliere un guizzo negli occhi di Rita. Rita stava ripensando agli occhioni sgranati di bambola della mamma di Veronica. Provò qualcosa di simile alla gioia dei bambini che ridono a crepapelle quando vedono punito il cattivo di turno. Un po’ le dispiaceva per Giulia, ma anche lei, ormai, stava diventando come Veronica, e tutte e due si avvicinavano a grandi passi ai trionfanti modelli materni.
Aveva ragione, la signora. Lei, Rita Sommefo, non aveva famiglia, non aveva responsabilità. Ma aveva ricordi, tanti. Maris Metofo, ballerina di avanspettacolo, scomparsa nei camerini dell’Ambra Jovinelli nell’ottobre 1943. L’impresario aveva l’abitudine di segnalare i casi sospetti alle autorità. Insomma, quelli che abitavano dalle parti del portico d’Ottavia.
Il ricordo di Temi Amorfos andava molto più indietro nel tempo. Temi abitava ad Atene. Non se ne era saputo più nulla dopo la vicenda di Stephanos, lo straniero che era riuscito a fuggire in tempo. Stavano per arrestarlo, era sospettato di omicidio. Poco male. Qualche tempo dopo si era scoperto che il vero omicida era tra coloro che preparavano l’arresto di Stephanos, a casa di Georgios. Temi aveva versato da bere agli ospiti di Georgios.
Rita aveva finito di struccarsi. Nello specchio vide riflessa l’immagine di una donna giovane, con i capelli e gli occhi scuri. Vide Rita, Maris, Temi. Vide anche Sira, Sira O’ Femmot. Sembrava salutarla, Sira, dublinese trapiantata a Berlino. Zona est, Deponie. Servizio ai tavoli. Locale alla moda per chi giocava a fare l’alternativo.
Qualcosa da fare ci sarebbe stato anche lì.
Lasciò la banconota sul ripiano del lavabo. Prima di uscire, spense la luce.

Anna Maria Curci
17 dicembre 2009

Il racconto è pubblicato in: AA.VV., Oltre le nazioni, CFR, Rende 2011, 19-20

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