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Georg Maurer, Mattino lieto

04 giovedì Ago 2016

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, anniversari, Poesia, Traduzioni

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Anna Maria Curci, Connewitzer Verlagsbuchhandlung, DDR, Froher Morgen, Georg Maurer, Gli anni meravigliosi, Heinz Czechowski, Ich sitz im Weltall auf einer Bank im Rosental, Lipsia, Literaturinstitut "Johannes Becher", Poesia, Poetarum Silva, Potsdam, Reghin, Sarah Kirsch, scuola sassone di poesia, traduzioni, Transilvania, Volker Braun, Wieland Herzfelde

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45 anni fa, il 4 agosto 1971, moriva a Potsdam Georg Maurer, poeta, insegnante, traduttore. Nativo della Transilvania (Maurer era nato a Reghin l’11 marzo 1907), si era trasferito nel 1930 a Lipsia per motivi di studio. Proprio in quella città, nella quale fece ritorno dopo la guerra, divenne poi una delle figure di maggior spicco come docente al Literaturinstitut “Johannes Becher”, dove, in qualità di direttore del “seminario creativo sulla poesia”, diede un’impronta rilevante a tutta una generazione di poeti della Repubblica Democratica Tedesca e, in particolare, alla cosiddetta “sächsische Dichterschule”, “scuola sassone di poesia”; tra i poeti ‘vicini’ al sentire di Georg Maurer vanno menzionati Sarah Kirsch (che fu sua allieva proprio al Literaturinstitut di Lipsia), Volker Braun e Heinz Czechowski, Voglio ricordare Georg Maurer con le parole dell’autore ed editore Wieland Herzfelde e con la mia traduzione di Froher Morgen, “Mattino lieto”.

Anna Maria Curci, 4 agosto 2016

«Come studente, come docente e traduttore, come uno al quale piaceva perdersi in strade, corridoi, paesi e libri – e come amante non smise mai di sorprendersi e di provare meraviglia. E così con la sua opera sorprendente ci ha lasciato un mondo meraviglioso.»

Wieland Herzfelde su Georg Maurer (traduzione di A.M. Curci)

Als Student, als Lehrender und Übersetzer, als einer, der sich gern in Straßen, Fluren, Ländern und Büchern verlor – und als Liebender hörte er nie auf, zu staunen und sich zu wundern. Und so ließ er uns in seinem erstaunlichen Werk eine wunderbare Welt zurück.

Mattino lieto

Stiracchiatevi rami, sveglia!
Un uovo ho mangiato e pane bianco.
Tutto il mio corpo ride.
Gli affanni della notte sono morti.

Sono sgusciato fuori dagli affanni della notte
come un uccello da un uovo.
Ho rotto il guscio
e ora me ne vado a zonzo libero.

Ora so quello che sanno i polli
quando becchettano.
So chi salutano i corvi
quando col capo annuiscono.

Georg Maurer
(traduzione di Anna Maria Curci)

 

Froher Morgen

Streckt euch, Zweige, erwacht!
Ich habe ein Ei gegessen und weißes Brot.
Mein ganzer Leib lacht.
Die Nachtsorgen sind tot.

Ich bin aus den Nachtsorgen gekrochen
wie ein Vogel aus dem Ei.
Ich habe die Schale durchbrochen
und spaziere jetzt frei.

Ich weiß jetzt, was die Hühner wissen,
wenn sie picken.
Ich weiß, wen die Raben grüßen,
wenn sie mit dem Kopfe nicken.

Georg Maurer
(la poesia si può leggere nel volume Ich sitz im Weltall auf einer Bank im Rosental, pubblicato nel 2007, anno del centenario della nascita di Maurer, dalla Connewitzer Verlagsbuchhandlung)

Letture a due voci, 4: Mauro Valentini, Cianuro a San Lorenzo

03 mercoledì Feb 2016

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Letture a due voci, Prosa, Rubriche, Storia

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Anna Maria Curci, Letture a due voci, Mauro Valentini, Poetarum Silva, prosa, recensioni, Roma, San Lorenzo, Sandra Luigia Rebecchi, Sovera, storia

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Mauro Valentini, Cianuro a San Lorenzo. La storia di Francesca Moretti, Sovera edizioni, Roma, 2015

Il libro di Mauro Valentini è il resoconto di un fatto di cronaca avvenuto a Roma nel febbraio del 2000. Francesca Moretti, una ragazza marchigiana, sociologa, vive a Roma, nel quartiere di San Lorenzo, con due sue amiche, Mirela e Daniela. Francesca è attiva all’interno dell’Opera Nomadi come operatrice scolastica nei campi Rom. Così ha conosciuto Graziano Halilovic, rom, operatore culturale sposato con figli; Francesca se ne è innamorata e lui sembra ricambiare. Hanno concordato di trasferirsi a Torino in un campo rom per cominciare una nuova vita insieme. La cultura rom consente ad un uomo di sposarsi più volte.

La sera del 22 febbraio del 2000 Francesca si sente male e viene trasportata d’urgenza all’Ospedale S. Giovanni dove muore poche ore dopo. L’autopsia rivela che è stata avvelenata da una dose di cianuro e poiché l’ultima cosa che ha ingerito è stata una minestrina cucinata dalla sua coinquilina Daniela Stuto, la ragazza viene accusata del delitto e trascorreranno due lunghi anni nei quali verrà additata da tutti come la colpevole. Ad aprile del 2002 la ragazza viene assolta per non aver commesso il fatto e verrà assolta in appello nel 2003.

La vita di Daniela Stuto è segnata per sempre dai due anni di indagini, interrogatori ed arresti domiciliari. Il caso è ancora oggi insoluto.

Ecco, pensavo scrivendo questo commento, poche parole e la cronaca è completata. La cronaca, cioè la registrazione dei fatti fatta in modo impersonale e mancante di qualsiasi criterio interpretativo. È questo l’intento di Mauro Valentini nel suo libro? Fare un resoconto dei fatti  particolareggiato, attentamente documentato, ricavato da atti ufficiali ormai pubblici, resoconti di intercettazioni telefoniche, arringhe del PM e dell’avvocato della difesa? La si può definire una cronaca?

Fin dalle prime pagine il lettore diviene partecipe in qualche modo dei fatti e fa la conoscenza dei protagonisti e non è una conoscenza asettica, perché fin dall’inizio si viene proiettati nel mondo delle tre ragazze che condividono appartamento e giovinezza, abitudini ed esperienze. Il fatto che abitino in un quartiere popolare con una storia dolorosa alle spalle, il fatto che l’appartamento sia situato nel quartiere di San Lorenzo è di certo per il lettore romano qualcosa che fa la differenza. È un posto “famigliare”, mentre risulta spontaneo pensare che certi fatti di cronaca nera avvengano sempre “altrove”.

Ma allora quello di Valentini è il racconto di una storia. In effetti il giornalista ricostruisce ordinatamente gli eventi, oggetto di una sua indagine critica che riferisce al lettore collegandoli nel corretto sviluppo temporale. Allora si tratta di una storia? E anche qui la risposta è difficile, perché le pagine di Valentini trascinano come quelle di una storia, anche se fin dall’inizio si è ben consapevoli che finire di leggere il libro non ci porterà a nessuna conclusione, per il semplice fatto che conclusione non c’è stata.

È proprio questa sensazione di essere di fronte ad una realtà, narrata ma non manipolata, descritta ma non giudicata, essenziale senza tralasciare nessun particolare, che rende interessante e coinvolgente la lettura.

Questo tipo di racconto è mille volte lontano da quello urlato, ad effetto, troppo deciso nelle conclusioni, caratteristico della pagina di cronaca di un qualsiasi giornale. E forse è questo che attira il lettore e che gli dà la sensazione di conoscere da vicino i protagonisti dei fatti.

@Sandra L. Rebecchi

Un fatto di cronaca, un rebus, una drammaturgia. La ricostruzione dei fatti intorno alla vicenda che viene ancora oggi ricordata come “il caso della minestrina al cianuro” diventa in Cianuro a San Lorenzo di Mauro Valentini costruzione di un’opera a più voci della quale il cronista-autore mantiene ben saldo il timone. Si badi bene: Mauro Valentini non bara, non falsa le carte, non offre sacrifici sull’altare del facile effetto, eppure riesce a incatenare chi legge alle vicende di Francesca Moretti, la giovane sociologa marchigiana morta a Roma al pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni, alle 19, 35 del 22 febbraio 2000, dopo essere stata ricoverata d’urgenza per dolori lancinanti. A pranzo aveva mangiato soltanto una minestra con il formaggino, preparata da una delle ragazze che con lei divideva l’appartamento nel quartiere romano di San Lorenzo. È la minestrina la causa del decesso? E se questa è stata avvelenata, chi ha messo il veleno? E le medicine che Francesca prendeva da giorni per la lombo-sciatalgia? Di tutto questo tiene conto e dà conto Mauro Valentini, distribuendo voci e passi a una costellazione di personaggi di diverse culture e provenienze. Altra non è, questa costellazione, se non quella delle persone che, nella vita di Francesca, dalla nascita agli ultimi giorni, hanno occupato un posto di primaria o di secondaria importanza, ma che un ruolo nelle vicende di Francesca hanno svolto. Provengono da varie parti dell’Italia, questi personaggi, o da altri paesi europei, come Mirela Nistor, romena, una delle due coinquiline di Francesca,  oppure appartengono a culture percepite come molto distanti e viste con diffidenza, come Graziano Halilovic, rom, sposato, padre di cinque figli,  che  con Francesca ha una storia d’amore. Sono donne e uomini in carne e ossa, non solo personaggi, ovviamente, e ci vengono incontro, attraverso le pagine di Cianuro a San Lorenzo, con le loro deposizioni, le confidenze, i gesti riferiti, con i loro tic, le loro manie, le reticenze su alcuni aspetti e, d’altro canto,  la sovrabbondanza – quasi un fiume, se si pensa, ad esempio, alla deposizione di Antonella, amica di Francesca, al processo – di dettagli su altri aspetti. Uno dei meriti di Mauro Valentini va individuato senz’altro nella capacità di dare alle vicende narrate e alle persone coinvolte sia la veridicità della cronaca sia l’animazione drammaturgica.

Anche i luoghi, gli interni come gli esterni, assumono in Cianuro a San Lorenzo il ruolo di indicatori del contesto in cui si svolgono i fatti e, allo stesso tempo, di veri e propri personaggi. Il quartiere di San Lorenzo è, ovviamente, in primo piano, con i suoi locali, le botteghe, lo scalo ferroviario e i piloni della Tangenziale, con la sua storia ricca di eventi e l’impatto sull’immaginario collettivo, ma pagine significative vengono dedicate anche alla città natale di Francesca Moretti, Pesaro, così come a quella di Daniela Stuto, Lentini. Daniela Stuto è l’altra coinquilina di Francesca in quel tragico febbraio 2000; Daniela è la giovane donna accusata dell’omicidio di Francesca. Come e perché si sia arrivati a quell’accusa, con quali sentenze si siano conclusi i processi lo apprenderemo nel corso della lettura.

Lo studio preparatorio, le indagini sulle indagini che hanno preceduto e accompagnato la stesura di questo libro, tuttavia, permettono a chi legge di apprendere molto di più delle semplici risultanze dei due gradi di giudizio. Chi legge entra nel vivo del dibattito processuale, impara a conoscere dinamiche relazionali e caratteristiche dei singoli individui che formano la costellazione qui presentata attraverso documenti e testimonianze. Si fa strada e prende corpo, così, un’ipotesi di soluzione del caso che smentisce le vie finora prevalentemente seguite.

Una nota a parte deve essere dedicata agli approfondimenti che arricchiscono Cianuro a San Lorenzo e che offrono scorci di varia natura, dalla panoramica sull’avvelenamento al cianuro nel cinema e nella letteratura, alle indagini compiute dallo stesso Mauro Valentini tra gli artigiani del popolare quartiere romano sulla possibilità di accedere al veleno mortale, ai veri e propri ‘studi di caso’ compiuti su misteri e delitti che presentano analogie con la storia di Francesca Moretti.

© Anna Maria Curci

La nota di Anna Maria Curci è apparsa precedentemente su “Poetarum Silva”, qui

Letture a due voci, 2: Claudio Pescetelli, Roma Beat

06 mercoledì Gen 2016

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Laura Vazzana, Musica, Prosa, Recensioni, Rubriche, Storia

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Anna Maria Curci, Beat, Beatles, Claudio Pescetelli, golpe Borghese, Il vicario, Laura Vazzana, Letture a due voci, musica, Per le strade di Roma, Piper, Poetarum Silva, prosa, recensioni, Rolf Hochhuth, rubriche, storia, Teatro Adriano, teatro off, underground

ROMA BEAT - copertina prima

Claudio Pescetelli, Roma Beat, Zona editrice 2015

Con il suo libro “Roma Beat”, Claudio Pescetelli ha scritto pagine della storia d’Italia. Una storia piuttosto recente, per molto tempo trascurata, come spesso avviene con le cose a portata di mano. Qui non si parla della grande America, si parla di Roma, di come Roma, negli anni ’60, ha rivisitato e vissuto a modo suo stimoli creativi e culturali, offrendoli a un vasto pubblico. Di giovani, naturalmente, perché i giovani rappresentano da sempre la parte ricettiva della società.

Noi che eravamo bambini o ragazzi negli anni ’60 non possiamo non provare un senso di nostalgia, non possiamo non aver conosciuto direttamente o indirettamente una bella fetta dei nomi citati con grande cura e studio dall’autore, degli artisti, come pure dei locali. Che spesso erano locali per modo di dire. Mentre gli artisti neanche si immaginava che, alla distanza, avrebbero costituito capitoli importanti della musica rock italiana.  Prendo ad esempio il mitico Renato Zero. Ora è riconosciuto universalmente un grande, uno che ha ancora molto da dire, i cui concerti sono autentici spettacoli, allora si notava perché era un personaggio e proprio per questo non aveva vita facile.

Per i ragazzi di oggi la lettura di “Roma Beat” è utile e istruttiva perché riporta dettagliatamente il clima particolare di voglia di sperimentare che abbracciava le nuove generazioni, pure se in un momento storico in cui il cosiddetto ‘gap’ con gli adulti era davvero profondo. Eppure, nei condomini, non erano rare le cantine allestite a salette per suonare, insonorizzate alla meglio con le scatole delle uova. Chi poteva, metteva i soldi da parte per comprarsi una chitarra. Si suonava sul prato con gli amici, cercando gli accordi giusti, imitando gli artisti veri.

Con l’aderenza al reale dello storico, l’autore non trascura, tuttavia, di mettere in evidenza come, nonostante gli slogan sulla pace gridati con forza, cominciasse purtroppo ad aprirsi un varco anche il lato buio del cambiamento.

©Laura Vazzana

Immaginate di poter proseguire, attraverso la lettura di un libro, una conversazione che avete iniziato, appena ventenni, con un amico. Quella conversazione, come avveniva spesso, verteva sui ricordi, ancora molto freschi, che provenivano dai banchi di scuola. Immaginate che quella scuola di cui vi raccontava l’amico sia la scuola nella quale insegnate da tanti anni. Immaginate di aver conosciuto e apprezzato, come colleghi, alcuni dei professori del vostro amico. Immaginate, ancora, che quella conversazione, che partiva dai banchi di scuola, si allargasse immediatamente alle passioni comuni, o meglio “alla” passione per eccellenza, quella per la musica, quella che vi spingeva, tra l’altro, a trascorrere la domenica mattina nella galleria semibuia che collega Piazzale della Radio con il dispiego di colori delle bancarelle di Porta Portese. A far cosa? Ma a scambiare vinili, sfiancati dall’ascolto e sempre inseguiti e curati, a cos’altro?  La passione per la musica che vi faceva sussurrare o gridare (a mo’ di quel “Klopstock” pronunciato ne I dolori del giovane Werther) il nome di gruppi sentiti come propri grazie al piacere della ricerca e della scoperta. Immaginate di leggere Roma Beat di Claudio Pescetelli e trovare, ampliato e amplificato, con un suono nitido, il tono familiare e sempre nuovo di quella conversazione. Se immaginate tutto questo, comprenderete la gioia nel percorrere questo “ponte della musica” visionario e tuttavia assai concreto. Roma Beat è una cronaca appassionata e documentata fin nel minimo dettaglio non solo della scena underground, dell’universo beat a Roma, dal 13 febbraio 1965 all’11 ottobre 1970, ma anche del contesto sociale e politico in cui si muovono i giovani che danno vita in quegli anni a locali, concerti, teatri e cinema off. Non troverete soltanto notizie – una fucina pressoché inesauribile, comunque – sulla storia dell’apertura del Piper e sulla prima volta dei Beatles a Roma, per la precisione al Teatro Adriano, ma anche particolari e testimonianze su soffiate di quotidiani della capitale, sgomberi e fermi in occasione della prova generale della pièce di Hochhuth, Il vicario,  opera e operazione che scatenarono rumorosissime polemiche e sordi interventi di censura, sui “capelloni”  che stazionavano sulla scalinata di Trinità dei Monti, tenuti a distanza e perfino temuti dai benpensanti, i quali reclamavano a gran voce l’intervento della polizia, su manifestazioni e repressioni, su proteste e pacifismo, sulla guerra del Vietnam, sui depistaggi dei servizi segreti sulla strage di piazza Fontana, sui preparativi del golpe di Junio Valerio Borghese.

“Se vuoi, dai voce alla storia”, scrivevo qualche anno fa a Berlino, in occasione dei 50 anni dalla costruzione del muro.  In Roma Beat Claudio Pescetelli ha dato voce alla storia, con la cronaca di un cambiamento epocale che si è manifestato in particolare attraverso la musica e la sua ricezione.*

© Anna Maria Curci

CLAUDIO PESCETELLI è nato nel 1960 a Roma, dove vive. Appassionato e studioso degli anni sessanta e settanta, alle culture e alla musica di quegli anni dal 1991 ha dedicato le fanzine Born Loser e Mondo Capellone. Ha sinora pubblicato otto libri, sei di argomento musicale – Ciglia ribelli (I libri del Mondo Capellone, 2003), Una generazione piena di complessi (Zona Editrice, 2006), i tre volumi di Nudi & crudi (I libri del Mondo Capellone, 2010, 2011 e 2012) e Lo stivale è marcio (Rave Up Books, 2013) – e due romanzi, Le tribù (Zona Editrice, 2009) e Strada statale (I libri del Mondo Capellone, 2011).Ha disegnato copertine di dischi per i gruppi The Garbages e The Others, e collaborato con le riviste Bassa Fedeltà, Misty Lane, Vintage e Jamboree.

*la lettura di Anna Maria Curci è apparsa in anteprima su Poetarum Silva, qui

Ottavio Olita, Anime rubate

05 mercoledì Ago 2015

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Lettere migranti, Narrativa, Recensioni, Romanzi

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Anna Maria Curci, anonima sarda, Città del Sole edizioni, Costantino Nivola, Dante Maffia, giornalismo, Novità editoriali, Ottavio Olita, Poetarum Silva, recensione, recensioni, romanzo, romanzo and tagged Anna Maria Curci, Sardegna, sequestri

In questo mese di agosto 2015 i lettori di “Lettere migranti” troveranno qui una scelta di “inviti alla lettura”.  Il terzo appuntamento è con Anime rubate, il nuovo romanzo di Ottavio Olita.

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Ottavio Olita, Anime rubate, Città del sole edizioni 2015. Prefazione di Dante Maffia

“Al di là di colpa ed espiazione” è la traduzione letterale del titolo di un libro di Jean Améry (pseudonimo di Hans Mayer), che in Italia è stato tradotto come Intellettuale ad Auschwitz.
Anime rubate, il romanzo più recente di Ottavio Olita, narra di colpa, di espiazione e di ciò che si trova al di là della colpa e dell’espiazione, oltre e accanto, ciò su cui solitamente preferiamo calare il velo della dimenticanza. Non sembri azzardato affiancare la devastazione provocata sui sopravvissuti ai campi di sterminio quella sofferta dai sopravvissuti ai sequestri di persona (questo è infatti, tra i temi affrontati in Anime rubate, quello dominante). A confermare il collegamento proposto c’è uno scambio di battute tra due personaggi femminili, di grande rilevanza nel romanzo: Maddalena Calvi, avvocato, e la sua assistita Alice Maltese, insegnante, già vittima, poco più che ventenne, di un rapimento che squassa la sua esistenza per sempre. Ebbene, questo passaggio mi sembra centrale e niente affatto trascinato per il verso dell’esagerazione:

”L’altra cosa importante è che è la prima volta che questo magistrato si occupa di un sequestro di persona, quindi è bene che lei gli racconti anche le angosce, le paure, la violenza di un reato di cui nessuno parla più e che è stata una vera piaga sociale ed economica per tutta l’isola”.

“Beh, allora avrà modo di fare un rapido apprendistato sulla capacità che ha l’uomo di diventare peggio delle bestie quando mette via umanità e sensibilità per farsi rubare l’anima dal richiamo del denaro, anche di quello sporco di fango e sangue”.

In una narrazione che prende lo spunto da una storia vera, così come è avvenuto per i romanzi precedenti, e che menziona un fatto di cronaca del 2013, il ritrovamento in un muretto a secco delle sculture dell’artista Costantino Nivola, rubate nel 1999 dal museo di Orani, chi legge ha modo di seguire diversi percorsi, di colpa e di espiazione, appunto, di confessioni (dalle ‘confessioni di un ottuagenario’, nel caso narrato dalle confessioni di Antonio Peddis alla nipote Elisabetta, che delle ultime volontà del nonno e del suo desiderio di espiazione si farà poi paladina, partono tutti i fili, numerosi, della vicenda), di miti e coscienza di quella che una volta veniva chiamata “anonima sarda” (Giorgio Mulas, il nipote adolescente di uno dei tre ‘moschettieri’ che animano le inchieste narrative di Olita, Gino Murgia, vede inizialmente negli autori dei sequestri quasi degli eroici Robin Hood, addirittura un’affascinante versione dellabalentìa; lo zio, con dolce determinazione e con l’aiuto del giovane Ignazio, ospite della comunità di don Achille, e di altri testimoni, favorirà un processo di progressiva chiarificazione), di svelamento di verità, di indagini condotte pur nella consapevolezza del pericolo pianificato nel dettaglio da reti complesse del crimine organizzato, con basisti, talpe, killer e colletti bianchi, di lenta e meditata riappropriazione di luoghi (in Sardegna, soprattutto) e di sentimenti. Chi legge, segue con coinvolgimento e convinzione il ritmo e il cambio di passo delle indagini e prova riconoscenza per una via, costruita con concretezza e lastricata di risposte all’interrogativo che mai si dovrebbe mettere a tacere: a che cosa serve la memoria? In tal senso, la vicenda di Giorgio, romanzo nel romanzo, è esemplare e consolida la fiducia, davvero maltrattata in questi tempi di serie televisive e ricostruzioni lacunose, fallaci e manipolate, che lo studio della nostra storia recente, così come lo studio della storia tout court, possa farsi elemento fondamentale della formazione umana. In tutto questo sta, e non è poco, l’andare “al di là di colpa ed espiazione”, senza dimenticare il crimine, senza vanificare, con cancellazioni e prescrizioni, il significato della parola “giustizia”.

© Anna Maria Curci

La nota di lettura è stata pubblicata il 18 luglio 2015 su Poetarum Silva, qui

Giovanni Ricciardi, La canzone del sangue

03 lunedì Ago 2015

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Gialli, Lettere migranti, Narrativa, Recensioni, Romanzi

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Anna Maria Curci, Arthur Schnitzler, autori siciliani, Doppio sogno, fazi editore, Gialli, Giovanni Ricciardi, letture, musica, Poetarum Silva, recensioni, romanzo and tagged Anna Maria Curci, Vitti na crozza

In questo mese di agosto 2015 i lettori di “Lettere migranti” troveranno qui una scelta di “inviti alla lettura”.  Il secondo appuntamento è con La canzone del sangue di Giovanni Ricciardi.

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Giovanni Ricciardi, La canzone del sangue, Fazi editore 2015
Nota di lettura di Anna Maria Curci

Quanto è vera la vita di carta? Quanto dolore deborda dalle righe di un pentagramma, magari oltre le intenzioni di chi ha trascritto, trasposto e consegnato all’interprete, al lettore, all’ascoltatore, all’esecutore? Quanti significati, ancora, serba, nasconde e svela ai cercatori, aruspici e minatori, il  verbo latino tradere?
Sono domande, queste, che Giovanni Ricciardi sa far emergere, istigando la ricerca di risposte, nella sesta indagine del commissario Ottavio Ponzetti, La canzone del sangue. Punto di partenza sono testo e melodia di una canzone, le cui strofe dell’originale sono riportate nell’esergo della prima parte, e che è nota come canzone popolare siciliana per eccellenza: Vitti na crozza. Ottavio Ponzetti si trova a fronteggiare richieste di aiuto, segreti, antiche e nuove storie, enigmi e rancori, quasi suo malgrado, perché in Sicilia, teatro delle vicende, si trova in ferie con la famiglia al completo. Allora, si chiederanno i lettori affezionati a Ponzetti, dove è finita Roma, dove le sue vie e i suoi colori, la sua afa e il caldo umido? Roma ci sarà, in un ponte reale e ideale, ci saranno perfino l’avvocato Galloni e il suo cane Socrate. Ci sarà, eccome, il fido Iannotta, con il suo romanesco misto di saggezza e di ovvietà; interverrà perfino, come scopriranno i lettori, il commissario Montalbano.
Il mondo plurale, di lingue, idioletti, etnie, radici, gerghi e strati sociali, al quale Giovanni Ricciardi ci ha introdotto, si arricchisce qui ulteriormente, e lascia prevedere sviluppi futuri, nuovi ingressi nel mondo degli affetti.
Torna a schiudere l’accesso ai suoi misteri il potere della musica; il basso continuo della poesia si manifesta con voci che spaziano da Omero ai cantautori italiani, passando per Dante e Dylan Thomas.
Terminata la lettura del libro, dal quale, anche stavolta, non ci si stacca, dopo aver mollato gli ormeggi, se non quando si approda alla meta stabilita dall’autore-nocchiero, torna la domanda sostanziale, che Ottavio Ponzetti e Mario Iannotta ‘fomentano’ tra il serio e il faceto nel corso del romanzo: quanto è vera la vita di carta? E, ancora, quanto è vera la vita del sogno? A questa domanda ha dato risposta, nella letteratura, un altro ‘personaggio di carta’, Albertine di Doppio sogno di Arthur Schnitzler. Un’altra significativa risposta, insieme a un tascapane con ulteriori domande, si trova ne La canzone del sangue di Giovanni Ricciardi. Dunque, con la “bisaccia del cercatore”, buon viaggio e buona lettura.

Anna Maria Curci

La nota di lettura è stata pubblicata il 16 luglio 2015 su Poetarum Silva, qui

Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno

01 sabato Ago 2015

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Lettere migranti, Narrativa, Recensioni, Romanzi

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In questo mese di agosto 2015 i lettori di “Lettere migranti” troveranno qui una scelta di “inviti alla lettura”. Il primo appuntamento è con il romanzo di Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno.

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Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno, edizioni e/o 2015

Inventario di un incontro
di Anna Maria Curci

«Ma già prima del termine di giugno/ la mia palinodia divenne sorte:/ nessun antagonista alla mia morte» (Elio Pagliarani, da Inventario privato; versi riportati in esergo da Patrizia Rinaldi). Al termine del nostro incontro nel settembre scorso ho ricevuto da Patrizia Rinaldi una promessa. O meglio, con l’orgoglio pudico di chi legge e, lontano dalla vista altrui, pensa che tutto ciò che è scritto sia rivolto a lei,  a lui, ho accolto quell’annuncio – ché annuncio era – come una promessa. A fine settembre 2014, dunque, alla domanda circa i suoi progetti futuri che le ho rivolto mentre eravamo al Villaggio Giuliano-Dalmata, Patrizia Rinaldi ha risposto che le vicende narrate avrebbero menzionato anche una sorte non dissimile da quella toccata a molti dei primi abitanti del quartiere romano nel quale ci trovavamo a parlare. Un sobbalzo, difficile da spiegare con meri dati autobiografici, ha inaugurato allora la mia attesa, che si è conclusa «prima del termine di giugno», allorché il libro è stato pubblicato. Un’attesa che è stata premiata, perché, sì, confesso di aver provato amore per gli scontri, fieri e dignitosissimi, con gli «scostumatelli dal falso sdegno» di Maria Antonia, la madre, narrata da giovane, e di Ena, la sua terzogenita, da vecchia, che a quella narrazione alterna il racconto in prima persona. Ho indugiato, con lo sguardo che riconosce parenti molto più stretti dei consanguinei, su gonne plissettate, su stoffe da arredi sacri, «cascioni» e ricicli vari, su guanti, sottovesti, pois e cappellini, su scarpe amorevolmente curate e, di necessità,  virtuosamente «pittate».

Mi guardo le mani.
«Se vorrai mentire sull’età, non dimenticare di metterti i guanti» mi diceva mia madre, dimenticando che l’era dei guanti fosse già finita da un pezzo.
Nel reparto laterale dell’armadio riposano in pace guanti di filo, di lana, di pelle. Quelli di pelle avrebbero dovuto essere conservati meglio, magari con della carta all’interno, invece l’incuria li ha costretti in un ammasso di dita e di polsi.
Il loculo dei guanti è un solido geometrico con l’odore di mia madre. Un misto di lavanda immortale, di retrogusto di tuberose, olezzo di rossetto stantio. (p. 39)

Ho attraversato l’odore acre della fuga per la sopravvivenza,  il pozzo della fame che nasconde il fondo e tende nicchie come trappole, “il sole nero della malinconia” compagna e musa, perfino l’Agro Pontino, la terra piatta e la malaria fatale dei racconti che qui dove vivo ho ascoltato da più voci.

Sono tornata a fissare l’occhio sulla sagoma di Nisida: anche quella non manca mai di far spiccare balzi al cuore e accennare piroette alla testa, perché ci sono orizzonti che si abbracciano come propri, anche quando non si sono ‘realmente’ palesati nella nostra infanzia.
Ho tuffato il naso nel glicine, ho percorso su e giù lo scalone della «villa a mare», ho abitato «la casa vicino ai binari del tram», ho ascoltato quieta e ho studiato con Lucia, la primogenita di Maria Antonia, ho cucinato la pizza di zucchine con Giuseppina, l’amica di Ena, ho tremato a Dachau con i fratelli di Maria Antonia, Renato, Tore e Arturo, ho scoperto la fatica paziente e buona del riaggiustare.

Renato e Tore furono assegnati alla pressa e alla pazzia.
Arturo fu impiegato per la riparazione delle macchine. L’ebete fissazione per Zoccolì lo conservò quasi indenne.
Aveva una capacità rara di stare al pezzo per ore e ore, non mollava un ingranaggio finché non l’aveva riparato. Ricostruiva parti mancanti o lesionate con ogni genere d’invenzioni meccaniche.
Le sue mani avevano l’intelligenza che a lui mancava.
Per questo prigionieri e sorveglianti gli permettevano di restare da solo; presto diventò per tutti una macchina che aggiustava macchine. E basta. (pp. 69-70)

Per colpa della guerra, dopo la guerra e nella guerra perpetua che si dilata, serpe smisurata, nella Storia: non è litania blasfema o «arrovogliata», è filo conduttore, è legenda della mappa di questo libro e dell’esistenza, della danza, con le scarpe pittate, i piedi scalzi o l’acetabolo rotto, con la signora che ha tra le braccia un fascio di spighe e miete, miete, senza alcun antagonista.

© Anna Maria Curci

La nota di lettura è apparsa il 13 luglio 2015 su Poetarum Silva, qui

Thomas Bernhard, 25 anni dopo

12 mercoledì Feb 2014

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Lettere migranti, Poesia, Traduzioni

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Aldo Giorgio Gargani, Anna Maria Curci, Auf der Erde und in der Hölle, Il pensiero raccontato, Korrektur, Poesia, Poetarum Silva, Selbstwatschen, Thomas Bernhard, traduzione

Soliman rovescio
La scrittura è uno schiaffo
che sonoro ci inchioda
solenne rifiliamo
ad altri e a noi stessi.

Surroga d’omicidio
rinfranca e rintrona se
è lastra che denuda
mai pozza a rimirarsi.

Anna Maria Curci
24 luglio 2010

25 anni fa, il 12 febbraio 1989, moriva Thomas Bernhard. Nell’intervista del 1978 a Krista Fleischmann, riproposta in apertura, Bernhard definiva la scrittura come “Selbstwatschen”, “autoceffone”, un sonoro manrovescio, esercizio quotidiano di pensiero e di linguaggio che ricorda a chi scrive che non gli è dato conoscere “den richtigen Zeitpunkt”, il momento esatto in cui oltrepassiamo il limite tra dicibile e indicibile:  ‹Un giorno, in un solo istante, sfondiamo il limite estremo. […] Noi conosciamo il metodo, ma l’istante temporale non lo conosciamo. » (Thomas Bernhard, Korrektur; brano riportato da Aldo Giorgio Gargani nel volume Il pensiero raccontato, Laterza 1995, p. 62). Sempre nell’intervista a Krista Fleischmann, Thomas Bernhard: «Mir wurde der Tod in die Wiege gelegt, er verfolgt mich halt» (La morte mi è stata messa nella culla, mi perseguita, tutto qui).

Ripropongo qui, su Lettere migranti, un contributo apparso precedentemente – per la precisione il 30 agosto 2013, su Poetarum Silva, qui:

La prima raccolta di poesie di Thomas Bernhard, Auf der Erde und in der Hölle (Sulla terra e all’inferno) fu pubblicata nel 1957.  Alcune liriche vengono proposte qui nell’originale in tedesco e nella mia traduzione. Nel percorrere questi versi non sfuggiranno certamente le suggestioni che derivano dalla lettura della poesia di Georg Trakl. (Anna Maria Curci)

Der Tag der Gesichter

Morgen ist der Tag der Gesichter. Sie werden
sich erheben wie Staub
und in Gelächter ausbrechen.
Morgen ist der Tag der Gesichter, die in
die Kartoffelerde gefallen sind. Ich kann
nicht leugnen, daß ich
an diesem Sterben der Triebe schuldig bin.
Ich bin schuldig!
Morgen ist der Tag der Gesichter, die meine Qual
auf der Stirn tragen,
die mein Tagwerk besitzen.
Morgen ist der Tag der Gesichter, die wie Fleisch
auf der Kirchhosfmauer tanzen
und mir die Hölle zeigen.
Warum muß ich die Hölle sehen? Gibt es keinen anderen Weg
zu Gott?
Eine Stimme: Es gibt keinen anderen Weg! Und dieser Weg
führt uber den Tag der Gesichter,
er führt durch die Hölle.

Il giorno dei volti

Domani è il giorno dei volti. Si
solleveranno come polvere
e scoppieranno a ridere.
Domani è il giorno dei volti, caduti
nella terra delle patate. Non posso
negare di essere
colpevole di questa morte delle pulsioni.
Sono colpevole!
Domani è il giorno dei volti, che portano
il mio tormento sulla fronte,
che possiedono il mio lavoro quotidiano.
Domani è il giorno dei volti, che ballano
come carne sul muro del cimitero
e mi mostrano l’inferno.
Perché devo vedere l’inferno? Non c’è altra via
a Dio?
Una voce: Non c’è un’altra via! E questa via
passa per il giorno dei volti,
passa per l’inferno.

Thomas Bernhard
(Traduzione di Anna Maria Curci)

Ich weiß, daß in den Büschen die Seelen sind

Ich weiß, daß in den Büschen die Seelen sind
von meinen Vätern,
im Korn
ist der Schmerz meines Vaters
und im großen schwarzen Wald.
Ich weiß, daß ihre Leben, die ausgelöscht sind
vor unseren Augen,
in den Ähren eine Zuflucht haben,
in der blauen Stirn des Junihimmels.
Ich weiß, daß die Toten
die Bäume sind und die Winde,
das Moos und’die Nacht,
die ihre Schatten
auf meinen Grabhügel legt.

So che nei cespugli ci sono le anime

So che nei cespugli ci sono le anime
dei miei padri
nel grano
c’è il dolore di mio padre
e nel grande bosco nero.
So che le loro vite, che sono estinte
ai nostri occhi,
hanno un rifugio nelle spighe
nella fronte azzurra del cielo di giugno.
So che i morti
sono gli alberi e i venti,
il muschio e la notte
che le sue ombre
posa sul mio tumulo.

Thomas Bernhard
(Traduzione di Anna Maria Curci)

In einen Teppich aus Wasser

In einen Teppich aus Wasser
sticke ich meine Tage,
meine Götter und meine Krankheiten.
In einen Teppich aus Grün
sticke ich meine roten Leiden,
meine blauen Morgen,
meine gelben Dörfer und Honigbrote.
In einen Teppich aus Erde
sticke ich meine Vergängnis.
Ich sticke meine Nacht hinein
und meinen Hunger,
meine Trauer
und das Kriegsschiff meiner Verzweiflungen,
das hinübergleitet in tausend Gewässer,
in die Gewässer der Unruhe,
in die Gewässer der Unsterblichkeit.

In un tappeto d’acqua

In un tappeto d’acqua
ricamo i miei giorni,
i miei dei e i miei malanni.
In un tappeto di verde
ricamo i miei dolori rossi,
i miei mattini azzurri,
i miei borghi in giallo e le mie fette di pane e miele.
In un tappeto di terra
ricamo la mia caducità.
Ci ricamo dentro la mia notte
e la mia fame,
il mio cordoglio
e la nave da guerra delle mie afflizioni
che scivola in mille acque,
nelle acque dell’inquietudine,
nelle acque dell’immortalità.

Thomas Bernhard
(Traduzione di Anna Maria Curci)

Vor dem Dorf

Die Gesichter, die aus dem Feld tauchen, fragen
mich nach der Rückkunft.
Mein Schrei stört nicht die Schwalbe,
die auf dem zerbrochenen Ast hockt. Finster
ist meine Seele, die der Wind treibt
ans Meer, zu riechen das Salz der Erde.
Meine Legende ist sterblich.
Unter dem Baum, der meinem Bruder ähnlich ist,
zähl ich die Sterne der Schiffer.

Davanti al borgo

I volti che emergono dal campo mi chiedono
del ritorno.
Il mio grido non  turba la rondine
acquattata sul ramo spezzato. Cupa
è la mia anima, che il vento spinge
al mare, a fiutare il sale della terra.
La mia leggenda è mortale.
Sotto l’albero, che assomiglia a mio fratello,
conto gli astri dei barcaioli.

Thomas Bernhard
(Traduzione di Anna Maria Curci)

Im Garten der Mutter

Im Garten der Mutter
sammelt mein Rechen die Sterne,
die herabgefallen sind, während ich fort war.
Die Nacht ist warm und meine Glieder
strömen die grüne Herkunft aus,
Blumen und Blätter,
den Amselruf und das Klatschen des Webstuhls.
Im Garten der Mutter
trete ich barfuß auf die Schlangenköpfe,
die durch das rostige Tor hereinschaun
mit feurigen Zungen.

Nel giardino della madre

Nel giardino della madre
il mio rastrello ammucchia gli astri
caduti mentre ero via.
Calda è la notte, e le mie membra
sprigionano l’origine verde,
fiori e foglie,
il grido del merlo e il battito del telaio.
Nel giardino della madre
schiaccio a piedi nudi le teste dei serpenti
che fanno capolino dal cancello arrugginito
con lingue di fuoco.

Thomas Bernhard
(Traduzione di Anna Maria Curci)

Vierkantenhof_Bernhard

Lucia Tosi, Metafore del freddo. Sei poesie

29 giovedì Ago 2013

Posted by letteremigranti in Poesia

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Anna Maria Curci, Lucia Tosi, Metafore del freddo, Periferie, Poetarum Silva

LuciaTosi

 

Lucia Tosi, Metafore del freddo. Sei poesie*

Nota di lettura e una traduzione di Anna Maria Curci

Vorresti stringerla in un pugno e serbarla gelosamente, questa poesia, manciata di riso sapido, riserva tenace di arguzia, lume “antivedere” al sussiego mortalmente serio e mortalmente ridicolo; dietro la curva, tuttavia, si realizza la sorpresa dell’incontro – scontro, partita a scacchi, intuizione, momentaneo connubio o scazzottata – della pianura desolata della vita e dell’attrazione della parola:

e ancora e ancora. dietro il treno e dietro le mie spalle
stavi tu laguna, e tu luna invisibile. io a sognarvi entrambe,
senza vedervi in figura, con i bastioni dei cavalcavia
in ipnosi alcolica dentro gli occhi, ho pensato: ecco, il solito
scacco, la vita è qui e quando la vedo pulsare mi ammalo di parole,
la penso da subito in parole. opera aperta, in fieri, non so.
era poco fa

Comprendi, allora, che non può, non deve essere sottratta ai desti, a tutti coloro che desti intendono esserlo.

Sono le considerazioni scaturite dalla lettura di Fuori stagione, inediti 2013 di Lucia Tosi scelti da Natàlia Castaldi per La dimora del tempo sospeso, a introdurre questa mia breve nota alla poesia di Lucia Tosi.

Di Lucia Tosi ho letto e ascoltato le voci del Piccolo alfabeto del malumore come ‘gallenbittere Galgenlieder‘: la ferocia del disincanto sa trovare stiletti precisi e affilati nell’umorismo che rovescia e smaschera.

Con O Penati Lari! Venti conversazioni con i morti, raccolte da Francesco Marotta per La dimora del tempo sospeso nel numero XXXIX dei Quaderni di Rebstein, ho percorso un itinerario di cognizione del dolore e di ri-conoscenza del sé e dell’altro, del sé nell’altro. («Dialogo in vece di fiammella votiva / strattona la memoria. Evocare? / Invocare? Provocare forse. / Rapido e tagliente pensiero scuote / d’ambo le parti i muri, sussultano / stagni taciti, balenii bluastri», scrissi allora).

La scelta di testi che propongo qui nasce da un percorso di lettura, attenzione, consuetudine, al quale volgo lo sguardo con un sentimento di familiarità e, insieme, di aspettativa mai delusa.

Le metafore del freddo introducono e uniscono nel loro nome – un nome che promette, tenendo fede alla promessa,  il gelo arguto e chiarificatore della scrittura di Karl Kraus – una manciata di versi che mantiene lo sguardo acuto («essere aquila averne l’occhio guardare / il sole senza abbassare lo sguardo»), il capovolgimento intenzionale e ‘armato’ delle immagini consuete e altrove innocue («non possono essere gentili i narcisi: / non lo sono mai davvero e mai del tutto.»), la coscienza, divertita e disperata, beffarda e ‘fedele’,  tra il “vajont di disperazione” e il tracimare della risata; altro non è,  questa coscienza, che la consapevolezza, per sua natura dinamica e polifonica,  dell’imperfezione.

Non stupirà la mia scelta di tradurre Verfallenheit in tedesco. In Verfallenheit il punto di partenza è il concetto heideggeriano che il titolo riporta programmaticamente. Da quel punto di partenza, il percorso assume connotati autonomi, propri della poesia di Lucia Tosi. Nei Gallenwege, nelle vie biliari della paura, condizione primaria dell’essere nel tempo, Lucia Tosi sa districare la massa informe, il catafalco di vecchi e nuovi miti che arresta e imprigiona. Non indica vie di salvezza, ma dà alle cose il loro nome e, in questo suo guardare lucidamente la condizione di Verfallenheit, condizione umana troppo umana del non-uomo che siamo, sa trovare la giusta distanza e praticare ‘l’arguzia della ragione’.

 

metafore del freddo 1

essere aquila averne l’occhio guardare
il sole senza abbassare lo sguardo
non serve: una corrente fredda
ammala anche le aquile le cala
a venti metri da terra
le spiuma mentre precipitano
le ritrovi passeri infreddoliti
su una siepe puntuta
con l’aria a mezzo stupita
uccelli di dio abituati alle altezze
al vasto respiro dell’ala
indecisi da un ramo all’altro
che oscilla precario
preda del primo gatto rognoso
che s’acquatta nell’ombra
credendosi tigre, leone

*

metafore del freddo 2 (capita l’antigone?)

non possono essere gentili i narcisi:
non lo sono mai davvero e mai del tutto.
non lo possono essere, poverini: nessuno gliel’ha
insegnato! “ma giammai mio ospite sia, né amico, chi agisce così”.

*

metafore del freddo 3

non come sparvieri gli occhi cuciti
ma come avvoltoi alla carogna
non basta più lasciar grattar la rogna
avidi e lividi vanno zittiti

*

imperfetta

imperfetta
sono rimasta a letto
mentre fuori infuriava
la tempesta
neve e grandine e vento
tregenda di nubi bluastre
come all’improvviso
certe sere d’estate.
pensavo alle rose lassù
le vedevo tremare
a ridosso del sottotetto
mi dicevo resisteranno
non voleranno via
sentendo d’essere quasi
una madre indegna
come talora sono
quando non dico
la parola che attendi
lo sguardo azzurro e attento
quando amandoti tanto
mi trattengo al di qua
dei tuoi freschi pensieri.

*

Mostratevi entusiasti di avermi conosciuto

La vita si fa poco per volta:
coi sensi di oggi non riconosco
quello che allora, e più indietro,
devo aver per certo provato:
per il sangue le morti
– da spiaccicamento autostradale o da malanno –
i suicidi.
Ogni volta una diga che tracima
un vajont di disperazione.
Come l’acqua che si ritira
non si sa dove – di tanta
che n’è scesa – anche il dolore
lo risucchiano il da fare
del giorno e l’invocata tenebra.
A guardare indietro
parmi d’esser stata di pietra:
neanche il tempo per graffiarmi il volto
e buttarmi a terra, nel buio,
a brancolare.

*

Verfallenheit

secolo passato inutilmente
non c’è soluzione al problema
anzi, non c’è più un problema
ende oder anfang?
che  gran ridere l’ ubermensch
e l’acqua calda del male-di-vivere
e la speranza della poesia
invasa dalle erbacce dell’angoscia
non-uomo umanisticamente stravolto
il nulla e la morte sono bei ricordi
nostalgie di stupidi adulti
che non si sanno sbarazzare
dell’ingombrante inservibile infanzia
alla vertigine della libertà
oppongo la quiete e l’equilibrio
di questa paurosa schiavitù
mentre precipito/iamo in basso

Verfallenheit

Umsonst vergangenes Jahrhundert
auf das Problem gibt es keine Lösung
ein Problem gibt es ja nicht mehr
Ende oder Anfang?
Über den Übermenschen lache ich mich krumm
und das neu erfundene Rad der Lebensmüdigkeit
und die vom Unkraut der Angst eingedrungene
Hoffnung der Lyrik
humanistisch verdrehter Nicht-Mensch
das Nichts und der Tod sind schöne Erinnerungen
Sehnsüchte stumpfsinniger Erwachsener,
die die unhandliche unbrauchbare Kindheit nicht loswerden können
dem Schwindel der Freiheit
setzte ich die Ruhe und die Ausgeglichenheit
dieser ängstlichen Sklaverei entgegen,
während ich/wir tief hinunterfalle/n.

Lucia Tosi
(traduzione di Anna Maria Curci)

__________

«Lucia Tosi è da circa trent’anni una terribile insegnante di italiano e latino, ama poche cose nella vita come la poesia e il romanzo, mentre rifugge quanto più può, nell’esercizio delle sue funzioni, la chiacchiera letteraria. Scrive poesia con esagerata testardaggine da sei anni: prima vergognandosene immensamente, ora invece desiderando di scomparire ogni qualvolta sul web compare una sua piccola raccolta (anche se le fa un enorme piacere riscontrare degli apprezzamenti positivi: che la fanno sentire meno sola e meno stupida). Ama le parole, la loro storia, per questo si laureò nel lontano 19.. in Storia della lingua italiana all’Università di Ca’ Foscari, con una tesi da serissima filologa sulla poesia di Salvatore Di Giacomo, da cui ha tratto molti insegnamenti circa la musicalità e il senso amaro e comico della vita. Ha scritto in passato per il blog La poesia e lo spirito testi critico-creativi sulla scuola italiana, delle recensioni e qualche racconto; sue poesie sono comparse in vari blog – oltre il suo -, specie ne La dimora del tempo sospeso.» (L.T.)

 _______________________________________________________

Questo articolo è stato pubblicato nel blog Poetarum Silva, qui, e nella rivista “Periferie”, n. 66/67, aprile-settembre 2013, pp. 19-21

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