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Incontri con Stig Dagerman – di Giovanna Amato e Anna Maria Curci

12 sabato Feb 2022

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Autunno tedesco, Fulvio Ferrari, fvƏeditori, Giorgio Fontana, Ilaria Rossetti, Iperborea, Massimo Ciaravolo, Stig Dagerman, Stig Dagerman. Il cuore intelligente, storia

Incontri con Stig Dagerman – di Giovanna Amato e Anna Maria Curci

Su Autunno tedesco di Stig Dagerman e Stig Dagerman. Il cuore intelligente di Ilaria Rossetti

Dal titolo del primo degli articoli raccolti nel 1946 e pubblicati nel 1947, scaturisce Tysk Höst, Autunno tedesco nella traduzione di Massimo Ciaravolo, di Stig Dagerman. Il giovane autore svedese, allora ventitreenne, si trovava nella Germania occupata, come inviato del quotidiano “Expressen”.
Lo sguardo di Dagermann è acuto e ampio, la sua narrazione colpisce per la precisione e l’assoluta mancanza di retorica. D’altro canto, una visione storico-politica chiara, quella di un intellettuale anarchico avvezzo a smascherare interessi e motivazioni dietro l’agire umano – e, in questa consuetudine, geniale – illumina i reportage negli scenari urbani e rurali. Berlino, Amburgo, Monaco di Baviera si alternano a villaggi lungo le rive dei fiumi o al limitare dei boschi con una storia antichissima di sacralità, recente di eccidi, rapida nel “leccarsi le ferite”, mentre le piaghe restano aperte e altre vengono scavate.
La nuova guerra – la guerra fredda -, la fame, l’assenza di una casa o anche solo di un riparo, le farse dei testimoni nelle Spruchkammern, vale a dire nei tribunali per la denazificazione, la sofferenza analizzata a distanza dal letterato classicista che si sfama con le macchine da scrivere e i libri venduti: tutto questo, analizza lucidamente Dagerman, non pacifica, bensì alimenta il rancore, il risentimento, l’astio nazionalista.
L’acutezza dello sguardo, la lucidità dell’analisi non è disgiunta, tuttavia, da un sentimento di vera comprensione e cognizione del dolore.

Anna Maria Curci

Si pretendeva da chi stava patendo questo autunno tedesco di imparare dalla propria disgrazia. Non si pensava che la fame è una pessima maestra. Chi ha davvero fame ed è privo di mezzi non accusa se stesso per la sua fame, bensì quelli da cui crede di potersi aspettare aiuto. La fame non favorisce certo la ricerca delle cause, e chi è permanentemente affamato non riesce a stabilire alcun’altra relazione che la più immediata, per cui in questo caso accuserà chi ha rovesciato il regime che prima provvedeva al suo mantenimento, sostituendolo con un trattamento peggiore di quello a cui era abituato. (Stig Dagerman, Autunno tedesco, p. 20)

Il mio incontro con Stig Dagerman, invece, è stato seduta alla scrivania, mentre dal tavolo virtuale di un magnifico incontro di lettura un’amica ha detto queste sue parole: «Se la letteratura è un gioco di società, me ne andrò nel crepuscolo con i piedi sporchi di terra a farmi amici i serpenti e il piccolo ratto grigio delle sabbie. Ma se la poesia è una necessità vitale per qualcuno, non dimenticare a casa i sandali, guardati dai mucchi di pietre! Adesso i serpenti mi insidiano il calcagno, adesso mi disgusta il ratto delle sabbie». Vengono da Lo scrittore e la coscienza: Ilaria Rossetti le cita in breve dialogo a margine di un suo libricino miracoloso, Stig Dagerman, Il cuore intelligente, edito da FVE nel dicembre del 2021. Il libro apre, con il volume su Franco Loi a cura di Rudy Toffanetti, la collana Animula Vagula Blandula, che la casa editrice milanese dedica all’“amorosa avventura” del racconto di uno scrittore da parte di un altro scrittore che l’ha caro.
L’incontro di Ilaria Rossetti con l’autore svedese è stato invece all’insegna di Autunno tedesco, nella sala di una biblioteca popolata da lettori di quotidiani. Entrambe abbiamo avuto la simile impressione di sfrigolio, «il presagio di un senso prima intravisto appena e poi evidente». Entrambe sappiamo dare un luogo a questa comparizione. Io devo aver mosso la mano come per afferrare qualcosa, piano piano, perché la sua voce mi sembrava una chiamata a qualcosa di bellissimo, una scelta definitiva e stupenda, arrotondata da un linguaggio che era estraneo a ogni forma di retorica, ma leggero e biblico, come di piuma.
Di questo riconoscimento, e di questa riconoscenza, Ilaria Rossetti parla affiancando con gentilezza ricordi (la lunga preparazione del gioco dell’infanzia che appaga più del gioco stesso, la colazione di nebbia al bar prima di una serrata), facendo di impressione e carne, e non solo di ragionamento e idea, i brani di Dagerman che cita, i racconti della sua vita complessa e della sua biografia intellettuale, e il suo esito che, chiarisce, non è il suicidio (che non è il «risultato della sua biografia») ma la capacità di «tenere la posizione, nonostante tutto». Tra le varie parole chiave che possono occorrere a disegnare questo scrittore dalla scrittura esattissima e la lucidità rigorosa, una è “conflitto”: fin dall’incontro con la narrazione imperterrita del dolore dei vinti in Autunno tedesco, lì dove Dagerman ha rifiutato la visuale comune post-bellica di spezzare sotto il tacco un popolo colpevole, mai nell’autore svedese è mancata la fermezza di sguardo di comprendere, con la sua penna, quella che Walter Siti, citato da Rossetti, indica come necessità del libro: essere luogo in cui «ogni asserzione può essere rovesciata». Il “conflitto” non è allora il motore di una trama, come direbbe McKee, ma una capacità di visione, l’accoglienza di un pensiero discrepante, la disposizione a seguire un ragionamento imprevisto, una forma viva e ospitale di ogni lato, anche il più insospettabile e crudo, della realtà.
«Il giornalismo è l’arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possibile», cita ancora Rossetti da Autunno tedesco. Il punto, e Dagerman riesce, e Rossetti ci ricorda con questo libro splendido, è costruire su quel troppo tardi qualcosa che permane.

Giovanna Amato

Stig Dagerman, Autunno tedesco (tit. orig. Tysk höst), traduzione di  Massimo Ciaravolo, cura di Fulvio Ferrari. Con un saggio di Giorgio Fontana (“L’autunno di Stig”), Iperborea 2018

Ilaria Rossetti, Stig Dagerman, Il cuore intelligente, FVE 2021

Finale da “Santa Giovanna dei Macelli” di Bertolt Brecht

18 martedì Ago 2020

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Anna Maria Curci, Bertolt Brecht, Johanna, Santa Giovanna dei Macelli, storia, Teatro, traduzione

Carola Neher in Die heilige Johanna der Schlachthöfe di Brecht. Foto di Karl Schrecker, 1930

Con Brecht, Santa Giovanna dei Macelli,
pensavo al mattatoio di Testaccio.
Anna Maria Curci

TUTTI
Due anime ti abitano, umano,
Nel cuore!
Sceglierne una è vano
Ché entrambe devi avere.
Resta sempre in conflitto con te stesso!
Resta l’Uno, resta sempre Scisso!
Tieni l’anima nobile, tieni la plebea
Tieni la grezza, tieni la filistea
Tienile entrambe appresso!

Bertolt Brecht, Santa Giovanna dei Macelli
(traduzione di Anna Maria Curci)

 

 

ALLE
Mensch, es wohnen dir zwei Seelen
in der Brust!
Such nicht eine auszuwählen
Da du beide haben mußt.
Bleibe stets mit dir im Streite!
Bleib der Eine, stets Entzweite!
Halte die hohe, halte die niedere
Halte die rohe, halte die biedere
Halte sie beide!

Bertolt Brecht, Die heilige Johanna der Schlachthöfe
(1929-1930)

Rosa Luxemburg, nel tempo, oggi

15 martedì Gen 2019

Posted by letteremigranti in anniversari, letture, Memoria, Storia

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Anna Maria Curci, Karl Liebknecht, letture, Maxie Wander, memoria, Rosa Luxemburg, storia, traduzioni

«La libertà solo per i sostenitori del governo, solo per i membri di un partito – per quanto numerosi possano essere – non è libertà. La libertà è sempre libertà di chi pensa diversamente». (Rosa Luxemburg:”Freiheit nur für die Anhänger der Regierung, nur für die Mitglieder einer Partei – mögen sie noch so zahlreich sein – ist keine Freiheit. Freiheit ist immer Freiheit des Andersdenkenden.”)

Questo è vero, e lo è con un discreto grado di esattezza, per ciò che riguarda le debolezze della società. Di ogni società. Questa storia dell’io e del suo giocare a fare effetto – perché non è cresciuto! Questa brama cieca di fare colpo sempre e dappertutto, di pretendere lodi e di parlare sempre degli stessi successi. Solo se ci confrontiamo quotidianamente con le contraddizioni della vita le nostre forze possono crescere, la società può rimanere viva. Ed ecco qui la frase che ho trovato in Rosa Luxemburg, che porto con me e che mando a tutti i nostri amici: «Solo una vita non repressa e spumeggiante perviene a mille forme nuove, a improvvisazioni, ottiene forza creatrice, corregge da sola tutti i propri sbagli. Per questo la vita pubblica degli stati a libertà limitata è così misera, così disagiata, così schematica, così arida, perché escludendo la democrazia si preclude le fonti viventi di ogni ricchezza, di ogni progresso spirituale!»
(da: Maxie Wander, Ein Leben ist nicht genug. Tagebuchaufzeichnungen und Briefe – “Una vita non è abbastanza. Diari e lettere” – a cura e con una premessa di Fred Wander, Frankfurt 1990; la traduzione del brano è di Anna Maria Curci)

100 anni fa, il 15 gennaio 1919, Rosa Luxemburg fu rapita e, insieme a Karl Liebknecht, uccisa da ufficiali della Garde-Kavallerie-Schützen-Division. Dal carcere di Berlino nella Barnimstraße aveva scritto a Sonja Liebknecht il 5 agosto 1916: «Bleiben Sie tapfer und lassen Sie sich nicht niederdrücken», «Rimanga coraggiosa e non si faccia buttar giù». Raccolgo oggi, per tutti i giorni, l’invito di Rosa Luxemburg.

Letture a due voci, 4: Mauro Valentini, Cianuro a San Lorenzo

03 mercoledì Feb 2016

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Letture a due voci, Prosa, Rubriche, Storia

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Anna Maria Curci, Letture a due voci, Mauro Valentini, Poetarum Silva, prosa, recensioni, Roma, San Lorenzo, Sandra Luigia Rebecchi, Sovera, storia

copertinaCianurosoloprima

Mauro Valentini, Cianuro a San Lorenzo. La storia di Francesca Moretti, Sovera edizioni, Roma, 2015

Il libro di Mauro Valentini è il resoconto di un fatto di cronaca avvenuto a Roma nel febbraio del 2000. Francesca Moretti, una ragazza marchigiana, sociologa, vive a Roma, nel quartiere di San Lorenzo, con due sue amiche, Mirela e Daniela. Francesca è attiva all’interno dell’Opera Nomadi come operatrice scolastica nei campi Rom. Così ha conosciuto Graziano Halilovic, rom, operatore culturale sposato con figli; Francesca se ne è innamorata e lui sembra ricambiare. Hanno concordato di trasferirsi a Torino in un campo rom per cominciare una nuova vita insieme. La cultura rom consente ad un uomo di sposarsi più volte.

La sera del 22 febbraio del 2000 Francesca si sente male e viene trasportata d’urgenza all’Ospedale S. Giovanni dove muore poche ore dopo. L’autopsia rivela che è stata avvelenata da una dose di cianuro e poiché l’ultima cosa che ha ingerito è stata una minestrina cucinata dalla sua coinquilina Daniela Stuto, la ragazza viene accusata del delitto e trascorreranno due lunghi anni nei quali verrà additata da tutti come la colpevole. Ad aprile del 2002 la ragazza viene assolta per non aver commesso il fatto e verrà assolta in appello nel 2003.

La vita di Daniela Stuto è segnata per sempre dai due anni di indagini, interrogatori ed arresti domiciliari. Il caso è ancora oggi insoluto.

Ecco, pensavo scrivendo questo commento, poche parole e la cronaca è completata. La cronaca, cioè la registrazione dei fatti fatta in modo impersonale e mancante di qualsiasi criterio interpretativo. È questo l’intento di Mauro Valentini nel suo libro? Fare un resoconto dei fatti  particolareggiato, attentamente documentato, ricavato da atti ufficiali ormai pubblici, resoconti di intercettazioni telefoniche, arringhe del PM e dell’avvocato della difesa? La si può definire una cronaca?

Fin dalle prime pagine il lettore diviene partecipe in qualche modo dei fatti e fa la conoscenza dei protagonisti e non è una conoscenza asettica, perché fin dall’inizio si viene proiettati nel mondo delle tre ragazze che condividono appartamento e giovinezza, abitudini ed esperienze. Il fatto che abitino in un quartiere popolare con una storia dolorosa alle spalle, il fatto che l’appartamento sia situato nel quartiere di San Lorenzo è di certo per il lettore romano qualcosa che fa la differenza. È un posto “famigliare”, mentre risulta spontaneo pensare che certi fatti di cronaca nera avvengano sempre “altrove”.

Ma allora quello di Valentini è il racconto di una storia. In effetti il giornalista ricostruisce ordinatamente gli eventi, oggetto di una sua indagine critica che riferisce al lettore collegandoli nel corretto sviluppo temporale. Allora si tratta di una storia? E anche qui la risposta è difficile, perché le pagine di Valentini trascinano come quelle di una storia, anche se fin dall’inizio si è ben consapevoli che finire di leggere il libro non ci porterà a nessuna conclusione, per il semplice fatto che conclusione non c’è stata.

È proprio questa sensazione di essere di fronte ad una realtà, narrata ma non manipolata, descritta ma non giudicata, essenziale senza tralasciare nessun particolare, che rende interessante e coinvolgente la lettura.

Questo tipo di racconto è mille volte lontano da quello urlato, ad effetto, troppo deciso nelle conclusioni, caratteristico della pagina di cronaca di un qualsiasi giornale. E forse è questo che attira il lettore e che gli dà la sensazione di conoscere da vicino i protagonisti dei fatti.

@Sandra L. Rebecchi

Un fatto di cronaca, un rebus, una drammaturgia. La ricostruzione dei fatti intorno alla vicenda che viene ancora oggi ricordata come “il caso della minestrina al cianuro” diventa in Cianuro a San Lorenzo di Mauro Valentini costruzione di un’opera a più voci della quale il cronista-autore mantiene ben saldo il timone. Si badi bene: Mauro Valentini non bara, non falsa le carte, non offre sacrifici sull’altare del facile effetto, eppure riesce a incatenare chi legge alle vicende di Francesca Moretti, la giovane sociologa marchigiana morta a Roma al pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni, alle 19, 35 del 22 febbraio 2000, dopo essere stata ricoverata d’urgenza per dolori lancinanti. A pranzo aveva mangiato soltanto una minestra con il formaggino, preparata da una delle ragazze che con lei divideva l’appartamento nel quartiere romano di San Lorenzo. È la minestrina la causa del decesso? E se questa è stata avvelenata, chi ha messo il veleno? E le medicine che Francesca prendeva da giorni per la lombo-sciatalgia? Di tutto questo tiene conto e dà conto Mauro Valentini, distribuendo voci e passi a una costellazione di personaggi di diverse culture e provenienze. Altra non è, questa costellazione, se non quella delle persone che, nella vita di Francesca, dalla nascita agli ultimi giorni, hanno occupato un posto di primaria o di secondaria importanza, ma che un ruolo nelle vicende di Francesca hanno svolto. Provengono da varie parti dell’Italia, questi personaggi, o da altri paesi europei, come Mirela Nistor, romena, una delle due coinquiline di Francesca,  oppure appartengono a culture percepite come molto distanti e viste con diffidenza, come Graziano Halilovic, rom, sposato, padre di cinque figli,  che  con Francesca ha una storia d’amore. Sono donne e uomini in carne e ossa, non solo personaggi, ovviamente, e ci vengono incontro, attraverso le pagine di Cianuro a San Lorenzo, con le loro deposizioni, le confidenze, i gesti riferiti, con i loro tic, le loro manie, le reticenze su alcuni aspetti e, d’altro canto,  la sovrabbondanza – quasi un fiume, se si pensa, ad esempio, alla deposizione di Antonella, amica di Francesca, al processo – di dettagli su altri aspetti. Uno dei meriti di Mauro Valentini va individuato senz’altro nella capacità di dare alle vicende narrate e alle persone coinvolte sia la veridicità della cronaca sia l’animazione drammaturgica.

Anche i luoghi, gli interni come gli esterni, assumono in Cianuro a San Lorenzo il ruolo di indicatori del contesto in cui si svolgono i fatti e, allo stesso tempo, di veri e propri personaggi. Il quartiere di San Lorenzo è, ovviamente, in primo piano, con i suoi locali, le botteghe, lo scalo ferroviario e i piloni della Tangenziale, con la sua storia ricca di eventi e l’impatto sull’immaginario collettivo, ma pagine significative vengono dedicate anche alla città natale di Francesca Moretti, Pesaro, così come a quella di Daniela Stuto, Lentini. Daniela Stuto è l’altra coinquilina di Francesca in quel tragico febbraio 2000; Daniela è la giovane donna accusata dell’omicidio di Francesca. Come e perché si sia arrivati a quell’accusa, con quali sentenze si siano conclusi i processi lo apprenderemo nel corso della lettura.

Lo studio preparatorio, le indagini sulle indagini che hanno preceduto e accompagnato la stesura di questo libro, tuttavia, permettono a chi legge di apprendere molto di più delle semplici risultanze dei due gradi di giudizio. Chi legge entra nel vivo del dibattito processuale, impara a conoscere dinamiche relazionali e caratteristiche dei singoli individui che formano la costellazione qui presentata attraverso documenti e testimonianze. Si fa strada e prende corpo, così, un’ipotesi di soluzione del caso che smentisce le vie finora prevalentemente seguite.

Una nota a parte deve essere dedicata agli approfondimenti che arricchiscono Cianuro a San Lorenzo e che offrono scorci di varia natura, dalla panoramica sull’avvelenamento al cianuro nel cinema e nella letteratura, alle indagini compiute dallo stesso Mauro Valentini tra gli artigiani del popolare quartiere romano sulla possibilità di accedere al veleno mortale, ai veri e propri ‘studi di caso’ compiuti su misteri e delitti che presentano analogie con la storia di Francesca Moretti.

© Anna Maria Curci

La nota di Anna Maria Curci è apparsa precedentemente su “Poetarum Silva”, qui

Letture a due voci, 2: Claudio Pescetelli, Roma Beat

06 mercoledì Gen 2016

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Laura Vazzana, Musica, Prosa, Recensioni, Rubriche, Storia

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Anna Maria Curci, Beat, Beatles, Claudio Pescetelli, golpe Borghese, Il vicario, Laura Vazzana, Letture a due voci, musica, Per le strade di Roma, Piper, Poetarum Silva, prosa, recensioni, Rolf Hochhuth, rubriche, storia, Teatro Adriano, teatro off, underground

ROMA BEAT - copertina prima

Claudio Pescetelli, Roma Beat, Zona editrice 2015

Con il suo libro “Roma Beat”, Claudio Pescetelli ha scritto pagine della storia d’Italia. Una storia piuttosto recente, per molto tempo trascurata, come spesso avviene con le cose a portata di mano. Qui non si parla della grande America, si parla di Roma, di come Roma, negli anni ’60, ha rivisitato e vissuto a modo suo stimoli creativi e culturali, offrendoli a un vasto pubblico. Di giovani, naturalmente, perché i giovani rappresentano da sempre la parte ricettiva della società.

Noi che eravamo bambini o ragazzi negli anni ’60 non possiamo non provare un senso di nostalgia, non possiamo non aver conosciuto direttamente o indirettamente una bella fetta dei nomi citati con grande cura e studio dall’autore, degli artisti, come pure dei locali. Che spesso erano locali per modo di dire. Mentre gli artisti neanche si immaginava che, alla distanza, avrebbero costituito capitoli importanti della musica rock italiana.  Prendo ad esempio il mitico Renato Zero. Ora è riconosciuto universalmente un grande, uno che ha ancora molto da dire, i cui concerti sono autentici spettacoli, allora si notava perché era un personaggio e proprio per questo non aveva vita facile.

Per i ragazzi di oggi la lettura di “Roma Beat” è utile e istruttiva perché riporta dettagliatamente il clima particolare di voglia di sperimentare che abbracciava le nuove generazioni, pure se in un momento storico in cui il cosiddetto ‘gap’ con gli adulti era davvero profondo. Eppure, nei condomini, non erano rare le cantine allestite a salette per suonare, insonorizzate alla meglio con le scatole delle uova. Chi poteva, metteva i soldi da parte per comprarsi una chitarra. Si suonava sul prato con gli amici, cercando gli accordi giusti, imitando gli artisti veri.

Con l’aderenza al reale dello storico, l’autore non trascura, tuttavia, di mettere in evidenza come, nonostante gli slogan sulla pace gridati con forza, cominciasse purtroppo ad aprirsi un varco anche il lato buio del cambiamento.

©Laura Vazzana

Immaginate di poter proseguire, attraverso la lettura di un libro, una conversazione che avete iniziato, appena ventenni, con un amico. Quella conversazione, come avveniva spesso, verteva sui ricordi, ancora molto freschi, che provenivano dai banchi di scuola. Immaginate che quella scuola di cui vi raccontava l’amico sia la scuola nella quale insegnate da tanti anni. Immaginate di aver conosciuto e apprezzato, come colleghi, alcuni dei professori del vostro amico. Immaginate, ancora, che quella conversazione, che partiva dai banchi di scuola, si allargasse immediatamente alle passioni comuni, o meglio “alla” passione per eccellenza, quella per la musica, quella che vi spingeva, tra l’altro, a trascorrere la domenica mattina nella galleria semibuia che collega Piazzale della Radio con il dispiego di colori delle bancarelle di Porta Portese. A far cosa? Ma a scambiare vinili, sfiancati dall’ascolto e sempre inseguiti e curati, a cos’altro?  La passione per la musica che vi faceva sussurrare o gridare (a mo’ di quel “Klopstock” pronunciato ne I dolori del giovane Werther) il nome di gruppi sentiti come propri grazie al piacere della ricerca e della scoperta. Immaginate di leggere Roma Beat di Claudio Pescetelli e trovare, ampliato e amplificato, con un suono nitido, il tono familiare e sempre nuovo di quella conversazione. Se immaginate tutto questo, comprenderete la gioia nel percorrere questo “ponte della musica” visionario e tuttavia assai concreto. Roma Beat è una cronaca appassionata e documentata fin nel minimo dettaglio non solo della scena underground, dell’universo beat a Roma, dal 13 febbraio 1965 all’11 ottobre 1970, ma anche del contesto sociale e politico in cui si muovono i giovani che danno vita in quegli anni a locali, concerti, teatri e cinema off. Non troverete soltanto notizie – una fucina pressoché inesauribile, comunque – sulla storia dell’apertura del Piper e sulla prima volta dei Beatles a Roma, per la precisione al Teatro Adriano, ma anche particolari e testimonianze su soffiate di quotidiani della capitale, sgomberi e fermi in occasione della prova generale della pièce di Hochhuth, Il vicario,  opera e operazione che scatenarono rumorosissime polemiche e sordi interventi di censura, sui “capelloni”  che stazionavano sulla scalinata di Trinità dei Monti, tenuti a distanza e perfino temuti dai benpensanti, i quali reclamavano a gran voce l’intervento della polizia, su manifestazioni e repressioni, su proteste e pacifismo, sulla guerra del Vietnam, sui depistaggi dei servizi segreti sulla strage di piazza Fontana, sui preparativi del golpe di Junio Valerio Borghese.

“Se vuoi, dai voce alla storia”, scrivevo qualche anno fa a Berlino, in occasione dei 50 anni dalla costruzione del muro.  In Roma Beat Claudio Pescetelli ha dato voce alla storia, con la cronaca di un cambiamento epocale che si è manifestato in particolare attraverso la musica e la sua ricezione.*

© Anna Maria Curci

CLAUDIO PESCETELLI è nato nel 1960 a Roma, dove vive. Appassionato e studioso degli anni sessanta e settanta, alle culture e alla musica di quegli anni dal 1991 ha dedicato le fanzine Born Loser e Mondo Capellone. Ha sinora pubblicato otto libri, sei di argomento musicale – Ciglia ribelli (I libri del Mondo Capellone, 2003), Una generazione piena di complessi (Zona Editrice, 2006), i tre volumi di Nudi & crudi (I libri del Mondo Capellone, 2010, 2011 e 2012) e Lo stivale è marcio (Rave Up Books, 2013) – e due romanzi, Le tribù (Zona Editrice, 2009) e Strada statale (I libri del Mondo Capellone, 2011).Ha disegnato copertine di dischi per i gruppi The Garbages e The Others, e collaborato con le riviste Bassa Fedeltà, Misty Lane, Vintage e Jamboree.

*la lettura di Anna Maria Curci è apparsa in anteprima su Poetarum Silva, qui

2 agosto 1980 – 2 agosto 2015

02 domenica Ago 2015

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2 agosto 1980, Anna Maria Curci, Bologna, orologio, Poesia, stazione, storia, strage di Bologna, Vittorio Bodini

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2 agosto 2015

E oggi e sempre ero lì, nello spazio abolito
di fronte all’orologio, all’ora fissa,
domenica d’agosto, ma era sabato
allora, nel millenovecentottanta.

La sera, gola polvere macerie,
non ho detto a mio zio, sì, il ferroviere:
ricordo la paura e gli anni, trentacinque.

Viaggiavi al tempo lungo quel percorso
e mi portavi i rotocalchi sparsi
dai turisti tedeschi sui sedili.

Non gli ho detto: l’angoscia
per te, per gli altri, mi è compagna
(“tu non conosci il sud” mi nutrì
e il dannato ritegno all’espansione).

Anna Maria Curci

Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno

01 sabato Ago 2015

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Anna Maria, Curci, edizioni e/o, Elio Pagliarani, foibe, Napoli, Nisida, Patrizia Rinaldi, Poetarum Silva, recensioni, romanzo, Spalato, storia, Villaggio Cultura - Pentatonic, Villaggio Giuliano-Dalmata

In questo mese di agosto 2015 i lettori di “Lettere migranti” troveranno qui una scelta di “inviti alla lettura”. Il primo appuntamento è con il romanzo di Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno.

Rinaldi_Prima_di_giugno

 

Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno, edizioni e/o 2015

Inventario di un incontro
di Anna Maria Curci

«Ma già prima del termine di giugno/ la mia palinodia divenne sorte:/ nessun antagonista alla mia morte» (Elio Pagliarani, da Inventario privato; versi riportati in esergo da Patrizia Rinaldi). Al termine del nostro incontro nel settembre scorso ho ricevuto da Patrizia Rinaldi una promessa. O meglio, con l’orgoglio pudico di chi legge e, lontano dalla vista altrui, pensa che tutto ciò che è scritto sia rivolto a lei,  a lui, ho accolto quell’annuncio – ché annuncio era – come una promessa. A fine settembre 2014, dunque, alla domanda circa i suoi progetti futuri che le ho rivolto mentre eravamo al Villaggio Giuliano-Dalmata, Patrizia Rinaldi ha risposto che le vicende narrate avrebbero menzionato anche una sorte non dissimile da quella toccata a molti dei primi abitanti del quartiere romano nel quale ci trovavamo a parlare. Un sobbalzo, difficile da spiegare con meri dati autobiografici, ha inaugurato allora la mia attesa, che si è conclusa «prima del termine di giugno», allorché il libro è stato pubblicato. Un’attesa che è stata premiata, perché, sì, confesso di aver provato amore per gli scontri, fieri e dignitosissimi, con gli «scostumatelli dal falso sdegno» di Maria Antonia, la madre, narrata da giovane, e di Ena, la sua terzogenita, da vecchia, che a quella narrazione alterna il racconto in prima persona. Ho indugiato, con lo sguardo che riconosce parenti molto più stretti dei consanguinei, su gonne plissettate, su stoffe da arredi sacri, «cascioni» e ricicli vari, su guanti, sottovesti, pois e cappellini, su scarpe amorevolmente curate e, di necessità,  virtuosamente «pittate».

Mi guardo le mani.
«Se vorrai mentire sull’età, non dimenticare di metterti i guanti» mi diceva mia madre, dimenticando che l’era dei guanti fosse già finita da un pezzo.
Nel reparto laterale dell’armadio riposano in pace guanti di filo, di lana, di pelle. Quelli di pelle avrebbero dovuto essere conservati meglio, magari con della carta all’interno, invece l’incuria li ha costretti in un ammasso di dita e di polsi.
Il loculo dei guanti è un solido geometrico con l’odore di mia madre. Un misto di lavanda immortale, di retrogusto di tuberose, olezzo di rossetto stantio. (p. 39)

Ho attraversato l’odore acre della fuga per la sopravvivenza,  il pozzo della fame che nasconde il fondo e tende nicchie come trappole, “il sole nero della malinconia” compagna e musa, perfino l’Agro Pontino, la terra piatta e la malaria fatale dei racconti che qui dove vivo ho ascoltato da più voci.

Sono tornata a fissare l’occhio sulla sagoma di Nisida: anche quella non manca mai di far spiccare balzi al cuore e accennare piroette alla testa, perché ci sono orizzonti che si abbracciano come propri, anche quando non si sono ‘realmente’ palesati nella nostra infanzia.
Ho tuffato il naso nel glicine, ho percorso su e giù lo scalone della «villa a mare», ho abitato «la casa vicino ai binari del tram», ho ascoltato quieta e ho studiato con Lucia, la primogenita di Maria Antonia, ho cucinato la pizza di zucchine con Giuseppina, l’amica di Ena, ho tremato a Dachau con i fratelli di Maria Antonia, Renato, Tore e Arturo, ho scoperto la fatica paziente e buona del riaggiustare.

Renato e Tore furono assegnati alla pressa e alla pazzia.
Arturo fu impiegato per la riparazione delle macchine. L’ebete fissazione per Zoccolì lo conservò quasi indenne.
Aveva una capacità rara di stare al pezzo per ore e ore, non mollava un ingranaggio finché non l’aveva riparato. Ricostruiva parti mancanti o lesionate con ogni genere d’invenzioni meccaniche.
Le sue mani avevano l’intelligenza che a lui mancava.
Per questo prigionieri e sorveglianti gli permettevano di restare da solo; presto diventò per tutti una macchina che aggiustava macchine. E basta. (pp. 69-70)

Per colpa della guerra, dopo la guerra e nella guerra perpetua che si dilata, serpe smisurata, nella Storia: non è litania blasfema o «arrovogliata», è filo conduttore, è legenda della mappa di questo libro e dell’esistenza, della danza, con le scarpe pittate, i piedi scalzi o l’acetabolo rotto, con la signora che ha tra le braccia un fascio di spighe e miete, miete, senza alcun antagonista.

© Anna Maria Curci

La nota di lettura è apparsa il 13 luglio 2015 su Poetarum Silva, qui

Christa Wolf, a 86 anni dalla nascita

18 mercoledì Mar 2015

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Memoria, Poesia, Storia

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Anna Maria Curci, Christa Wolf, Karoline von Günderrode, memoria, Poesia, storia

Christa Wolf in occasione della manifestazione del 4 novembre 1989. Berlino, Alexanderplatz. Bundesarchiv

Christa Wolf in occasione della manifestazione del 4 novembre 1989. Berlino, Alexanderplatz. Bundesarchiv

86 anni fa, il 18 marzo 1929, nasceva a Landsberg an der Warthe (oggi Gorzow Wielkopolsky) Christa Wolf. Voglio ricordarla con due suoi brevi testi, la poesia  Prinzip Hoffnung (Principio speranza) e un brano tratto da Der Schatten eines Traumes (L’ombra di un sogno), il saggio che scrisse per l’edizione delle poesie di Karoline von Günderrode, che pubblico qui nell’originale e nella mia traduzione.

Prinzip Hoffnung

Genagelt
ans Kreuz der Vergangenheit
Jede Bewegung
treibt
die Nägel
ins Fleisch.

Principio speranza

Inchiodato
alla croce del passato
Ogni movimento
spinge
i chiodi
nella carne.

Christa Wolf
(traduzione di Anna Maria Curci)

*

«Ein zerrissenes, politisch unreifes und schwer zu bewegendes, doch leicht verführbares Volk, dem technischen Fortschritt anhängend statt dem der Humanität, leistet sich ein Massengrab des Vergessens für jene zu früh zugrunde Gegangenenen, jene unerwünschten Zeugen erwürgter Sehnsüchte und Ängste.»

«Un popolo dilaniato, politicamente immaturo, difficile da smuovere, eppure facile da sedurre, attaccato al progresso tecnologico invece che al sentimento di umanità, si permette una fossa comune dell’oblio per coloro che sono andati a fondo precocemente, per quei testimoni indesiderati di aneliti e paure soffocati.»

Christa Wolf (da: Christa Wolf, Der Schatten eines Traums, in: Karoline von Günderrode. Einstens lebt ich süßes Leben. Gedichte – Prosa – Briefe. Herausgegeben von Christa Wolf, Insel Verlag 2006, p. 14)

Michele Barile, Le campane di Sherborn

31 sabato Gen 2015

Posted by letteremigranti in Lettere migranti, Recensioni, Romanzi, Storia

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Anna Maria Curci, Le campane di Sherborn, Lettere migranti, Michele Barile, migrazione, recensioni, romanzi, storia, Ventisei Lettere edizioni

Le-campane-di-Sherborn

 

Le campane di Sherborn di Michele Barile è un libro limpido e pieno di partecipazione, articolato in maniera convincente,  con il manoscritto incastonato tra il prologo e le considerazioni conclusive, che a loro volta costituiscono un ulteriore impegno a serbare memoria e a seguire un modello di amore e profondo rispetto per il creato e le creature. Le due vicende narrate nel manoscritto sono rese in maniera vivida e realistica. Inserite in un contesto storico – quello degli anni del fascismo e dell’immediato dopoguerra – ricostruito con attenzione alla verità dei fatti, coinvolgono e appassionano chi legge e rappresentano allo stesso tempo testimonianza e tributo significativi al paese d’origine dell’autore, Ginestra degli Schiavoni, alla sua storia, quasi emblematica per molti paesi del Meridione. È una storia di povertà,  di soprusi e di dolorosi distacchi, tra poteri locali e vicende migratorie. È una storia, allo stesso tempo, di  riscatto,  di etica del lavoro e di profondo rispetto per l’umanità. (Anna Maria Curci)

La campane di Sherborn (Ventisei Lettere edizioni, 2014) di Michele Barile sarà presentato oggi, 31 gennaio 2015, nella sede dell’UCAI, Galleria La Pigna, Via della Pigna 13/A, Roma. Appuntamento alle ore 16.30.

Un estratto dal romanzo:

Ma Guido era sempre molto sospettoso nei suoi confronti. Avrebbe voluto entrare nei suoi pensieri per dominarla. Erano soli in quella stanza. La madre di lei giaceva nel letto al piano superiore dell’abitazione. Il camino era ancora acceso e i ceppi scoppiettavano nervosi. L’aria diventò fin troppo calda per il fisico esile di Filomena mentre fuori il gelo aveva imbiancato gli alberi e i tetti delle case. Persino il campanile non risuonava più per il freddo. Improvvisamente Guido le mise una mano sulla bocca per non farla urlare e la spinse a terra. I due corpi caddero violentemente. Filomena, come aveva tentato di fare tante altre volte, cominciò a dimenarsi e a contorcersi sotto il fisico possente di quell’uomo, che aveva iniziato a schiaffeggiarla con dei colpi implacabili. Questa volta lei rinunciò alla resistenza e perse i sensi. Dopo la violenza, Guido si alzò sudato e stanco, mentre si aggiustava i vestiti, il suo sguardo incrociò quello della madre della giovane donna che intanto era riuscita ad alzarsi dal letto e, terrorizzata da ciò che aveva visto, era rimasta completamente senza parola. Lo sguardo smarrito di Guido la fissò per un istante. Poi si morse le labbra e, sbattendo la porta, corse via nel freddo gelido della notte.

Johanna

19 lunedì Mag 2014

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Lettere migranti, Memoria, Romanzi, Traduzioni

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Anna Maria Curci, Del Vecchio editore, Felicitas Hoppe, Giovanna d'Arco, Poesia, pulzella d'Orléans, romanzi, storia

Johanna_trad_AMC

Johanna 

«Par mon Martin!» soffiava
– era fuoco o bivacco? –
sugli altri copricapo la pulzella.
Dal pascolo al patibolo è un salto,
dietro le tende cifra la menzogna
e batte i denti.
«Ne avessimo da noi!»,
mormorava il nemico.
Di sante folli,
di candide sgobbone da incendiare?
C’è via di scampo dal fumo perenne
o resta il bivio di falso autorizzato
e prosa da scudieri?

Anna Maria Curci

(su Johanna di Felicitas Hoppe)

19 maggio 2014

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