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Ottavio Olita, Sulle tracce di Almeida

30 sabato Apr 2022

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Almeida Garrett, Anna Maria Curci, IsolaPalma, Ottavio Olita, recensioni, romanzi, Silvano Tagliagambe, Sulle tracce di Almeida

Ottavio Olita, Sulle tracce di Almeida. Postfazione di Silvano Tagliagambe, IsolaPalma 2021

Da un moto di sacrosanta insofferenza, di giusta rabbia, scaturiscono prima una lettera del giovane protagonista Luca Mulas, poco più che ventenne, poi la serie di eventi, luoghi, personaggi e scoperte che popola Sulle tracce di Almeida, il romanzo più recente di Ottavio Olita.
La lettera, scritta nel 2019 e lasciata dal giovane alla madre Valeria, medico a Cagliari, spaventa quest’ultima, giacché Luca appare fermamente intenzionato a far perdere le sue tracce dopo esser partito dalla città. È una lettera che denuncia il degrado di un paese nel quale l’esclusione degli ultimi, la violenza – razzista, antisemita, fascista – sono tornati a trionfare; è una lettera che, d’altro canto, rivela una assunzione di responsabilità, una ‘auto-mobilitazione’: Luca scrive che ritiene che spetti alla propria generazione muoversi, camminare, conoscere, aiutare, avere cura, agire per opporsi alla colpevole indifferenza.
Valeria teme in un primo momento che Luca pensi a una rivolta, violenta anch’essa come il male che si propone di sconfiggere; consigliata dall’amica Nerina, si rivolge al giornalista Nicola Auletta.
Cominciano così da un lato le ricerche, condotte discretamente dal capitano dei carabinieri Gino Murgia – una presenza costante, insieme al già menzionato Nicola Auletta e all’avvocato Giuliano Deffenu, nei romanzi di Ottavio Olita –; dall’altro lato prendono le mosse le tappe di avvicinamento a quella che sarà o, per essere più precisi, diventerà una delle mete del suo cammino, che si presenta, come nei due romanzi di formazione per eccellenza, che Goethe costruisce intorno alla figura di Wilhelm Meister (Wilhelm Meisters Lehrjahre e Wilhelm Meisters Wanderjahre), come “apprendistato” e “viaggio”: Porto.
Dopo Cagliari, ci sono infatti Bologna, città nella quale Luca incontra altri giovani e si scontra con le fasce più violente dello scontento nei confronti della realtà sempre più disgregata e iniqua e di una classe politica vana e corrotta; Padova, dove conosce Beatriz Alves, Madrid, dove si ferma per qualche tempo e, grazie a Gianni Gentili, figura paterna e sollecita, riesce a partecipare in prima persona a iniziative di incontri culturali, e infine Porto, dove sarà proprio Beatriz, Bea, a invitarlo. Ma il ventaglio nutrito di luoghi si dispiegherà ulteriormente, a mostrare Lisbona e, di nuovo in Spagna, la Navarra; con un ricordo drammatico del personaggio dell’avvocato Rafael Melis Pilloni, anche Gonnosfanàdiga nel Campidano nel terribile bombardamento del 17 febbraio 1943.
A Porto, dove la storia d’amore tra Bea e Luca crescerà, Luca conosce i nonni paterni di Bea e Caetana, amica di Bea, che, a sua volta, lo introdurrà alla scoperta di Almeida Garrett.
La figura di Almeida Garrett è, come suggerisce il titolo stesso del romanzo, centrale in tutta la vicenda. Lo scrittore, giornalista e politico ottocentesco João Baptista da Silva Leitão de Almeida Garrett, pensatore profondo e brillante, sostenitore e propugnatore del liberalismo e del costituzionalismo, si rivela guida spirituale nel viaggio tra memoria e futuro di Luca Mulas.
In questo vero e proprio viaggio di conoscenza – e il viaggio di conoscenza, metafora e sale di una vita piena di senso è un concetto cardine – si illuminano alcuni sentieri, che possono essere considerati vere e proprie piste di ricerca per chi legge e si inoltra tra le pagine del romanzo Sulle tracce di Almeida.
Il primo sentiero è quello della pluralità, di luoghi, di culture, di etnie: l’epigrafe dall’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti è indicativa di un filo conduttore che sarà intrecciato per tutto il corso del libro, per culminare in un progetto, un’iniziativa che promuove e diffonde l’incontro tra i popoli. La pluralità di lingue parlate e ‘frequentate’ dai personaggi del romanzo è un aspetto importante, accompagnato dalla cura di Ottavio Olita, che è stato, ancor prima che giornalista, docente universitario di lingua e letteratura francese, di “fare esprimere ciascuno nel proprio idioma”, come egli stesso ha avuto modo di dichiarare il 27 aprile 2022 a Roma, in occasione della presentazione del libro alla Fondazione Murialdi.
Il secondo sentiero è quello della formazione, attraverso i maestri: non solo i professori, come Acúrsio Souza e, successivamente, Giorgio Mingardi, ma coloro che della loro vita hanno fatto testimonianza, dai personaggi Gianni Gentili e Rafael Melis Pilloni, ai sacerdoti don Luigi Ciotti e don Tonino Bello, menzionati da Eleonora, nonna materna di Luca, nella sua lettera-lascito al nipote. Nella formazione hanno un ruolo fondamentale i nonni: nonna Eleonora per Luca, nonna Isabel e nonno Jorge per Bea. I nonni sono punto di riferimento, interlocutori prediletti, fonte e meta di affetto incondizionato, sapienza di vita.
Il terzo sentiero riguarda la dimensione politica, nel senso più alto del termine, dell’esistenza. Come contrapposizione alla sciatteria, alla corruzione, all’opportunismo, all’interesse privato, essa è indissolubilmente legata all’assunzione di responsabilità. La dimensione politica, nelle aspirazioni che vanno progressivamente chiarendosi agli occhi dei giovani protagonisti, Luca, Bea, la loro amica Caetana, appare armoniosamente allacciata alla passione culturale, artistica e letteraria, senza scissioni, come dimostra la vicenda esemplare di Almeida Garrett. La tensione spirituale, la spinta degli ideali è accompagnata e sostenuta dalla solidarietà nei confronti di chi ne ha maggiormente bisogno. La politica non può pensare di fare a meno della bussola del sapere: il punto di vista dell’autore è messo nel giusto rilievo da Silvano Tagliagambe nella lucida e chiara Postfazione.
Il quarto sentiero riguarda la testimonianza di umanità ai tempi dell’emergenza. Il diffondersi del virus Covid-19, le misure adottate per fronteggiarlo, le restrizioni, il mutamento drastico della quotidianità e l’irrompere del lutto sono temi che entrano con la loro urgenza nel romanzo, insieme al quesito: quale è la responsabilità del singolo e della comunità civile dinanzi all’imprevisto, all’imponderabile? La pandemia, la guerra non possono, non devono sospendere la pietas e, con un raggio più ampio e inclusivo, la compassione («con-dolore», per ricorrere a un concetto centrale nella scrittura di Hilde Domin che, come Almeida Garrett, dall’esilio ritornò con l’impegno di chi costruisce pace), il sentimento profondo di umanità.

© Anna Maria Curci

 

Conoscere Almeida Garrett è servito a farmi nascere un margine di speranza. Per sostenere i suoi ideali affrontò prima il carcere, poi l’esilio durante il quale seppe anche dare una più precisa definizione di qual particolare sentimento di nostalgia che è la saudade; si mise in relazione con il nuovo che stava nascendo in tutta Europa, sia in politica, sia in letteratura; capì quale grande funzione avrebbe potuto svolgere il giornalismo d’inchiesta e per praticarlo creò due diverse testate, una successiva all’altra; prese parte attiva al grande movimento liberale che stava nascendo e crescendo in Portogallo, grazie anche al suo contributo di poeta, romanziere e drammaturgo.
Tradusse la sua elaborazione teorica in opere che segnarono il suo tempo e che fecero rinascere la passione dei portoghesi per le proprie tradizioni popolari. Utilizzando il suo romanzo più importante, Viagens na Minha Terra non solo come opera narrativa, ma anche come testo storico e filosofico, seppe mettere insieme efficacemente intrattenimento e diffusione della conoscenza.
Fondamentale, nella sua esperienza di vita e professionale, è stato l’interscambio con le grandi culture europee del tempo, da quella inglese, a quella francese, a quella tedesca. Uno scossone per quegli anni nei quali il suo Paese rischiava di sprofondare nella palude dell’ignoranza voluta dall’assolutismo.
Perché non rilanciare uguali modalità d’intervento oggi, in tempi nei quali sembra prevalere l’ossessione della chiusura culturale, politica, etnica, nei propri confini nazionali? Un’egemonia che impoverisce, invece che arricchire, proprio come l’assolutismo di allora. (p. 198)

 

Ottavio Olita, da 40 anni giornalista – dopo sei anni di insegnamento universitario – negli ultimi tre decenni si è dedicato ai libri. Prima saggistica, poi narrativa. Questo è il suo ottavo romanzo. Scrive con il PC sulle ginocchia, le idee migliori gli vengono camminando, poi le trascrive ascoltando musica: Rossini, Mozart, Bach, ma anche Beatles, Edith Piaf, Mina.
Ama i gatti.

 

Giorgio Galli, Il matto di Leningrado

10 lunedì Gen 2022

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Daniil Charms, Gattomerlino, Giorgio Galli, Il matto di Leningrado, letture, prosa, recensioni, romanzi

Giorgio Galli, Il matto di Leningrado. Tre passeggiate con Daniil Charms, Gattomerlino 2021

Le tre passeggiate con Daniil Charms – questo è il sottotitolo del volume Il matto di Leningrado,  che Giorgio Galli ha pubblicato nell’aprile 2021 con la casa editrice Gattomerlino – hanno una scansione temporale che colloca la narrazione in una cornice storica drammatica: 21 marzo 1941, 21 giugno 1941, 21 agosto 1941, giorno della sparizione, quest’ultimo, di Daniil Ivanovič Juvačëv, in arte Daniil Charms.
Le investigazioni a proposito dello scrittore che appare, nelle pagine avvincenti scritte da Giorgio Galli, come «un tale che fumava una pipa ricurva e portava un cappello alla Sherlock Holmes», sono tributi d’amore e di una certa ‘affinità elettiva’ da parte di un viaggiatore nel tempo che per tutto il libro viene indicato, talvolta apostrofato, con il pronome personale alla seconda persona singolare.
Il testimone raccoglie gli indizi, sparsi e scarni, sugli ultimi mesi di vita di un autore del quale sono giunte a noi pochissime opere, per vie fortunose, da una misteriosa valigia, attraverso samizdat.
Nella Nota dell’autore Giorgio Galli precisa: «Questa è un’opera narrativa e non di rigore storico». Tuttavia, essa sprona all’indagine letteraria in un contesto storico, un’indagine che sia sottratta e abbia il coraggio di sottrarsi non solo a mistificazioni, bensì anche alla tentazione di sovrapposizioni e di parallelismi con epoche successive.
Una lettura attenta, infatti, permette di individuare alcune piste di ricerca, feconde e degne di interesse:

  • L’esemplarità della vicenda di Charms nonostante la sua eccentricità ovvero, al contrario, proprio in virtù di questa – si pensi alle pagine che Felicitas Hoppe dedica a Charms nelle pagine iniziali di Sieben Schätze. Augsburger Vorlesungen (“Sette tesori. Lezioni di Augusta”).
  • Il filo conduttore della geniale follia, della incomparabilità e della unicità della letteratura russa che è raccolto anche qui, da Giorgio Galli, e che ha una ragguardevole storia della ricezione in Italia – si pensi alle parole di Giorgio Manganelli che aprono il volume di Paolo Nori, dal titolo oltremodo significativo, Repertorio dei matti della letteratura russa. Un altro titolo che appartiene chiaramente a questa linea è sempre di Paolo Nori: I russi sono matti.
  • La produzione letteraria in lingua russa vicina a quella di Daniil Charms, sia per prossimità di scelte, come è avvenuto per Aleksandr Ivanovič Vvedenskij in particolare e per il gruppo “Oberju” (nomignolo con il quale è nota la “Accademia dell’Arte Reale”, fondata da Charms nel 1928) in senso più ampio, sia per legami di parentela: mi riferisco in questo caso alla figura del padre di Daniil, Ivan Pavolvič Juvačëv, la cui opera letteraria era molto apprezzata da Lev Tolstoj.
  • La comicità come slancio alla sovversione e allo svelamento, molto più vicina al tragico di quanto una percezione soporifera purtroppo diffusa – che nega e annega in un brodo indistinto entrambe le istanze. Tratto, questo, distintivo di Charms, che lo accomuna a due scrittori che, come lui, sfuggono a classificazioni riduttive: Jean Paul e, in particolare per il romanzo Fame, Knut Hamsun.

Che si vogliano esplorare o meno le piste di ricerca suggerite, anche soltanto tra le righe, da Giorgio Galli con Il matto di Leningrado, la lettura dell’opera trasmette il desiderio di leggere, e tornare a leggere, tutte le opere di Charms, a partire dalle sue poesie e dai suoi racconti per l’infanzia.

© Anna Maria Curci

Hai letto da qualche parte che a Daniil piacciono i libri sul buddhismo. Sai che campa scrivendo storie per bambini. Ma forse è più giusto dire campava, perché da un paio d’anni non gli fanno più pubblicare. Daniil scrive storie un po’ assurde, e in Unione Sovietica nel 1941 il governo preferisce che i bambini leggano storie edificanti sulla patria e sul socialismo. Uno come Daniil è un po’ sospetto. Quello che scrive fa ridere. Vorrà farsi gioco della patria e del socialismo? Secondo alcuni fa parte di una setta segreta. Secondo altri di un’organizzazione clandestina. Altri ribadiscono: è un matto.
Eppure è difficile sottrarsi alla sua suggestione. Daniil ha charme. Anche quelli che lo considerano un matto un fallito o una spia, subiscono quello charme, e se non gli rivolgono la parola è perché preferiscono ignorarlo piuttosto che guardarlo negli occhi. Dicono che sia un illusionista e che i bambini fanno tutto quello che lui dice.*

*Giorgio Galli, Il matto di Leningrado. Tre passeggiate con Daniil Charms, Gattomerlino 2021, p. 11

Monologo della Buona Madre

08 domenica Mar 2020

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Anna Maria Curci, Lea Barletti, Monologo della Buona Madre, recensioni, Teatro, Teatro Torlonia, Werner Waas

Lea Barletti nel “Monologo della Buona Madre”. Foto di L. Onza

C’è una pièce teatrale, che ho voluto vedere a tutti i costi, la sera del 28 febbraio scorso, a Roma, al Teatro Torlonia. Sentivo che non volevo assolutamente mancare a quella serata, nonostante i dinieghi di più di una persona da me contattata perché la condividesse con me, nonostante la stanchezza e la preoccupazione circa quello che di lì a pochi giorni avremmo vissuto anche a Roma. Questa pièce è il Monologo della Buona Madre, testo di Lea Barletti, che ne è interprete sulla scena, produzione e regia di Lea Barletti e Werner Waas, musiche originali e Sound Design di Luca Canciello. Ho conosciuto Lea Barletti e Werner Waas nella scuola in cui insegno, l’Istituto Statale “Vincenzo Arangio Ruiz” di Roma. Lea e Werner hanno seguito per due anni di seguito miei studenti di quinta liceo linguistico per un laboratorio teatrale (un’opportunità straordinaria che abbiamo ricevuto come scuola che fa parte della rete internazionale Partnerschulen der Zukunft) che è rimasto vivo nella memoria della nostra scuola per la bellezza degli spunti e per l’impulso vivissimo dato alla “theatralische Sendung” (vocazione teatrale) dei partecipanti al laboratorio. Ho poi letto con passione e recensito per Poetarum Silva il bellissimo Libro dei dispersi e dei ritornati di Lea Barletti.
Con batticuore e la mia solita testardaggine vado dunque a teatro, da sola, attraversando la città, acquisto il biglietto, ignara che sarà l’ultimo della serie innumerevoli dei biglietti teatrali antecedenti l’era COVID-19, incontro la collega Marianna – con la quale sto condividendo ricerca-azione e formazione – e insieme ci sediamo in seconda fila, decise a non perderci un solo dettaglio del monologo che reciterà Lea.
Le luci si accendono su lei, seduta in cima a un alto soppalco, il volto reso bianchissimo dal trucco, una mimica facciale che muterà, assecondando, anticipando, facendo persino da contraltare – “controcanto terza o quinta sotto” – a ciò che la voce trasporta ed esplicita. Prima il silenzio scandito dalle lancette di un orologio, poi l’inizio, quell’inizio che ogni madre, soprattutto una Rabenmutter come me, ha inciso nella carne, nella pelle, nei nervi, nelle rughe, negli scatti: il senso di colpa-inadeguatezza-affanno. Come lo chiamo? Kafka, per il “padre di famiglia”, lo chiamava “Sorge“: cura-cruccio-assillo. E per le madri, come lo chiamiamo? In tedesco lo chiamerei Unzulänglichkeitsgefühl, il sentimento dell’inadeguatezza, il basso continuo dell’esistenza della “Buona Madre”. [Non ci arrivo, non ci arriverò mai. Se studio, non so cucinare, se svolgo coscienziosamente la mia professione, non saprò cucire un bottone, se faccio volontariato, trascuro il mio focolare domestico, se scrivo, rubo tempo alla famiglia, il mio consorte, lui sì che sa cucinare e che sta a casa quando arrivano le telefonate di mia zia che lo rimprovera, perché mi permette di stare sempre in giro (ipsa dixit) e quando, quando, dimmi quando passerò l’aspirapolvere per casa?]. Continua a leggere →

Francesco Mancuso, Oriolo Romano. Un borgo da raccontare (rec. di Brunella Bassetti)

08 martedì Gen 2019

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Brunella Bassetti, Francesco Mancuso, Lazio, Oriolo Romano, prosa, recensioni

Oriolo Romano. Un borgo da raccontare

a cura di Francesco Mancuso

Presentazione di E. Rallo – Prefazione di S. Lechiancole – Nota introduttiva di S. Risse – Introduzione e Lettera a Emiliano di F. Mancuso

Fogli di vita n. 18, Davide Ghaleb Editore, Vetralla 2018, pp. 180, Euro 12,00

         Se dovessimo raccontare la storia di Oriolo Romano secondo le categorie dello “storytelling”, gli ingredienti non mancherebbero di certo. Si potrebbe iniziare così: “C’era una volta un re illuminato che volle fondare il suo regno ideale tra boschi incantati e magici terreni. Chiamò a raccolta capannari provenienti da altri luoghi e, nel corso degli anni, per scegliere la bella tra le belle dovette combattere contro il temibile drago di San Giorgio …”, per proseguire fino ai giorni nostri mescolando, così, realtà e fantasia.

         Il nostro “acchiappa parole” biografo di comunità Francesco Mancuso, invece, lo fa con lo stile che più gli appartiene e seguendo le linee-guida della “Libera Università d’Autobiografia” di Anghiari. Come per la “Narrative Based Medicine”, raccontare di sé, recuperare la memoria del proprio passato è diventata, nel corso degli anni, “terapia” ma – soprattutto – uno strumento conoscitivo fondamentale per ri-tracciare storie che si credevano già note ed esaustive.

         In quest’epoca di presenzialismo social e digitale, dove il confine tra realtà e finzione, tra vita reale e virtuale è sempre più labile, è da apprezzare ancora di più la disponibilità delle persone intervistate a raccontare squarci della loro vita, flashback della loro infanzia, restituire – nel descriversi – anche momenti intimi di dolore, di sofferenza, di povertà, di disagio. Il risultato finale è di notevole pregio: il testo si legge piacevolmente anche grazie agli artefici descrittivi ed emozionali del nostro maestro scribacchino; ma, soprattutto, le fitte pagine suscitano curiosità e domande cui, inevitabilmente, si dovrà dare seguito. Dodici sono state le testimonianze raccolte come in una scala musicale maggiore passando per i diversi diesis e bemolle: ciascuno con la sua tonalità, con il suo registro, con il suo timbro più o meno acuto restituendo, però, nell’insieme un’immagine armonica e corale.

         L’appartenenza a una comunità nella diversità.

         Al di là del discorso “locale” o “campanilistico” (che pure ha una sua valenza e importanza storica e storiografica) ciò che ci dovrebbe far riflettere – dopo aver assaporato e quasi sentito profumi, colori, suoni, voci, odori – sono le “tematiche”, le varie “esperienze”, individuali e comunitarie, che le parole dei protagonisti ci lasciano in eredità. Così come alcuni “refrain” che, in maniera più o meno inconscia e, quindi, doppiamente significativi per il tessuto sociale, civile e produttivo del paese, hanno fatto da sfondo in diverse interviste. Solo per citarne alcuni: la fonderia Giampieri, il periodo bellico e il dopoguerra o i luoghi simbolo di questo paese, soprattutto architettonici – in primis il “Palazzo Altieri” – o naturalistici come la Faggeta, la Mola e Villa Altieri.

         Azzardandoci a percorrere un discorso più generale e che esca fuori dai confini territoriali – spaziali e temporali – di Oriolo Romano potremmo dire che “l’Italia è una Repubblica fondata sui comuni”.  Proprio partendo dalle esperienze dei piccoli centri, credo, sia possibile e urgente – oggi – ridisegnare la storia passata di questo Paese mediante la ricerca sempre più scientifica e costante di una memoria storica locale condivisa. Nello stesso tempo cercare di tracciare (o almeno tentare) le nuove coordinate di quello che potrebbe essere un futuro più sostenibile per le nuove generazioni (grazie anche a iniziative culturali di vario genere che possano diventare “volano” per favorire sempre più la partecipazione dei cittadini, di tutti i cittadini, ai vari processi di trasformazione e di evoluzione delle varie comunità in cui si vive).

         Tentare di ritrovare quegli spazi di socialità e di umanità che non sostituivano la piazza, il bar o la fraschetta, ma erano di fatto “agorà” di condivisione e di compartecipazione. Esercitare e fare “memoria” è un atto morale dovuto e, nello stesso tempo, un atto politico nel senso più nobile di questo termine.

         “Di questo ne sono certo. Se apriamo una lite tra il presente e il passato, rischiamo di perdere il futuro” … così diceva Winston Churchill.

Brunella Bassetti

(Chi ha scritto queste brevi note è legata per discendenze familiari e affettive al borgo narrato in questo delizioso e prezioso volume. Spero di esser riuscita a mantenere il giusto distacco e obiettività e quella dose di onestà intellettuale cui non bisogna mai rinunciare).

Silvano Tessicini, Battito d’ali (recensione di Brunella Bassetti)

31 mercoledì Gen 2018

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Brunella Bassetti, La Caravella editrice, letture, recensioni, romanzi, Silvano Tessicini

Silvano Tessicini, Battito d’ali, La Caravella editrice, Roma, 2017, pp.106

“Il tuo progetto è scritto nel palmo delle mie mani” (cfr. Isaia, 46, 15-16)

Bisogna diffidare di quelle persone che sostengono che un “grande” dolore (di qualsiasi natura esso sia) si possa superare. Ci si può convivere, ma è cosa ben diversa. È al pari di una modificazione genetica. Crea “disabilità” e si diventa “diversamente abili” nell’affrontare la vita. Si perde il senso della vita perché è la vita a non avere più senso, o almeno così sembra.
Il protagonista di questo romanzo – Sergio – ci narra la sua personalissima esperienza, il suo travaglio interiore, la sua lotta quotidiana, le sue emozioni e sensazioni legate al superamento, all’accettazione della morte improvvisa, per un tragico incidente, della sua piccola figlia Andrea.
Un tema su cui si è scritto molto e si continuerà a scrivere, negli ultimi anni anche su basi scientifiche, grazie all’evolversi di metodiche specialistiche quali la “Narrative Based Medicine”.
L’Autore di questo breve ma intenso romanzo lo fa alla sua maniera attingendo dalla sua vita privata e professionale mezzi e strumenti di narrazione che gli appartengono. Arte cinematografica, pittura, poesia sono le quinte di questa vicenda umana, fanno da sfondo al lutto di Sergio ma, nello stesso tempo, accompagnano il lettore – o meglio fanno da eco – a quelle domande universali legate al senso della vita e, quindi, inevitabilmente anche al senso della morte. Anche i momenti più tragici e drammatici di questo percorso sono descritti con una delicatezza rara e con rispetto umano. È un tunnel che si deve attraversare, percorrere se si vuole ritornare a vedere la luce. Il dolore va accolto, va amato nelle sue mille sfaccettature, non bisogna farsi sconti anche quando l’estrema decisione appare, esclusivamente, come l’unica soluzione salvifica.
A una prima lettura si è catturati dalla storia di Sergio, dai suoi pensieri, dalla sua disperazione; rileggendolo, tuttavia, si può notare come alla fine sia – anche – un romanzo corale dove tutti i protagonisti (o co-protagonisti) stiano attraversando un loro particolare momento della vita.
Molto interessante, dal punto di vista narrativo e descrittivo, l’escamotage di citare alcuni quadri famosi per fissare, come in un piano sequenza, la sensazione del momento. Tre quadri per rappresentare altrettanti stati d’animo del protagonista: “La città che sale” del futurista Boccioni per l’estremo senso di solitudine e di vuoto; il “Cristo morto” del Mantegna che, forse, insieme al “Cristo velato” della Cappella Sansevero di Napoli, è la rappresentazione più bella e vera della deposizione. Una prospettiva diversa nel “vedere” il corpo esamine della figlioletta all’obitorio. Ma, come si sa, la tragicità del sudario è uguale a se stessa in ogni epoca e in ogni dove. Infine, “L’urlo” di Munch: la disperazione.
Scenograficamente parlando due sono i momenti che hanno catturato di più la mia attenzione e immaginazione. Il primo, nelle prime pagine ambientate a San Candido, quando viene descritta la messa in scena della sacra rappresentazione della Pasqua. Mi è tornato in mente il film “La Passione” di Mazzacurati. Sono pagine molto forti e anche molto intense: l’eterno dilemma di conciliazione tra la nostra e la volontà di Dio. Ma quale volontà di Dio? Giuda è stato funzionale al piano della Salvezza ma sarà stato “salvato” in un gesto estremo di misericordia dal Padre? “Perché Dio lo aveva risparmiato mentre Giuda aveva consumato nel suicidio la sua disperazione?” (cfr. pag. 32). Continua a leggere →

Martina Cecilia Salza, Verde muschio, recensione di Brunella Bassetti

30 sabato Set 2017

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Brunella Bassetti, Ghaleb Editore, letture, Martina Cecilia Salza, recensioni, romanzi

Martina Cecilia Salza, Verde muschio
Latitudini 22, Davide Ghaleb Editore, Vetralla 2017, pp. 248

Verde muschio non è un romanzo biografico o autobiografico nel senso classico che la critica attribuisce a tale termine. È un romanzo, una storia – direi più storie – che s’intrecciano e si dipanano attraverso il racconto e i “sogni” di una delle due protagoniste – Matilde – per approdare ad “altro”. L’idea di fondo prende sviluppo da vicende e avvenimenti familiari della scrittrice, che s’innestano e si fondono simbioticamente con la storia locale del territorio e la storia universale, in generale.
Volendo semplificare, ma soltanto per illustrare meglio ciò che questo romanzo è realmente, si potrebbe affermare che grazie alla sua struttura narrativa, al modo come la vicenda si sviluppa, può senz’altro essere definito un romanzo di “iniziazione” e/o “psicologico”. Per altri versi, invece, rispetta le regole classiche del romanzo “storico” e del romanzo “giallo”. Potrebbe essere considerato, anche, un romanzo “doppio” (una macrostoria nella microstoria e viceversa): nel senso che le due vicende, quella di Matilde e quella di Angela (ecco l’altra protagonista) potrebbero leggersi l’una indipendentemente dall’altra. Ma, sicuramente, è anche altro.
L’intera vicenda si svolge, prevalentemente, tra Parigi e l’Antichissima Città di Sutri (che, peraltro, insieme al suo aggettivo relativo, viene citata pochissime volte nelle quasi 250 pagine del testo), per “ritrovare” e dare un senso alle proprie radici. La potremmo definire anche una “letteratura migrante”, un ritorno – forzato e inconscio – nel ventre caldo e fecondo del proprio paese natio e dei suoi misteri.
In alcune guide turistiche, ormai datate (primi anni ’50), di Sutri troviamo scritto: “Quello che oggi resta della grande Città non è che la Cittadella ossia la fortezza. I cinque borghi che la componevano, spazzati via dal tempo ineffabile si sono persi ormai fra i canneti delle vallate” e “Poche rovine, disperse dovunque nel vasto territorio, testimoniano ancora l’antica grandezza che il muschio e l’edera nasconde e custodisce tra il verde”. Uno dei tanti meriti che riconosciamo alla scrittura evocativa di Martina Salza è senz’altro quello di averci riportato e fatto conoscere parte di “questi borghi” in un particolare momento storico – il Medioevo – che ancora tanto ha da insegnarci. La descrizione minuziosa e dettagliata della vita quotidiana, la caratterizzazione dei vari personaggi, la verosimiglianza (frutto di una ricerca storiografica durata vari anni) delle situazioni ci accompagnano verso la conoscenza ma anche verso la risoluzione del “mistero”. Continua a leggere →

Antonio Spagnuolo, Non ritorni

07 mercoledì Set 2016

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Alessandro Bertirotti, Anna Maria Curci, Antonio Spagnuolo, Plinio Perilli, Poesia, recensioni, Robin Edizioni

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Antonio Spagnuolo, Non ritorni. Prefazione di Plinio Perilli, Robin Edizioni 2016 

Vado seguendo i segni di ciò che ebbi a definire su Poetarum Silva “il lungo addio” di Antonio Spagnuolo all’amata moglie morta e mi rendo conto che sono visioni quelle che mi vengono incontro e che si appellano alla facoltà – mescolanza di capacità, predisposizione e accoglienza – di ricomporle in un disegno più ampio, che c’è, eccome, ma chiede accesso alla “mente che ama”, per dirla con le parole di Alessandro Bertirotti. Visioni, sì, ancor più che impressioni, perché, come a pellegrino, smarrito e senza fiato per quel rincorrere, inseguire (verbi che trionfano nelle poesie qui raccolte), che si ferma, con lo sguardo intento, pulsante, ancora speranzoso, sui costoloni di una volta, ecco che la luce di un raggio al crepuscolo invia bagliori e disegna cenni d’intesa a chi attende, a chi cerca avidamente. Si accendono allora visioni. Metterle insieme è compito del poeta viandante e musico, ostinato, a dispetto dell’ora che gli ha strappato le corde, nel ricostruire la melodia. Quel piede, sottile e mobile, della donna amata e perduta, diventa il piede di una metrica dolente (si cammina su ferite aperte) e composita. Versi lunghi e tumultuosi si alternano a brevi constatazioni lapidarie, quando la risposta al quesito e alla ricerca è l’impenetrabile silenzio («e il fantasma taceva»). Più di una volta, tuttavia, quel disegno misterioso, che la luce calante o l’insinuarsi dell’alba imprime come rapidissimo bagliore sulla volta, si distende, «fra i trucioli raccolti e la violenza», come endecasillabo portatore di una nuova melodia, nella perenne contesa tra il tendere e il disperare:
«e attendono oscillando le stagioni»
«Ho rubato l’abbaglio di una danza»
«l’ingenuo sopracciglio del tuo sguardo»
«Beffarda e dolorosa l’ossessione»
«Ho atteso il tuo profilo tra le pieghe».
Solo rincorrere, solo inseguire, allora, con il rischio costante del “precipitare”? Solo angoscia e pulsare all’impazzata? C’è tutto questo, ma c’è anche, tra quelle visioni catturate sulla volta e nell’imprimersi del terreno aguzzo e doloroso sulle piante dei piedi, la tregua di un sorriso e la promessa, rinnovata solennemente con l’anafora:
«rimane il tuo profumo tra le carte nascoste,/ rimane il rifugio del gioco tra i confini del cervello.»

© Anna Maria Curci

***

Pupille

Strappo con le mie dita ogni visione
per il grido che soffoca il colore
delle vertigini, nella mia preghiera,
ma il terrore ha distrutto la parola.
Nessuno più ascolta, le mie pupille accendono
un vortice sospetto, senza tempo né memorie,
disgregate fra le pieghe della psiche.
Tagliando a fette anche l’orizzonte
ha riflessi di sangue,
esasperato per la fuga del labbro,
così muto e serrato, alle incisioni dello specchio.
Il mio sospiro ha incertezze,
nel vuoto senso della mia notte
intessuta all’effimero, anche se il polso
non trema per l’incastro delle perle.
Ecco ancora il terrore ha il fondo del mio sguardo
affogando il disegno del crepuscolo
e allenta le minacce dell’eterno.

*

Pioggia

Sei tu che rincorri le piogge di autunno
per recitare bugie, a me che sono incerto
e non parlo più dei giorni incandescenti.
Metto a nudo il grigio del cielo per bruciare
tra i rami spogli, lettera dopo lettera,
sillaba dopo sillaba, balbettando a ritroso,
l’ingenuo sopracciglio del tuo sguardo .
Ancora fulgida, tra cristalli d’argento,
cerchi di moltiplicare le mie attese,
quasi sciocco invasato  incredulo della tua dipartita.

*

Riscatto

Ho atteso il tuo profilo tra le pieghe
nel taglio di speranze, confuso tra la folla,
fragile per quell’ultimo sorriso che lasciasti
guardandomi impaurita.
Ormai non conto più le notti
non aspetto le ore
perché manca il segreto che ci unisce,
il dono del riscatto e del racconto,
e custodisco le pagine tra le soglie di pietra.

Augusto Benemeglio, Acqua rotta

22 lunedì Ago 2016

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, anniversari, letture, Memoria, Poesia, Prosa, Recensioni

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Anna Maria Curci, Anxa, Augusto Benemeglio, Gallipoli, Genazzano, Marie Luise Kaschnitz, Maurizio Nocera, Poesia, prosa, recensioni

acquarotta

Talvolta

Talvolta dorme pure il poeta
Il vecchio guastatore delle feste
Fino all’ultimo scudo ha pagato se stesso
Sprofondato nell’erba della pioggia di stelle
Sogno che cresce rapido gli avvolge come tela di ragno
Gli occhi che scrutano
Sulla sua mano che scrive
Si accoppiano farfalle
I suoi volatili da assalto blaterano come passeri
Il leggiadro Sempre-già-qui.

Marie Luise Kaschnitz
(traduzione di Anna Maria Curci)

Ci sono libri che sanno attendere il momento in cui saranno raccolti, accolti, accarezzati. Restano quieti e pur sempre vigili con il loro carico di domande, carico vissuto e sofferto, alieno dall’indaffarata distrazione quotidiana e grondante familiarità. Sanno che quella familiarità, miele nero e amaro del rimorso, farebbe comodo scansarla per volgersi all’immediato sfavillante. Sono certi, tuttavia, che il pensiero tornerà a loro, sorelle e fratelli non meno prossimi per il fatto di non essere consanguinei. Uno di questi libri è Acqua rotta. Il colore del vuoto di Augusto Benemeglio, edizioni «Anxa» 2015, che si è scelto l’alba insonne di questo 22 agosto 2016, giorno del compleanno del suo autore, per essere percorso e per dispiegare la sua polifonica prossimità. Scaturisce dal dolore di un duplice lutto, dalla perdita, nel giro di pochi mesi, del nipote Alessandro e del padre di lui, Alberto, fratello di Augusto. Prosa e versi si danno il cambio in un canto (composto da 67 parti, come precisa Maurizio Nocera nella bella prefazione, 67 come gli anni vissuti dal fratello Alberto) che nasce dal rimpianto e sparge amore, inciampa su radici, scivola tra i tumuli della necropoli di Cerveteri, si china su un letto d’ospedale, sorregge il corpo fraterno fatalmente fiaccato e anela risa perdute tra vigne e porti, tra Genazzano e Gallipoli, naviga – e ha il coraggio di farlo – su rotte antiche, additando, talvolta inaspettatamente, nuove confluenze. Così, tra la Puglia e il Lazio del nostro comune passato, tra i contadini e i venditori ambulanti, non trionfanti ma operosi antenati che condividiamo, eccola emergere quella solida, durevole confluenza, situata nella campagna di Genazzano: la nonna materna Luigia Maria Pia, detta Elisa, e la poetessa tedesca Marie Luise Kaschnitz. Si sono incontrate le due donne, si sono conosciute? Serbo questa domanda come una delle più preziose del carico di Acqua rotta e proseguo la navigazione, con una saldezza nuova che la lunga conversazione con il nostromo mi infonde.

©Anna Maria Curci
22 agosto 2016

*

Genazzano

Genazzano nella sera invernale
Nello zoccolo vitreo degli asini
Sull’erta della città rupestre
Come la cantò Marie Luise Kaschnitz
La poetessa tedesca che forse conobbe
Mia nonna, la giovane Elisa
Che andava alla fontana.

«Qui lavai la mia camicia di sposa
Qui lavai la mia camicia di morta».
Povera nonna con la faccia bianca
E la lunga treccia di capelli nerissimi
Distesa nell’acqua fredda della sera
Che torna nel vento di foglie dei platani
E le mani come due blocchi di ghiaccio.

Che sventura innamorarsi di un Augusto
sognatore e scioperato guardacaccia,
Proprio nel giorno della risurrezione.
Mia nonna giovinetta bella coi capelli corvini
Con la pelle chiara che respirava la rugiada
Con la mano stesa al frutto del melograno
Con lo splendore di uno sguardo che accendeva
Tutti i fanali di una cupa Genazzano…

E fu quello stesso spirito d’amore che ci salvò
Perché quando ami davvero non è più tua la vita
È un quadro pieno di lacrime tagli squarci ferite
cocci, ciottoli, frantumi, è questa la poesia vera,
Da povero Cristo che sta sempre lì appeso al palo
Infame della tortura, e non ci sarà mai nessuno
che salirà fino a te, per dirti semplicemente “grazie”.

Augusto Benemeglio
da Acqua rotta. Il colore del vuoto, p. 48

Maurizio Manzo, Rizomi e altre gramigne

08 venerdì Lug 2016

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Poesia, Recensioni

≈ 7 commenti

Tag

Felix Guattari, Gilles Deleuze, Maurizio Manzo, Pasquale Vitagliano, Poesia, recensioni, Zona editore

Manzo_Rizomi

Maurizio Manzo, Rizomi e altre gramigne. Prefazione di Pasquale Vitagliano,  Editrice ZONA 2016

Da qualche tempo coltivo con Maurizio Manzo un dialogo a distanza su forme e contenuti della poesia. C’è chi brandisce lo sperimentalismo come arma, c’è chi invece, come Maurizio Manzo,  alla ricerca sulla metrica unisce un’attenta percezione dei tempi, insieme a una incessante, amorevole e non per questo priva di acume critico, lettura dei testi della ‘tradizione’, non solo in lingua italiana. Per tradizione intendo qui semplicemente ciò che ci è stato tramandato o, più precisamente, affidato alla cura di chi legge ed esplora i testi di coloro che hanno camminato prima di noi, come di coloro che camminano assieme a noi. Nella tradizione è compresa la metafora del rizoma, riportata in epigrafe, da Mille piani di Gilles Deleuze e Felix Guattari, a indicare una precisa linea di ricerca. Qui, come ben scrive Pasquale Vitagliano nella prefazione: «l’uso dell’endecasillabo doppio fornisce la struttura di quadri o inquadrature liriche».  Così è capitato che, dinanzi all’affermazione di Maurizio Manzo nel nostro carteggio, relativa al “vincere facile” con l’endecasillabo, replicassi, dopo aver letto in anteprima le poesie raccolte in Rizomi e altre gramigne, che vincere con l’endecasillabo non è certo scontato, anzi. In questa raccolta emergono con chiarezza senso e forma del rizoma, anche quando l’endecasillabo si incaglia, si intoppa. Sceglie di farlo, probabilmente, e allora ci si domanda se sia la realtà, come soffocante foresta di Rosaspina, a minacciare di strangolare, senz’altro a far inciampare il canto. Ci sono, d’altronde,  endecasillabi di una purezza commovente, e allora lì, puro e intangibile, oppure tenace e resistente, si libera il canto o meglio il controcanto al tempo, il riflettore sul tempo.  (Anna Maria Curci)

***

Cerchi

È sparito il tuo mondo dissociato, qualcuno te lo mostra rattrappito
dentro una palla di vetro innevata, c’è anche la tua cattedrale e la piazza
spiazzata quella sofferenza inflitta, tutto ruota intorno a sé un cerchio lento
che non si chiude resta aperto spento, le cose che non andavano fatte
hanno inciso cicatrici gemelle, e non basta scuotere le spalle il capo.

 

*

Chincaglieria

Ci sono ore sempre le stesse rase, dove un passo si dirige da solo
come le cose che segnano il viso, chincaglierie dell’anima disperse
invece alcuni restano sospesi, ma prima o poi pure il vuoto si sfonda
è il rumore rapido di un risucchio, quando hai individuato quel dolore
che distendi da parete a parete, dove fare l’equilibrista a notte.

 

*

Altitudine

L’altitudine ti prende per mano, resetta l’ equilibrio di continuo
eppure non muovo un passo uno spasmo, scaldo il lato separato dal mare
ascolto bisbigli e scanso birilli, inettitudine è squilibrio maggiore
e pesante indispone le figure, prima del momento non ci si pensa
ma le stanze diventano infinite, e poi perdersi è come essere scartato.

Francesca Del Moro, Gli obbedienti

18 sabato Giu 2016

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Poesia, Recensioni

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Tag

Anna Maria Curci, Cicorivolta edizioni, Francesca Del Moro, Gli obbedienti, Haiku, lavoro, Monicelli, Poesia, recensioni

gli_obbedienti_cover_fr

Francesca Del Moro, Gli obbedienti. Postfazione di Anna Maria Curci, Cicorivolta edizioni 2016

Una scelta di poesie e un estratto dalla postfazione

IV

transumando
rumore di porte del treno
che fischiano e chiudono
clang clang
scalpiccio di rapidi passi
che pestano pozze
ciaf ciaf
ecco i cappotti gli ombrelli
le borse le ore
tic tac
le ore le ore le ore
che inseguono svelte
le ore che spostano corpi
come lancette

*

XII

Aveva indubbiamente
dentro la testa china
un cervello ribelle.

*

XXI

Prima ancora della morte
l’aperitivo è ’a livella.
Bevete ora tutti insieme
e arditi vi gonfiate il petto,
scherzate pure con i capi
e li sfottete amabilmente.
Siete davvero tutti uguali,
sparate subito sui social
le belle foto conviviali.
L’ultima volta era ieri,
in un bel localino in centro.
Solo lo scorso lunedì
lei se n’è andata via piangendo,
l’invito è giunto martedì.

*

XXV

Ce l’hai fatta per fortuna
ad augurargli la buona notte,
gli hai rimboccato le coperte
e poi hai spento la luce.

“Per te sarà tutto diverso”
gli hai sussurrato prima di andare
come diceva sempre tuo padre.

*

XLI

Haiku-dilemma

Se invece l’arte
fosse l’oppio dell’occhio
che non sopporta?

*

XLVIII

Il saldatore appena assunto
e il muratore in pensione
discutevano in treno
di dignità sul lavoro,
di giustizia e rispetto.

Ed era tutto un proliferare
di prime persone,
plurale il vecchio
e singolare il giovane.

*

LIII

Oh gli indie-gnati
adepti di tuttology
loro lo sanno
cos’è il bello
loro hanno letto
questo e quello
e la cultura
non ce l’hanno
in cuore o in testa
ma al collo o al polso
come un gioiello.
Non hanno piazza
né rappresentanza
né un piccolo sogno,
gli basta darsi un po’
di gomito, lanciare
un’invettiva al giorno
e anticonformarsi
tutti in coro.

*
LXX

Dopo un film di Monicelli, tornando

Quella massa di cafoni
affamata, cenciosa e sporca
sembrava un’enorme famiglia
era capace di una lotta.

Erano quattordici le ore
che pesavano su di loro
mentre voi ne fate nove
anche se in busta sono otto.

Ti torna in mente quella volta
– oh molti anni or sono –
in cui l’impronunciabile parola
ti sfuggì di nascosto.

Quando hai parlato di sciopero
per qualche giorno stranamente
non hai avuto più nessuno
con cui prendere il caffè.

_________________________

Orchestrare le voci nell’era
del precario e dell’abnorme:
Gli obbedienti di Francesca Del Moro

Una colonna sonora attenta a cogliere e a trascrivere la condizione contemporanea, condizione che all’aggettivo ‘umana’ non può non applicare, gogna permanente, un prefisso: dis-umana, sub-umana, trans-umana, con buona dose di probabilità non oltre-umana. Una partitura che riporta, con precisione, tonalità, tempi e velocità di esecuzione, acuti, dissonanze, basso ostinato e pause; una partitura che non esita, inoltre, a manifestarsi in fogge inusuali. Poesia visiva, sonorità e architettura, contenuto scomodo e forma rigorosa che duettano, si completano.
Con questi enunciati proviamo ad avvicinarci a Gli obbedienti di Francesca Del Moro, opera che unisce compattezza e complessità. Si rischia l’osso del collo, nell’era del precario e dell’abnorme, a trattare una materia sfuggente, scivolosa, la sabbia mobile della grande illusione della libertà di espressione e la smisurata menzogna della flessibilità, e a tenere, al contempo, il punto della ‘norma’ metrica, a procedere sulle righe di un pentagramma, divenute oramai funi sottilissime, pressoché invisibili, sulle quali avanzare – ghigno del secolo della rete – senza rete. Francesca Del Moro è ben consapevole di questo rischio, che affronta ricorrendo a una grande varietà di forme e conservando, tuttavia, unitarietà al progetto che ha delineato e che persegue, consapevole dei mezzi espressivi, di tascapane, fardelli, zavorre, di riserve di fiato e, dunque, della temerarietà dell’opera-trasvolata, del libretto-salto in cui si è lanciata. Schiene curve, movimenti a scatti e trascinamenti manovrati, orbite inquietanti nella loro familiarità: ecco che l’espressionismo di Metropolis, il film di Fritz Lang, assume la sua voce ai tempi di “faccia-libro”.

[…]

Alla precisione ritmica va associato il rigore nella resa linguistica, che riproduce e, allo stesso tempo, irride l’uso, quando, come capita con desolante frequenza, esso è prova di colpevole sciatteria e di fraintendimento di fondo di funzione e natura della parola, non logos, ma vaniloquio, esibizione, sfoggio di forestierismi a braccetto con ottusità e ignoranza insormontabili perché non sussiste volontà condivisa di superare l’arretratezza profumata e fasciata di apparenza. La poesia XXII ne rappresenta un esempio di indubbia pregnanza, oltre che di divertente espressività: «Eccole le camicie bianche / giovani rampanti twitteggianti / bicoz ol de uorld lav Itali iu nou / ui ev de rinascimento en de pizza / bat ostriche a cena coi potenti».

[…]

Alla luce della sera di una giornata a ciclo continuo, iniziata nell’alba dal sapore metallico di una stazione per pendolari, proseguita a testa china nell’open space o con il viso fugacemente sottratto al grigio e rivolto al sole in una pausa quasi rubata, alla luce di questa sera, dunque, si delinea, chiaro e insopprimibile, l’intento della parola, gesto meditato, rivolta, testimonianza, strappo, critica, memoria.

Anna Maria Curci, gennaio 2016

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