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Reiner Kunze, CROCE DEL SUD

16 martedì Ago 2022

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Anna Maria Curci, anniversari, croce del sud, ein tag auf dieser erde, Fischer Verlag, kreuz des südens, Poesia, Reiner Kunze, traduzioni

 

 

 

 

Oggi, 16 agosto 2022, Reiner Kunze, nato a Oelsnitz il 16 agosto 1933, compie 89 anni. Il mio omaggio alla sua poesia avviene anche quest’anno con una traduzione inedita. (Anna Maria Curci)

 

 

CROCE DEL SUD

Notti che ti lapidano

Le stelle precipitano giù
nella loro luce

Tu stai nella loro grandine

Nessuna ti colpisce

Eppure fa male,
come se tutte colpissero

 

Reiner Kunze
(traduzione di Anna Maria Curci)

 

KREUZ DES SÜDENS

Nächte, die dich steinigen
Die sterne stürzen herab
auf ihrem licht

Du stehst in ihrem hagel

Keiner trifft dich

Doch es schmerzt,
als träfen alle

 

Reiner Kunze
da: ein tag auf dieser erde, Fischer Verlag 1999: 56

Maria Gabriella Canfarelli, Memento

25 lunedì Apr 2022

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25 aprile, Anna Maria Curci, edizioni Cofine, Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana, Maria Gabriella Canfarelli, Memento, Poesia italiana contemporanea


Per questo 25 aprile 2022 propongo la lettura di alcune poesie che Maria Gabriella Canfarelli ha scritto in Memento. Dalle Lettere di condannati a morte della Resistenza Italiana (Edizioni Cofine 2021), insieme alla mia prefazione. «Ricordare, ricondurre al cuore vicende, destini, scelte e sorti di donne e uomini attraverso una poesia, “parola che fa accadere”, che riprende, condensa, illumina il dettato di quelle ultime missive, congedo e lascito, commiato e impegno»: questo è il dono, testimone e pegno, che Maria Gabriella Canfarelli ci offre anche oggi, Festa della Liberazione.

 

Ricordare, ricondurre alla mente e al cuore: Memento di Maria Gabriella Canfarelli

 

L’imperativo, formulato in latino, è l’invito posto come titolo della propria raccolta da Maria Gabriella Canfarelli: Memento. “Ricorda!”, dunque, è l’esortazione che si fa incontro a chi legge i componimenti in versi che sono nati e si sono sviluppati dalla frequentazione – meditazione, discesa in profondità, testimonianza – con le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana.
Ricordare, ricondurre al cuore vicende, destini, scelte e sorti di donne e uomini attraverso una poesia, “parola che fa accadere”, che riprende, condensa, illumina il dettato di quelle ultime missive, congedo e lascito, commiato e impegno: in un tale proposito scorgo l’intendimento di dare consistenza, forma compiuta e vibrante di spazi e di silenzi, al grande dimenticato dell’oggi, al senso del tragico.
Con l’espressione “senso del tragico” non alludo tanto (non soltanto, almeno) all’epilogo, all’interruzione violenta dell’esistenza terrena, che accomuna le biografie alle quali Maria Gabriella Canfarelli conferisce voce poetica, quanto piuttosto al conflitto permanente, a quella che Salvatore Natoli definisce come «contraddittorietà delle sorti umane strette tra caso (Týche) e necessità (Anánke)».
Nella visione tragica del mondo c’è uno spazio che l’umano può riempire, c’è la risposta a ciò che si manifesta come ineluttabile, e ha un nome e un’esistenza: responsabilità. Della presa in carico della responsabilità nell’esserci, per sé e per gli altri, con sé e con gli altri, riluce la poesia di Memento.
Il sottotitolo Dalle lettere di condannati a morte della Resistenza italiana palesa fin dall’inizio che la prima lettura e le successive riletture di un determinato volume, proprio quello indicato nel sottotitolo, sono indubbiamente state tappe importanti nella stesura dei testi di Memento.
Leggere insieme Lettere e Memento aiuta senz’altro a identificare le voci, a dare loro un nome; sono quelle, per menzionarne alcune, di Walter Magri, Giacomo Cappellini (Il Maestro), Paola Garelli (Mirka),  Antonio Fossati, Eraclio Cappannini, Pietro Benedetti, don Aldo Mei, Giulio Biglieri, Raffaele Giallorenzo, Paolo Braccini (Verdi), Maria Luisa Alessi, Irma Marchiani (Anty), Leone Ginzburg, Renato Molinari, Umberto Ricci (Napoleone).
È un ulteriore viaggio nella memoria, questa lettura comparata, che nulla toglie, tuttavia, all’intervento poetico di Canfarelli. Ne esalta, al contrario, la capacità di dare vita a versi la cui limpidezza, la precisione delle immagini, la partecipazione commossa che si fa ritmo, misura, cadenza, imprimono tracce profonde nelle percezioni e nelle rappresentazioni di chi a Memento si accosta e ne percorre le pagine vive di presenze e vicende.
D’altro canto, leggere Memento ancor prima di riprendere in mano il volume delle Lettere, attraversarne i testi ed addentrarsi nella loro architettura, nella loro partitura, è un procedimento che conduce alla scoperta della caratteristica principale di questa opera di Maria Gabriella Canfarelli: l’equilibrio tra l’intuizione profonda dello stato d’animo, di volta in volta ritratto e restituito, e la sapienza compositiva.
I trentacinque testi di Memento sono tutti condensati in un’unica strofa, la cui lunghezza varia, tuttavia, tra sei, otto, nove o undici versi. Anche la misura metrica è diversificata: settenari («Non più di un giorno al mese») si alternano a ottonari («qualcuno ordinava: Aprite!»); a novenari («in un’ora viola e imprecisa»), a decasillabi («clandestina al tramonto sui monti») e a endecasillabi («che le parole senza fiato incorda»; «fasciata nella nebbia novembrina») si affiancano versi formati dall’accostamento di un quinario e di un settenario («che non sapete, come stretto mi tiene») o di un settenario con un novenario («la pistola tedesca, il colpo sparato alla nuca»).
Quando l’attacco di una poesia è costituito da un decasillabo («Ho vissuto contando le ore»; «In piedi, sulla porta socchiusa») o da un doppio decasillabo («Pensavo di incontrarti a Torino/ ma un agguato mortale aspettava»), anche il ritmo induce all’associazione con il canto dei salmi nella Bibbia. Altri importanti richiami biblici si riferiscono, tra l’altro, al lamento nella cattività («annodato all’orecchio di un Dio/ che non mi sente») o al tradimento («chiacchiere alle orecchie di giuda»).
Le poesie di Memento iniziano tutte con un verso che viene trascritto in corsivo: colei o colui che ‘scrive’ richiama l’attenzione con una frase che introduce in maniera incisiva al breve monologo nel quale riferisce i fatti che hanno condotto alla sentenza, rievoca il passato comune, rivendica le proprie scelte – dolorose, laceranti per sé e per i propri cari, ma scelte: non è dato, come ricordava Gustavo Zagrebelski nell’introduzione alle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, lo stare alla finestra, l’opportunistico prendere tempo, il non schierarsi -, richiede conforto, comprensione, perdono per la sofferenza del distacco, ricordo come esercizio vivo della memoria.
La densità di tutti i versi e, in particolare, dei versi iniziali, ha fatto tesoro di una lunga consuetudine con costrutti e forme della prosa in latino: un esempio significativo è l’incipit «Da pochi istanti emessa la sentenza», che discende da un ablativo assoluto latino e rende con un perfetto endecasillabo la situazione dalla quale l’io poetico di quella determinata poesia (la prima di pag. 18) articola la propria testimonianza.
La forma verbale prevalente è, esattamente come nel titolo, quella dell’imperativo o, in alternativa, quella del futuro con valore di esortazione («l’epitaffio per me. Farete scrivere:/ Resistere è un dovere non da poco»), una “parola” (parola che si fa alleanza, patto e, ancora una volta “parola che fa accadere”) che diventi la prosecuzione di un impegno: «Comando a voi tutti prudenza, non vi fidate», insieme alle ultime volontà: «sigillatemi il cuore,/ gli occhi, la bocca, le braccia conserte/ nella terra di Sestola».
Un imperativo che è, insieme, consegna del testimone di una “parola che fa accadere”, è nei versi di pagina 15, che non ripropongono soltanto alcuni passaggi della lettera a Settimo Costantino di Giulio Biglieri, fucilato il 5 aprile 1944 da un plotone di militi della guardia nazionale repubblicana al poligono nazionale del Martinetto di Torino, ma compiono un passo ulteriore:

Conserva invece i miei versi
non per farli stampare, li darai a mio nipote
perché viva di me, con i libri, la parte
migliore.

Questi di Maria Gabriella Canfarelli in Memento sono versi che, insieme alla memoria, affidano a chi legge un lascito consistente e coinvolgente per l’oggi.

© Anna Maria Curci

Non avrò altri giorni
con te, non verrà il tempo per due.
Mi avresti reso felice, lo so.
Ti prego, Vittoria, resisti.  Dovrai essere
forte, e non morire di dolore
per me che lascio la luce intensa, pulita
di questo mattino e la respiro a fondo
ed è l’ultima volta (non potrò più
stringerti, mai più la bocca coprire di baci).

***

Mimma, un giorno ti diranno
saprai che la tua mamma non ha avuto
un processo giusto o ingiusto che fosse.
I tuoi piccoli anni orfani
come un dolore attorcigliato adesso
sfiancano le poche, necessarie parole
raccolte per te. Non ti vedrò
crescere, altri ti alleveranno:
perdona la brutale sparizione,
l’assenza non voluta.

***

L’ufficio, le scartoffie
i giorni mi stavano stretti
(mentre altri morivano). Staffetta partigiana
clandestina al tramonto sui monti,
portavo il pane e le armi. E una notte
di calma sospetta, mi hanno presa
al ritorno, arrestata sull’uscio di casa.
Comando a voi tutti prudenza, non vi fidate,
non parlate coi vostri vicini, non date inutili
chiacchiere alle orecchie di giuda.

***

Abbiamo pochi minuti
sarò il primo a passare la porta.
Madre, prega per me se credi
possa fare la fede del bene
al tuo dolore.
Amici, compagni di lotta
venite a prendermi: troverete
il mio corpo dove l’hanno lasciato
– di qua dal ponte, nei pressi
della scuola cantoniera.

***

Conserva fino all’ultimo
respiro dell’anima tua
il ricordo di me, custodisci
questo mio scritto sempre
per non dimenticare. E di portare
fiori alla fossa e di parlarmi, non
dimenticare. Tienimi accanto
come fossi vivo, tienimi sin d’ora
ch’è l’ora del tramonto
e tanto nevica, e batte i denti
l’ultima parola.

Maria Gabriella Canfarelli, Memento. Dalle Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana. Prefazione di Anna Maria Curci, Edizioni Cofine 2021

Rolf Bossert, Temporale

17 giovedì Feb 2022

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Anna Maria Curci, Gewitter, Herta Müller, Herztier, Poesia, Rolf Bossert, Schöffling & Co., Temporale, traduzioni

Nel romanzo Herztier (tradotto da Margherita Carbonaro con il titolo Cuoreanimale) Herta Müller, premio Nobel per la Letteratura nel 2009, presenta il personaggio di Georg, uno degli amici dell’io narrante femminile, anche lui appartenente al gruppo degli scrittori rumeni di lingua tedesca, provenienti dalla regione del Banato. Dietro il nome di Georg si celano versi (soprattutto quelli della poesia Neuntöter – Lanius collurio, ovvero “averla piccola”) e vicende di Rolf Bossert, morto il 17 febbraio 1986 a Francoforte sul Meno, pochi mesi dopo aver ottenuto l’espatrio dalla Romania in Germania. Il corpo steso sul selciato, la finestra aperta. Le circostanze della sua morte non sono state mai chiarite. La poesia Gewitter, “Temporale”, appartiene al gruppo di poesie scritte da Bossert dopo aver fatto richiesta di espatrio, richiesta avanzata nel luglio 1984 e che gli costò una brutale aggressione con frattura della mascella, un interrogatorio della “Securitate”, i servizi segreti agli ordini di Ceauşescu e il divieto di pubblicazione delle sue opere, considerate l’espressione di un “nemico dello Stato”.
Oggi, 17 febbraio 2022, a trentasei anni dalla morte di Rolf Bossert, il mio omaggio alla sua voce e alla sua poesia avviene con questa traduzione inedita di “Gewitter”. (Anna Maria Curci)

 

Temporale

Da lì batte
giù a picco
l’ascia azzurra,
nel timpano
abbaia anche a me
teglia galattica.

Aggrappati, bambino,
alla caramella incollata:
io scrivo io piango
con te. Avanti, lontano.

Rolf Bossert
(traduzione di Anna Maria Curci)

 

Gewitter

Von dort schlägt
steil runter
die blaue Axt,
im Trommelfell
bellt auch mir
galaktisches Backblech.

Klammer dich, Kind,
ans verklebte Bonbon:
Ich schreibe ich weine
mit. Weiter, weit.

Rolf Bossert
(ora in: Rolf Bossert, Ich stehe auf den Treppen des Winds. Gesammelte Gedichte. A cura di Gerhart Csejka, Schöffling & Co. 2006, p. 230 – sezione »Wo sind wir, was wir sind« 1984-1955)

Omaggio a Danilo Kiš (di Anna Maria Curci, Cristina Polli, Patrizia Sardisco)

22 lunedì Feb 2021

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Anna Maria Curci, anniversari, Cristina Polli, Danilo Kiš, Il liuto e le cicatrici, letteratura, Omaggio, Patrizia Sardisco

Danilo Kiš, foto di Maristela Veličković, da qui

Oggi, 22 febbraio 2021, Danilo Kiš avrebbe compiuto 86 anni. Il nostro omaggio a un autore che abbiamo conosciuto grazie alla proposta di Giorgio Galli del libro Il liuto e le cicatrici per l’iniziativa “Aperitivo con libro” si manifesta qui con i nostri appunti di lettura.

Danilo Kiš, Il liuto e le cicatrici. Traduzione di  Dunja Badnjević, Adelphi Edizioni 2014

In Balcanica. Viaggio nel sud-est europeo attraverso la letteratura contemporanea[1], Diego Zandel presenta sulla stessa pagina Alexandar Tišma e Danilo Kiš, entrambi nati nella Vojvodina, regione sul confine tra Serbia e Ungheria. Kiš nasce a Subotica nel 1935, da padre ebreo ungherese e madre montenegrina. In un’intervista a Fridrik Ranfsson sottolinea il duplice volto delle proprie origini. Stare al confine, vivere in più lingue, sarà una costante della sua vita, come quella di tanti altri scrittori che legge, traduce e che appariranno nelle sue opere. Dopo un’infanzia e un’adolescenza tra Ungheria e Montenegro, verso i vent’anni giunge a Belgrado, dove compie i suoi studi letterari, laureandosi nel 1958. A partire dagli anni ’60 è lettore di lingua serbo-croata a Strasburgo, poi a Bordeaux e infine a Lille. Dal 1979 fino alla sua morte nel 1989 vive a Parigi.
Il trauma della scomparsa del padre – deportato ad Auschwitz e letteralmente scomparso – è presente già nel primo romanzo, che Kiš scrive nel 1960, a venticinque anni. Si tratta di Salmo 44, che la casa editrice Adelphi, che detiene i diritti per le sue opere, ancora non pubblica. La protagonista del romanzo, Marija, può essere considerata un alter ego dell’autore. Del romanzo sono stati tradotti e pubblicati estratti, insieme a Novi Sad, I giorni freddi di Alexandar Tišma, dalla casa editrice di Lugano ADV.
Di cultura raffinatissima, è inviso ai detentori del potere e ai neonazionalisti, come lo scrittore Limonov, fondatore del partito nazionalista bolscevico, che si riferisce a lui usando l’espressione “lo sporco Kiš”.
Tradotto da Dunja Badnjević, anch’ella scrittrice (esordisce con il romanzo L’isola nuda, Bollati Boringhieri 2008) e traduttrice, fra l’altro, del romanzo Il ponte sulla Drina di Ivo Andrić, Il liuto e le cicatrici di Danilo Kiš raccoglie sei narrazioni (una delle quali dà il titolo alla raccolta, titolo scelto dalla curatrice Mirjana Miočinović, ex moglie dell’autore), seguite dal breve scritto A e B. I racconti, ritrovati tra i manoscritti di Kiš, sono stati scritti tra il 1980 e il 1986. Alcuni di essi avrebbero dovuto far parte dell’opera Enciclopedia dei morti e a essi sono collegati, ché di morti improvvise e annunciate, subitanee e preparate si scrive, di morti per risalire alla vita, a singole vicende narrate e dipanate all’indietro a partire dalla morte, oppure tendenti a quell’evento conclusivo. Emergono eventi passati e luoghi cancellati alla vista e alla memoria, emergono exempla di una bellezza strappata all’oblio: Ödön von Horváth e Endre Ady in Il senza patria, Piotr Rawicz in Jurij Golec, il protagonista del racconto Il poeta, il protagonista e il narratore in Il maratoneta e il giudice di gara, Ivo Andrić in Il debito: vite spezzate da regimi totalitari, prigionie insensate, dal controllo asfissiante. La letteratura interviene con una verità strappata al silenzio e alle lacerazioni, così come ai silenzi della storia: questo afferma – quasi una dichiarazione di poetica dell’autore –  il signor Nikola in Il liuto e le cicatrici:

Lo scrittore [..] deve osservare la vita nella sua totalità. Deve far intravedere il grande tema della morte perché l’uomo sia meno superbo, meno egoista, meno malevolo e, d’altra parte, deve dare un senso alla vita. L’arte è l’equilibrio di queste due visioni contraddittorie. Il dovere dell’uomo, soprattutto dello scrittore – lei dirà che parlo da persona anziana – è di andarsene da questo mondo lasciando dietro di sé non l’opera, tutto è opera, ma un po’ di bontà, un po’ di conoscenza. Ogni parola scritta è come l’atto della creazione. (p. 78)

Il senza patria può essere letto come tappa rilevante di un percorso pluriennale e a molte voci sulla lingua come Heimat, come terra natia. Al centro del racconto gli ultimi giorni di Ödön von Horváth, anche lui scrittore danubiano, anche lui decisamente critico non solo con sé stesso come poeta (entrambi cercarono di cancellare tracce della giovanile attività poetica; di Kiš in italiano possiamo leggere  in poesia solo quello che troviamo nel volume, a cura di Stevka Smitran, Antologia della poesia dell’ex Jugoslavia, ed. Noubs, Chieti, 1996), bensì anche nei confronti di un regime che manovra le leve del nazionalismo, dando fiato alle tromba dell’ideologia della “comunità popolare”. C’è, in un sapiente sistema di rimandi, anche il comune interesse – una passione giovanile alla quale si tiene fede, proprio perché controcorrente, proprio perché bersaglio degli ultranazionalisti di turno – per il poeta Endre Ady, di cui Kiš tradusse dall’ungherese al serbo-croato le poesie[2]. Colpisce la conoscenza dei dettagli della vita e delle frequentazioni di Horváth (che nel racconto prende il nome di Egon von Németh) colpisce, ancora di più, la struttura architettonica del racconto, composto da ventisei paragrafi, prevalentemente brevi e tutti straordinariamente densi.
Il debito, che racconta gli ultimi momenti di Ivo Andrić, autore di poesie e romanzi, tra i quali il celebre Il ponte sulla Drina, premio Nobel per la letteratura nel 1961,  è costruito come un inventario. Viene allora da pensare a quanto possa avere influito sull’immaginazione dell’autore la professione del padre di Kiš, ispettore delle ferrovie, addetto alla compilazioni di elenchi di orari e passaggi. I parallelismi qui sono in numero inferiore rispetto alle sorprendenti coincidenze che provengono dalla vita e dagli scritti di Horváth, ma senz’altro molti punti di contatto si ‘annidano’ nella scelta dei “creditori” nei confronti dei quali Andrić narrato da Kiš si sente in debito e le motivazioni che adduce per esprimere, di volta in volta, il debito di riconoscenza. Anche Andrić, come Kiš, conosceva molte lingue, viveva in molte lingue e anch’egli rappresenta, come Kiš e Horváth, un momento rilevante della letteratura mitteleuropea.

Anna Maria Curci

[1] Edizione Novecento Libri, 2018
[2]Nell’intervista menzionata, Kiš racconta di sé: «Ho cominciato a tradurre quando, dopo la guerra, sono tornato in Montenegro con mia madre e mia sorella. Ci arrivammo dopo che mio padre era morto ad Auschwitz. Mi sono ritrovato improvvisamente catapultato nel serbo-croato, lingua che, dopo aver vissuto in Ungheria, non conoscevo bene. Frequentavo una scuola dove si insegnava in serbo-croato, e fu allora che cominciai a pormi alcune domande sulle lingue. Traducevo molto dall’ungherese al serbo-croato, perché mi piaceva. Più tardi, dopo aver appreso il francese e il russo, ho continuato a tradurre per puro divertimento. Nutrivo il sogno di diventare poeta e leggevo tutto quel che potevo trovare sull’arte poetica. Per fortuna tutto questo non durò molto. Scoprii infatti l’opera del poeta ungherese Endre Ady. Mi impegnai a tradurlo e così fui in grado di soddisfare il mio bisogno di scrivere poesia. Ho detto “per fortuna”, perché credo che quando ho qualcosa d’importante da dire la esprimo meglio in prosa che in versi».

Omaggio a Danilo Kiš, “Il maratoneta e il giudice di gara”,  in Il liuto e le cicatrici, Adelphi 2014

Danilo Kiš scrisse “Il maratoneta e il giudice di gara” nell’estate del 1982 a Belgrado. Miriana Miočinović nel “Commento ai testi” ci dice che era previsto per L’enciclopedia dei morti, infatti per due volte era stato inserito nel sommario.
L’aneddoto al centro del racconto proviene da una pluralità di voci e la lettura ci colloca davanti alla loro polifonia, elemento caratteristico dell’arte compositiva di Kiš, e, nello stesso tempo, alla loro stratificazione.  La scrittura di Kiš è una lente sul caleidoscopio della memoria della quale ci restituisce una visione plurale e composita indicando percorsi possibili nella cronologia del ricordo. L’orchestrazione polifonica del racconto e la riscrittura aprono prospettive nella Storia attraverso la cura della memoria di un evento particolare che riguarda la singola persona, la profondità che il momento viene ad assumere è resa tangibile  già nell’incipit dall’attenzione che il primo narratore , il pittore Leonid Šejka, pone alla ricerca delle parole con cui coniuga fatti, emozioni e ricerca artistica.

Nonostante una certa incongruenza cronologica, sono tuttavia convinto di aver sentito raccontare questa storia per la prima volta dal defunto Leonid Šejka, un pittore che si autodefiniva << il classificatore>>. Non so se avesse letto il testo manoscritto di Terc o se invece ne avesse sentito parlare da qualcuno. Credo, comunque, di averne avuto notizia per la prima volta da lui. (Seguiva con lo sguardo i corridori ansimanti che si sorpassavano continuamente, sottoposti a un terribile sforzo fisico e mentale, in un paesaggio immaginario a cui egli dava forma e colore. Tenendo strette tre dita della mano destra, cercava la parola e l’espressione, come a voler saggiare con i polpastrelli, la delicatezza del pigmento o la densità dell’impasto, mentre nella sinistra, immobile, stranamente immobile, come rattrappita, si stava consumando una sigaretta, e intanto la colonnina di cenere rimaneva dritta fino alla fine, intatta). (p. 89)

Leonid Šeika è stato un pittore dell’avanguardia jugoslava. In un articolo[1] molto scorrevole in cui non sfugge l’ammirazione dell’autore, Božidar Stanišić, è agile rintracciare le affinità artistiche e i legami affettivi tra il pittore e Kiš. Stanišić riporta una  osservazione biografo di Šejka, Dejan Đorić, illuminante per la comprensione delle analogie tra i due artisti:

“… Il suo sapere enciclopedico ha determinato lo sviluppo della sua dialettica del fantastico, gli ha permesso di spaziare con facilità tra diverse materie spirituali, lungo l’asse verticale e quello orizzontale della storia, elaborando così idee radicali…”.

Šejka era tra i fondatori del gruppo di avanguardia “Mediala”. Riporto ancora le parole di Stanišic che ci danno l’accesso al significato di questo nome:

All’epoca pochi critici compresero il significato profetico dell’arte del gruppo Mediala, il cui nome deriva dall’unione di due parole: “med” [termine serbo-croato per indicare miele, inteso come toccasana, ma anche come simbolo dell’unione delle diversità] e “ala” [termine che significa drago, divoratore metaforico di arte].

Arte, quindi, come balsamo, cura e ricerca in un dialogo che segnò l’espressione artistica nell’amicizia, nella stima e nella ricerca. Il passo seguente è una chiara testimonianza di reciprocità:

Šejka esercitò un’influenza determinante su Kiš e sul suo concetto di deposito con il suo credo “transit clasificando”, passo catalogando quindi esisto. In occasione della morte dell’amico, Kiš scrisse uno dei suoi saggi più brevi e più belli. Cito l’ultima frase: “Allievo di Berdjaev e degli esistenzialisti, ha attraversato la vita da saggio, da vecchio saggio: riappacificato con la morte e riconciliato con la vita, portando nella sua breve e ricca vita come unico bagaglio la sua ricchezza spirituale, la sua coscienza artistica e la sua infinita bontà da saggio”.

In Allestimento museale, opera del 1956, Šejka ci mette davanti agli occhi un insieme di oggetti che noi vediamo in prospettiva frontale. Vorrei tentare una lettura di questa rappresentazione: si può arrivare a ciò che sta dietro, cioè  simbolicamente scavare nello spazio e nel tempo, soltanto prendendo gli oggetti e spostandoli, ma nel momento in cui questo avverrà gli oggetti ci parleranno, e tutto acquisirà mano a mano nuove dimensioni e indicherà nuovi richiami. Allo stesso modo nel racconto Il maratoneta e il giudice di gara Kiš sovrappone e orchestra le voci offrendoci pagine di intensa immedesimazione nei pensieri, nelle emozioni e nelle speranze del corridore mentre vede il paesaggio mutare lungo il percorso. Il sogno ripercorre la memoria del tragitto, ma poi interviene la decisione inspiegabile del giudice che fa entrare Valdamar D. nell’incubo di un giro di campo senza uscite.
Tornando all’inizio del racconto, ricorderemo senz’altro che Kiš dice che forse Šejka aveva appreso l’aneddoto da Terc, ma come era arrivato nelle pagine di Abram Terc?

Ebbe ancora il tempo di raccontare il sogno all’uomo che era steso accanto a lui in uno dei lager siberiani. Questi, dopo l’improvvisa morte di Valdemar, lo raccontò a un altro prigioniero, oggi anche lui morto da anni. Così il sogno di Valdemar arrivò fino ad Abram Terc, che nelle lettere alla moglie scriveva di ogni cosa. (p. 97)

Tutto è davanti a noi, il racconto dà voce a un deposito di narrazioni che Kiš ha allestito con la sua tecnica mirabile perché ogni cosa ci parlasse e ogni cosa generasse nuova arte, significato e riconciliazione nel balsamo delle sue parole.

Cristina Polli

[1] https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Leonid-Sejka-anima-dell-avanguardia-jugoslava-207556

Su Il liuto e le cicatrici e Jurji Golec
di Patrizia Sardisco

Grazie all’amorevole precisione filologica della curatela di Mirjana Miočinović, sappiamo con certezza che i due racconti Jurji Golec e Il liuto e le cicatrici erano destinati a far parte de L’Enciclopedia dei morti: lo testimonia il ritrovamento dei sommari delle diverse stesure che Kiš ne aveva fatto, e nei quali i due testi figurano fino all’ultima, salvo poi esserne depennati a mano nell’imminenza della pubblicazione.
Ulteriormente, sempre grazie al Commento ai testi della curatrice, possiamo avere conferma della sostanziale continuità tematica e stilistica dei due racconti, accomunati da riflessioni che appaiono cardinali rispetto all’intera opera dello scrittore serbo: la morte, e qui in particolare nel suo rapporto con l’amore; il ruolo della letteratura rispetto al lavoro dell’oblio sulle biografie annullate dalla Storia, della potenza della scrittura come unica vera forma di sopravvivenza.
Scritto nel 1982, Jurji Golec narra gli ultimi giorni di vita di Piotr Rawicz, scrittore e amico, autore della prefazione alla prima edizione francese del romanzo Clessidra di Danilo Kiš, (Sablier, Gallimard, 1982), suicidatosi poco dopo la morte della moglie. In questo breve racconto dichiaratamente autobiografico, dove poco viene ceduto all’ideazione fantastica, e che al contrario si limita soltanto a camuffare alcuni dei nomi propri autentici dietro iniziali o nomi d’invenzione, la vicenda è collocata in una Parigi d’inizio anni ’80, in pieno fermento intellettuale e artistico, tra ambienti accademici in cui è possibile imbattersi in scrittori del calibro di Marguerite Yourcenar, ricevimenti frequentati da pittori e scrittori famosi e famosissimi insieme ai propri editori, e cene alle cui tavole non mancano critici d’arte e stilisti di levatura internazionale. Quasi in posizione laterale, l’io narrante, spiazzato dalla richiesta dell’amico di aiutarlo a procurarsi un’arma per porre fine ai propri giorni, si muove, lungo la manciata di giorni che costituisce il tempo della narrazione, tra la disperazione dell’amico e la scoperta di quanto non sia facile “dare una risposta a un uomo che ti chiede: perché devo vivere?”, nemmeno (o forse soprattutto) se quell’uomo è un sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz.  L’indissolubilità dell’amore viene sancita dal gesto di Jurji, dal suo darsi la morte nella certezza che Dio perdonerà. E la consapevolezza della potenza della scrittura, come un’epifania verrà incontro all’io narrante- Kiš ai funerali dell’amico, quando la vista di un topo morto gli ricorderà una similitudine particolarmente pregnante nel romanzo dell’amico, il ratto “che dal romanzo era arrivato direttamente al cimitero di Montparnasse (…) quel ratto morto uscito vivo dal romanzo”.
Ne Il liuto e le cicatrici, scritto nel 1982, il tema della memoria è sviluppato attraverso un doppio livello temporale e narrativo: il ritorno a Belgrado del protagonista e io narrante, nella seconda metà degli anni ’60, dopo più di due anni di assenza; e una passeggiata notturna in centro città, che conducendo fino al vicolo in cui, ora in rovina, si trova la casa dove aveva vissuto per qualche tempo nel periodo degli studi universitari, apriranno la porta ai ricordi e, sul piano della narrazione, al lungo flashback che dipana e conclude il racconto.
Ospite di un’anziana coppia di profughi russi, il giovane Kiš, allora studente di letteratura, condivide la stessa camera del signor Nikola, prodigo di ascolto e tenerezza paterna tanto quanto la moglie, Marija, lo è di secche chiose e aspri rimproveri rivolti al giovane, accusato di essere “solo un bohémien”. Le cicatrici sul volto e sulle mani di Marija ci appaiono ben presto cicatrici sul cuore, il suo e quello di un intero popolo costretto a vivere da esule, piegato dai lutti, in una condizione mai più riconciliabile con l’esistenza. Il liuto è invece lo strumento che Nikola, ormai completamente sordo, continua a suonare per sé e per il suo giovane ospite, con un sorriso incrollabile quanto la propria speranza nell’uomo e in ciò che oltrepassa la misura breve della sua esistenza, non l’opera in sé, ma quel poco di bontà e di conoscenza che egli avrà saputo lasciare dietro di sé.
Con mirabile eleganza, con una efficacia che mutua da una chiara visione poetica ed esistenziale l’essenzialità pregnante del dettato, Kiš restituisce in queste pagine, a torto ancora troppo sconosciute nel nostro paese, il dolore e l’incanto, la disperazione e la dignità di destini, di vite che nessuno vede né conoscerà mai, di vite che non hanno importanza: vite senza le quali, tuttavia, nessuna Storia potrebbe dispiegare ali né affondare artigli. Vite nelle cui pieghe la bellezza resiste, dentro un manto che splende di riconoscenza.

 

Rosa Luxemburg, nel tempo, oggi

15 martedì Gen 2019

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Anna Maria Curci, Karl Liebknecht, letture, Maxie Wander, memoria, Rosa Luxemburg, storia, traduzioni

«La libertà solo per i sostenitori del governo, solo per i membri di un partito – per quanto numerosi possano essere – non è libertà. La libertà è sempre libertà di chi pensa diversamente». (Rosa Luxemburg:”Freiheit nur für die Anhänger der Regierung, nur für die Mitglieder einer Partei – mögen sie noch so zahlreich sein – ist keine Freiheit. Freiheit ist immer Freiheit des Andersdenkenden.”)

Questo è vero, e lo è con un discreto grado di esattezza, per ciò che riguarda le debolezze della società. Di ogni società. Questa storia dell’io e del suo giocare a fare effetto – perché non è cresciuto! Questa brama cieca di fare colpo sempre e dappertutto, di pretendere lodi e di parlare sempre degli stessi successi. Solo se ci confrontiamo quotidianamente con le contraddizioni della vita le nostre forze possono crescere, la società può rimanere viva. Ed ecco qui la frase che ho trovato in Rosa Luxemburg, che porto con me e che mando a tutti i nostri amici: «Solo una vita non repressa e spumeggiante perviene a mille forme nuove, a improvvisazioni, ottiene forza creatrice, corregge da sola tutti i propri sbagli. Per questo la vita pubblica degli stati a libertà limitata è così misera, così disagiata, così schematica, così arida, perché escludendo la democrazia si preclude le fonti viventi di ogni ricchezza, di ogni progresso spirituale!»
(da: Maxie Wander, Ein Leben ist nicht genug. Tagebuchaufzeichnungen und Briefe – “Una vita non è abbastanza. Diari e lettere” – a cura e con una premessa di Fred Wander, Frankfurt 1990; la traduzione del brano è di Anna Maria Curci)

100 anni fa, il 15 gennaio 1919, Rosa Luxemburg fu rapita e, insieme a Karl Liebknecht, uccisa da ufficiali della Garde-Kavallerie-Schützen-Division. Dal carcere di Berlino nella Barnimstraße aveva scritto a Sonja Liebknecht il 5 agosto 1916: «Bleiben Sie tapfer und lassen Sie sich nicht niederdrücken», «Rimanga coraggiosa e non si faccia buttar giù». Raccolgo oggi, per tutti i giorni, l’invito di Rosa Luxemburg.

Herta Müller, Essere o non essere Ion

17 venerdì Ago 2018

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Anna Maria Curci, anniversari, Bruno Mazzoni, Herta Müller, Poesia, Poesia in due lingue, premio Nobel per la letteratura, traduzioni, Transeuropa Edizioni

Herta Müller è nata il 17 agosto 1953. Oggi, nel giorno del suo 65° compleanno, propongo la lettura del primo libro di poesie in rumeno della scrittrice alla quale fu conferito nel 2009 il premio Nobel per la letteratura. L’edizione italiana di Este sau nu este Ion (questo iil titolo originale di Essere o non essere Ion), uscita nel 2012 per Transeuropa con la traduzione di Bruno Mazzoni, presenta il testo originale a fronte. La particolarità consiste nella composizione dei testi: le parole o i gruppi di parole sono altrettanti ritagli di giornale composti in forse bizzarri, senz’altro non insipienti collage. Casualità e gusto della provocazione, gioco e progetto si alternano, nella lingua «amata e odiata, la lingua della dittatura di Ceaușescu», con la forza della parola e, insieme, la diffidenza nella composizione e nell’uso delle parole, come scriveva Herta Müller in La lingua ladra. (Anna Maria Curci)

Gaia Spera, Distanze (recensione di Brunella Bassetti)

03 martedì Ott 2017

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3 ottobre 2013, A.P.N. editrice, AfricanPeopleNews, Brunella Bassetti, Gaia Spera, immigrazione

Gaia Spera, Distanze,  A.P.N. (AfricanPeopleNews), Roma, 2017, pp. 48

Sentire come una perdita la morte
Di coloro che non abbiamo mai visto –
Implica una Vitale Affinità
Fra la nostra Anima – e la loro –
Per l’Estraneo – gli Estranei non si piangono –
(E. Dickinson, Poems, trad. G. Ierolli)

Il 3 ottobre si celebra la “Giornata della Memoria e dell’Accoglienza” (istituita dalla Legge 45/2016) con lo scopo di ricordare e commemorare tutte le vittime dell’immigrazione e promuovere iniziative di sensibilizzazione e solidarietà.
Una data dall’alto contenuto simbolico che ricorda il giorno in cui – nel 2013 – 368 persone tra bambini, donne e uomini persero la vita in un naufragio a largo dell’isola di Lampedusa.
Qualche giorno dopo l’immane tragedia mi sono trovata sulla “zattera d’Europa” per un campo di volontariato con l’associazione Ibby Italia. E, naturalmente, le emozioni vissute attraverso i media si sono amplificate e sono diventate cassa di risonanza in quei giorni intensi vissuti a stretto contatto con la popolazione – locale e immigrati – di questo scoglio (sinonimo alternativamente di morte e/o di solidarietà e accoglienza) in mezzo al Mediterraneo.
“Nel villaggio, quando i bambini vivevano in povertà, arrivò un re che schiavizzò tutte le persone. Un giorno, il figlio del re Giasone XVII si recò dagli schiavi e disse loro: “Scappate! Ma prima costruiremo dei robot che vi somigliano; così ogni volta che mio padre – il re – darà dei colpi di frusta loro si ribelleranno e alla fine lo uccideranno” … Allora il principe con le poche informazioni che aveva ricevuto mise delle telecamere nella loro vita … Allora in città c’era un funerale ma era un inganno. Era una finzione … non si sa quello che accadrà dopo … (La corona misteriosa)”.
Quello riportato sopra è lo stralcio di un racconto scritto da una bambina delle elementari durante un nostro laboratorio. In un certo senso è la “trasfigurazione” fantastica di quello che in quei giorni, in quelle settimane non solo gli adulti ma anche i bambini avevano vissuto e sofferto. Continua a leggere →

Eva Strittmatter, Profitto e perdita

03 martedì Gen 2017

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Anna Maria Curci, Aufbau Verlag, Eva Strittmatter, Poesia, traduzione, Wildbirnenbaum

ARCHIV - Die Dichterin Eva Strittmatter, aufgenommen am 12.08.1997 in Berlin. Eva Strittmatter ist tot. Im Alter von 80 Jahren starb sie am Dienstag (04.01.2011) in Berlin. Das teilte der Verlag Das Neue Berlin der Nachrichtenagentur dpa mit. Neben ihren Gedichtveröffentlichungen schrieb Eva Strittmatter auch Prosa für Erwachsene und Kinder. Foto: Paulus Ponizak dpa/lbn +++(c) dpa - Bildfunk+++

Eva Strittmatter il 12 agosto 1997 a Berlino. Foto: Paulus Ponizak dpa/lbn +++(c) dpa – Bildfunk+++

Sei anni fa, il 3 gennaio 2011, moriva a Berlino Eva Strittmatter, autrice di numerosi volumi di poesie, di prosa e di romanzi per ragazzi. Nata Braun, aveva preso il cognome del marito, lo scrittore Erwin Strittmatter. La ricordo oggi con la mia traduzione della sua poesia, a me molto cara, Gewinn und Verlust, tratta dalla raccolta Wildbirnenbaum (“Pero selvatico”), che apparve nel 2009. (Anna Maria Curci)

 

PROFITTO E PERDITA

Profitto e perdita vanno sempre a braccetto:
Perdo fiducia cieca e sventatezza.
E acquisto un po’ di giudizio e di concetto
E a guardare imparo con più accortezza
A ciò che non mi tocca di persona.
Ciò che da me niente si aspetta
E ciò che promessa d’amore non menziona.
Scrivo sopra una pagina più netta.
Le parole mi si fanno più pesanti che allora.
Si arresta ormai di gioventù lo slancio.
L’intimo mio più non rivolto in fuori.
E in silenzio procedo al mio fianco.

Eva Strittmatter (da: Wildbirnenbaum, 2009)
(traduzione di Anna Maria Curci)

GEWINN UND VERLUST

Gewinn und Verlust sind immer zusammen:
Ich verliere an Leichtsinn und blindem Vertraun.
Und gewinne ein wenig an Einsicht und Wissen
Und lerne gründlicher hinzuschaun
Auf das, was mich nicht persönlich betrifft.
Was an mich keine Erwartungen hat
Und was mir keine Liebe verspricht.
Ich schreibe auf einem reineren Blatt.
Die Worte werden mir schwerer als früher.
Der Aufschwung der Jugend gelingt mir nicht mehr.
Ich kehre mein Innres nicht mehr nach außen.
Und schweigend gehe ich neben mir her.

Eva Strittmatter

Augusto Benemeglio, Acqua rotta

22 lunedì Ago 2016

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Anna Maria Curci, Anxa, Augusto Benemeglio, Gallipoli, Genazzano, Marie Luise Kaschnitz, Maurizio Nocera, Poesia, prosa, recensioni

acquarotta

Talvolta

Talvolta dorme pure il poeta
Il vecchio guastatore delle feste
Fino all’ultimo scudo ha pagato se stesso
Sprofondato nell’erba della pioggia di stelle
Sogno che cresce rapido gli avvolge come tela di ragno
Gli occhi che scrutano
Sulla sua mano che scrive
Si accoppiano farfalle
I suoi volatili da assalto blaterano come passeri
Il leggiadro Sempre-già-qui.

Marie Luise Kaschnitz
(traduzione di Anna Maria Curci)

Ci sono libri che sanno attendere il momento in cui saranno raccolti, accolti, accarezzati. Restano quieti e pur sempre vigili con il loro carico di domande, carico vissuto e sofferto, alieno dall’indaffarata distrazione quotidiana e grondante familiarità. Sanno che quella familiarità, miele nero e amaro del rimorso, farebbe comodo scansarla per volgersi all’immediato sfavillante. Sono certi, tuttavia, che il pensiero tornerà a loro, sorelle e fratelli non meno prossimi per il fatto di non essere consanguinei. Uno di questi libri è Acqua rotta. Il colore del vuoto di Augusto Benemeglio, edizioni «Anxa» 2015, che si è scelto l’alba insonne di questo 22 agosto 2016, giorno del compleanno del suo autore, per essere percorso e per dispiegare la sua polifonica prossimità. Scaturisce dal dolore di un duplice lutto, dalla perdita, nel giro di pochi mesi, del nipote Alessandro e del padre di lui, Alberto, fratello di Augusto. Prosa e versi si danno il cambio in un canto (composto da 67 parti, come precisa Maurizio Nocera nella bella prefazione, 67 come gli anni vissuti dal fratello Alberto) che nasce dal rimpianto e sparge amore, inciampa su radici, scivola tra i tumuli della necropoli di Cerveteri, si china su un letto d’ospedale, sorregge il corpo fraterno fatalmente fiaccato e anela risa perdute tra vigne e porti, tra Genazzano e Gallipoli, naviga – e ha il coraggio di farlo – su rotte antiche, additando, talvolta inaspettatamente, nuove confluenze. Così, tra la Puglia e il Lazio del nostro comune passato, tra i contadini e i venditori ambulanti, non trionfanti ma operosi antenati che condividiamo, eccola emergere quella solida, durevole confluenza, situata nella campagna di Genazzano: la nonna materna Luigia Maria Pia, detta Elisa, e la poetessa tedesca Marie Luise Kaschnitz. Si sono incontrate le due donne, si sono conosciute? Serbo questa domanda come una delle più preziose del carico di Acqua rotta e proseguo la navigazione, con una saldezza nuova che la lunga conversazione con il nostromo mi infonde.

©Anna Maria Curci
22 agosto 2016

*

Genazzano

Genazzano nella sera invernale
Nello zoccolo vitreo degli asini
Sull’erta della città rupestre
Come la cantò Marie Luise Kaschnitz
La poetessa tedesca che forse conobbe
Mia nonna, la giovane Elisa
Che andava alla fontana.

«Qui lavai la mia camicia di sposa
Qui lavai la mia camicia di morta».
Povera nonna con la faccia bianca
E la lunga treccia di capelli nerissimi
Distesa nell’acqua fredda della sera
Che torna nel vento di foglie dei platani
E le mani come due blocchi di ghiaccio.

Che sventura innamorarsi di un Augusto
sognatore e scioperato guardacaccia,
Proprio nel giorno della risurrezione.
Mia nonna giovinetta bella coi capelli corvini
Con la pelle chiara che respirava la rugiada
Con la mano stesa al frutto del melograno
Con lo splendore di uno sguardo che accendeva
Tutti i fanali di una cupa Genazzano…

E fu quello stesso spirito d’amore che ci salvò
Perché quando ami davvero non è più tua la vita
È un quadro pieno di lacrime tagli squarci ferite
cocci, ciottoli, frantumi, è questa la poesia vera,
Da povero Cristo che sta sempre lì appeso al palo
Infame della tortura, e non ci sarà mai nessuno
che salirà fino a te, per dirti semplicemente “grazie”.

Augusto Benemeglio
da Acqua rotta. Il colore del vuoto, p. 48

Georg Maurer, Mattino lieto

04 giovedì Ago 2016

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Anna Maria Curci, Connewitzer Verlagsbuchhandlung, DDR, Froher Morgen, Georg Maurer, Gli anni meravigliosi, Heinz Czechowski, Ich sitz im Weltall auf einer Bank im Rosental, Lipsia, Literaturinstitut "Johannes Becher", Poesia, Poetarum Silva, Potsdam, Reghin, Sarah Kirsch, scuola sassone di poesia, traduzioni, Transilvania, Volker Braun, Wieland Herzfelde

georg-maurer-gedichte-150

45 anni fa, il 4 agosto 1971, moriva a Potsdam Georg Maurer, poeta, insegnante, traduttore. Nativo della Transilvania (Maurer era nato a Reghin l’11 marzo 1907), si era trasferito nel 1930 a Lipsia per motivi di studio. Proprio in quella città, nella quale fece ritorno dopo la guerra, divenne poi una delle figure di maggior spicco come docente al Literaturinstitut “Johannes Becher”, dove, in qualità di direttore del “seminario creativo sulla poesia”, diede un’impronta rilevante a tutta una generazione di poeti della Repubblica Democratica Tedesca e, in particolare, alla cosiddetta “sächsische Dichterschule”, “scuola sassone di poesia”; tra i poeti ‘vicini’ al sentire di Georg Maurer vanno menzionati Sarah Kirsch (che fu sua allieva proprio al Literaturinstitut di Lipsia), Volker Braun e Heinz Czechowski, Voglio ricordare Georg Maurer con le parole dell’autore ed editore Wieland Herzfelde e con la mia traduzione di Froher Morgen, “Mattino lieto”.

Anna Maria Curci, 4 agosto 2016

«Come studente, come docente e traduttore, come uno al quale piaceva perdersi in strade, corridoi, paesi e libri – e come amante non smise mai di sorprendersi e di provare meraviglia. E così con la sua opera sorprendente ci ha lasciato un mondo meraviglioso.»

Wieland Herzfelde su Georg Maurer (traduzione di A.M. Curci)

Als Student, als Lehrender und Übersetzer, als einer, der sich gern in Straßen, Fluren, Ländern und Büchern verlor – und als Liebender hörte er nie auf, zu staunen und sich zu wundern. Und so ließ er uns in seinem erstaunlichen Werk eine wunderbare Welt zurück.

Mattino lieto

Stiracchiatevi rami, sveglia!
Un uovo ho mangiato e pane bianco.
Tutto il mio corpo ride.
Gli affanni della notte sono morti.

Sono sgusciato fuori dagli affanni della notte
come un uccello da un uovo.
Ho rotto il guscio
e ora me ne vado a zonzo libero.

Ora so quello che sanno i polli
quando becchettano.
So chi salutano i corvi
quando col capo annuiscono.

Georg Maurer
(traduzione di Anna Maria Curci)

 

Froher Morgen

Streckt euch, Zweige, erwacht!
Ich habe ein Ei gegessen und weißes Brot.
Mein ganzer Leib lacht.
Die Nachtsorgen sind tot.

Ich bin aus den Nachtsorgen gekrochen
wie ein Vogel aus dem Ei.
Ich habe die Schale durchbrochen
und spaziere jetzt frei.

Ich weiß jetzt, was die Hühner wissen,
wenn sie picken.
Ich weiß, wen die Raben grüßen,
wenn sie mit dem Kopfe nicken.

Georg Maurer
(la poesia si può leggere nel volume Ich sitz im Weltall auf einer Bank im Rosental, pubblicato nel 2007, anno del centenario della nascita di Maurer, dalla Connewitzer Verlagsbuchhandlung)

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