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Archivi Mensili: settembre 2015

Fernando Della Posta, Gli aloni del vapore d’inverno

17 giovedì Set 2015

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Poesia, Recensioni

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Anna Maria Curci, Edizioni Divinafollia, Fernando Della Posta, Poesia, recensioni

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Fernando Della Posta, Gli aloni del vapore d’inverno, Edizioni Divinafollia 2015

Nota di lettura di Anna Maria Curci
 

Conosco da alcuni anni la scrittura in versi di Fernando Della Posta, che mi è capitato sovente di seguire nel suo formarsi e nel suo costante dialogare con i luoghi, con le cose e con coloro che condividono la sorte dell’esistenza terrena: gli umani,  estranei o affini, bizzarri nelle loro fugaci apparizioni o rievocati con affetto. Per questo motivo la sua raccolta più recente, Gli aloni del vapore d’inverno, ha suscitato in me che ne leggevo e rileggevo i testi due sentimenti solo apparentemente opposti, in realtà complementari, almeno se si pensa all’ampiezza del percorso in fieri di un poeta, al cammino intrapreso dalla persona che vive e riflette, che unisce e affianca vita e riflessione: il piacere della consuetudine con una scrittura che si riconosce come familiare e la gioia della scoperta di una varietà, non dispersiva, ma dominata, di accenti, timbri, immagini, connubi.
Ci troviamo dinanzi a una voce, che immaginiamo accompagnata da un’ideale chitarra, che sa comporre e intonare ballata e blues, a un tratto rapido e sicuro che coglie il particolare nel disegno, alla composizione più complessa che nasce da una visione sofferta, esperta e paziente, al dosaggio dei volumi nel soliloquio, nel brusio animato della sagra di paese, nell’orchestrazione dei rumori metropolitani,  nel colloquio con la persona cara nel ricordo, nella sosta e nella sospensione dell’ultimo avamposto del “deserto dei Tartari”.
Qui la luce – la giusta illuminazione sta a cuore a Fernando Della Posta, che anche come poeta continua a coltivare in maniera convincente la passione per la fotografia – si intesse dei colori più diversi di giorni e stagioni e tempi e li restituisce, fedele e sovversiva al tempo stesso. Anche il passaggio dal colore al bianco e nero o al seppia non nasconde la consapevolezza di perdite e tradimenti, nel suo tradurre trasporre e trasportare i segni.
Così con le parole: Fernando Dalla Posta assume la responsabilità di ogni cambio di significato, ogni singolo ricorso alla polisemia, ogni deragliamento; il suo mondo nuovo è fatto di sapienza dell’antico, ma, si badi bene, di un mondo antico che è rimasto ignoto ai più, per loro pigrizia e per l’insopprimibile tentazione del superficiale.
Il cammino prosegue: l’affermazione è valida per l’esistenza, è valida per la ricerca poetica di Fernando Della Posta. A me resta il convincimento che Gli aloni del vapore d’inverno costituiscano una tappa altamente significativa di questo cammino.

*

Anime barocche

L’anello di nubi e di foschia
che incornicia le pendici
delle montagne e i colli
e l’anello di neve
che si dispone a macchia sulle cime
– corona e velo da sposa
che tante donne non vedono
se non sul loro capo e delle figlie,
in questa terra –
celano un microcosmo
che vive a modo proprio
il migrare dei coralli in acqua
sotto poca luce benedetta
sotto pochi raggi che filtrano
la fitta maglia della spuma,
la fitta maglia delle nuvole.

L’edera che veste i pioppi
e i rami sono braccia
da spaventapasseri
in quest’inverno
ch’è l’anima barocca della morte
– fuori, negli spazi immensi –
ch’è l’anima barocca della vita
– nelle cucine e nei salotti nelle stalle
e nei viali sempre troppo corti,
sian di paese o di città.

23/01/2011

*

La chitarra

Vi racconto di quel berbero e suo figlio,
che costruì tra i primi una chitarra.
Comprò il legno adatto il palissandro, da non so
quale carovana.
Conservò il vello della pecora più anziana
e il crine del cavallo a cui voleva bene.
Il primo servì a levigare e carezzare il legno
fino a renderlo armonico e sottile.
Il crine, intrecciato e saldato elastico, lo stirò
fino alle manopole, sulla sommità del manico.
Il figlio, grande appena per la meraviglia,
l’osservava lavorare, e osservava come
le maniere di suo padre, dure e forti ben dosate
gli si riflettevano sul viso impassibile ed intento
senza smorfie e alcuno sforzo, né felicità.
E l’artigiano, a tempo perso dopo il tè,
levigava e levigava, intrecciava e accordava,
pizzicava, bussava sul legno e sulla cassa,
come il padre bacia, accosta l’orecchio e ascolta,
e con tutti gli altri sensi la pancia, gonfia
di sua moglie e aspetta.
La sera del debutto a cena, con gli ospiti
davanti alle vivande, dopo il canto degli adulti
e dopo il tè, il bimbo pizzicò a caso fino a tardi,
si addormentò sulla chitarra.
Il suo respiro ritmico e flessuoso, il suo battito
fermo piano e regolare, del sonno dolce e tipico
della sua età, dal torace bruno glabro ossuto,
colorandosi di note nuove, si propagò
per dune e oasi, fino a vallate sconosciute.
Scandì quella notte fredda e quelle successive
del deserto, di un tempo e di rintocchi
mai uditi prima.

21/05/2011

*

 

City frame Blues

La città che sgombra, s’ingombra s’inonda.
Mi chiedo le persone sul far della sera
che cosa si dicano in strada
tra il sole che canta l’abisso
e la luna che risponde a dispetto.
Un’ala di fuoco s’andrà celando nel vespro
come un cataclisma nascosto;
avrà pochi cantori invece del sonno
cui rinnovare ogni sera il suo pianto:
pazzi innamorati e bimbi di passo,
da sprazzi di cielo e finestre di specchio,
che s’aprono di smania tra bave di vento
dall’urlo dell’ultimo isolato violento.

Vorrei, sotto i portici inanellati di gelo
dal mio bicchiere di bourbon al banco del mondo
disegnarti gli sguardi a calmare la sera
come il baco nel bozzolo a filare la seta.

11/03/2014

Letture a due voci, 1: Patrizia Rinaldi, Rosso caldo

15 martedì Set 2015

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Letture a due voci, Narrativa, Recensioni, Romanzi

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Anna Maria Curci, edizioni e/o, letture, Patrizia Rinaldi, recensioni, romanzi, rubriche

copertina_rosso_caldo

Patrizia Rinaldi,  Rosso caldo, edizioni e/o, 2014

Leggendo Rosso caldo di Patrizia Rinaldi si respira Napoli. Una Napoli autentica, abbracciata dal suo mare e accarezzata dal suo vento carico di profumi quotidiani, quello del pane, quello dei fiori, quello della pioggia.
Si è raggiunti con naturale semplicità da un girotondo di personaggi di varia umanità, dipinti a tinte allegre e vivide come pure più fosche, a formare un quadro di realtà. Con loro si ride e si piange.
Il mistero della trama, avvincente e fluida, conduce tra le strade, tra i palazzi, dentro le case, illustrato da piccoli eppure indimenticabili cenni descrittivi di luoghi dall’atmosfera particolare, come il “pezzo di passato, sopravvissuto non si sa perché” che ospitava il basso della casa delle cugine Rosselli.
L’introspezione dei personaggi, più delineata nei capitoli monologo ad essi dedicati, prosegue per tutta l’opera con pensieri intimi e osservazioni che rendono familiari quei volti solo immaginati. I fatti del commissariato di Pozzuoli e degli altri che ruotano intorno alla vicenda coinvolgono per la veridicità e si seguono con ansia.
Una menzione particolare, certamente, va alla contraddittoria e difficile relazione tra Blanca, la sovrintendente, e l’ispettore Liguori. Si amano ma si fuggono. Si cercano ma si evitano in un’alternanza di paura, sentimento profondo, vigliaccheria e attrazione. Blanca, ipovedente, soffre perché lui le sussurra parole stupende e poi sparisce. Vorrebbe troncare ma lo sente fortemente in tutto il suo essere. Sente il suo amore scombinato e incoerente, ne ha bisogno ma non può permettersi il dolore che prova. «Mi levi forza, Liguori, mi fai molla di carne viva, senza pelle».
E poi c’è Ninì, figlia adottiva di Blanca. Sembra di vederla, chiusa nel ripostiglio della scuola, sola con la sua vita tormentata, lontana anni luce dai compagni e dai professori, pieni di atteggiamenti e idee che non la toccano. Anche Ninì ama Blanca in modo contraddittorio, di un sentimento spaccato a metà ma vero.
Come non affezionarsi a loro?
Servendosi di un linguaggio immediato e spontaneo, l’autrice dissemina le pagine del romanzo di brevi frasi di una saggezza universale e antica che, dalle labbra dei personaggi, vanno dritte all’anima del lettore per restarvi.
«Evitare il dolore equivale a evitare la vita».
«Ospedali, carceri e roba simile… mi sembrano meno finti di tutto il resto».
Questo libro possiede un requisito essenziale: dispiace quando si arriva all’ultima pagina.
Da leggere.

©Laura Vazzana

*

Con Blanca e la sua percezione ‘altra’, superiore e dolorosa, tornano il commissario Martusciello e la sua saggezza mal conciata dalla vita, l’ispettore Liguori,  che pratica l’arte dell’investigazione come i nobili avi coltivavano l’otium, ma che qui vacilla tra crisi latente e palese,  l’agente scelto Carità con le sue teorie irresistibili, tornano splendori e miserie di Napoli e Pozzuoli, veri personaggi di primo piano.  Misteri e delitti corrono affiancati e paralleli, le mura di palazzi storici gemono, uditi solo da chi è in grado di sentirli, con un talento nato, forse, proprio dall’esclusione.  L’amore, «lasciato lì con le zampe che si muovono ancora», reclama la sua parte sin dai versi di Raboni in epigrafe.

©Anna Maria Curci

Johannes Bobrowski, Il viandante

02 mercoledì Set 2015

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Poesia, Traduzioni

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Anna Maria Curci, Davide Racca, Johannes Bobrowski, Poesia, Roberto Fertonani, traduzioni

Bobrowski_Schattenland

 

Der Wanderer 

Abends,
der Strom ertönt,
der schwere Atem der Wälder,
Himmel, beflogen
von schreienden Vögeln, Küsten
der Finsternis, alt,
darüber die Feuer der Sterne.

Menschlich hab ich gelebt,
zu zählen vergessen die Tore,
die offenen. An die verschlossnen
hab ich gepocht.
Jedes Tor ist offen.
Der Rufer steht mit gebreitenen
Armen. So tritt an den Tisch.
Rede: die Wälder tönen,
den eratmenden Strom
durchfliegen die Fische, der Himmel
zittert von Feuern.

Il viandante

Di sera,
risuona il torrente,
il respiro pesante dei boschi,
cielo, solcato in volo
da uccelli urlanti, lidi
delle tenebre, antichi,
su questi il fuoco delle stelle.

Da essere umano ho vissuto,
le porte ho dimenticato di contare,
quelle aperte. A quelle sbarrate
ho bussato.
Ogni porta è aperta.
Chi chiama sta a braccia
distese. Quindi accostati alla tavola.
Parla: i boschi risuonano,
i pesci attraversano in volo
il torrente che respira, il cielo
trema di fuochi.

Johannes Bobrowski, dalla raccolta Schattenland, Ströme (1962)
(traduzione di Anna Maria Curci)

Paesaggio amato, quello della natia Prussia orientale e dimensione umana – quasi un bilancio scritto dall’autore allora quarantacinquenne – richiamano l’uno l’altra in questa poesia di Bobrowski, che sceglie un tema caro ai Romantici tedeschi e lo declina con le parole, le presenze, i versi e i ritmi che caratterizzano la sua produzione lirica. Oggi, 2 settembre 2015, a cinquant’anni dalla sua morte avvenuta a Berlino (allora Berlino Est, nel quartiere di Friedrichshagen), la mia traduzione è un piccolo omaggio a un poeta che merita di essere letto e tradotto. Le traduzioni in volume apparse in Italia sono di Roberto Fertonani (1969) e di Davide Racca (2013).

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