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Brunella Bassetti, Un tè nel deserto. Viaggio nei campi profughi Saharawi

28 martedì Gen 2020

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Brunella Bassetti, cronache, deserto, profughi, Saharawi, viaggio

Un tè nel deserto

(Viaggio nei campi profughi Saharawi con l’Associazione di Solidarietà e Amicizia con il Popolo Saharawi ASAPS “Enzo Mazzarini”)

 

Il mio viaggio nei campi profughi Saharawi inizia all’Aeroporto Internazionale di Fiumicino il 28 dicembre 2019. Ai desk dell’Air Algerie mi attendono i compagni di viaggio: alcuni, come Carmen Frasca (Presidente dell’Associazione ASAPS), conosciuti negli anni passati durante i progetti accoglienza dei “piccoli ambasciatori di pace”; altri conosciuti in quel momento. Dopo le presentazioni di rito e i convenevoli il nostro maggior problema è come imbarcare le numerose e pesantissime valigie senza pagare il sovraccarico previsto dalle leggi aeroportuali. Alla fine, riusciamo ad imbarcare tutto senza pagare alcuna tassa aggiuntiva. Siamo in possesso di un “visa collectif” da parte della Repubblica Algerina Democratica e Popolare: “… dans les campements des refugies Sahraouis de la region de Tindouf sur invitation de la representation du front Polisario a Rome”. Non è un semplice viaggio di turismo responsabile e solidale; no, è qualcosa di più che, alla partenza, ancora non so definire. Oltre ai bagagli porto, e partono, con me suggestioni letterarie e cinematografiche che mi accompagneranno per l’intera permanenza nei campi profughi.
Atterriamo ad Algeri dopo circa due ore di viaggio. Ci attende un aeroporto moderno mentre i primi pensieri vanno al film “La battaglia di Algeri” visto negli anni ’80 in un lontano cineforum a Napoli. E, subito, penso: “Mai avrei pensato, nella mia vita, di venire o sostare per qualche ora nella città di Algeri”. Considerata terra difficile e violenta … un pensiero immediato alla “Legione Straniera” e alla constatazione che con meno di due ore siamo al di là delle coste del “mare nostrum”, il nostro Mediterraneo. Soltanto due ore di aereo e quante vite – recise in mare – potrebbero essere salvate! Sì, i corridoi umanitari, rimangono – forse – la soluzione più veloce e più sicura per la piaga dell’immigrazione clandestina. Ma, questo, naturalmente è un altro argomento. Una digressione spontanea e fulminea subito messa a tacere per pensare alla meta del nostro viaggio.
Ci aspetta una giornata di attesa estenuante all’aeroporto nazionale di Algeri. Infatti, il volo per Tindouf – ultimo avamposto dell’Algeria – è previso per le tre di notte. Arriviamo nell’ex città militare a notte fonda. La prima impressione, superati i controlli e dopo aver compilato i moduli di ingresso, è un piccolo aeroporto color seppia offuscato da luci gialle che mi rimanda, immediatamente, alle tipiche atmosfere del film “Casablanca”. Attendo Humphrey Bogart, con il suo immancabile soprabito, mentre nella testa risuona il refrain della famosa “Play it, Sam”.  Mi guardo intorno e cerco di catturare i volti, gli sguardi: siamo quasi tutti “étrangers” in missione umanitaria grazie alle numerose ONG e associazioni che operano in questi territori.
Fuori, ad attenderci, ci sono le jeep e i relativi autisti che ci faranno da guida e da “capo-cammellieri” durante tutto il nostro soggiorno. Un altro benvenuto ci viene dal cielo stellato sopra di noi; un cielo così lo avevo visto soltanto in Somalia, tanti anni fa. Una coperta blu indaco trapuntata di luci e di stelle. Cerco di individuare il Carro dell’Orsa Maggiore (che individuerò soltanto uno degli ultimi giorni) accanto ai “tre mercanti”, ben visibili e scintillanti. Viene a confortarmi l’amico Kant: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”.
Primo posto di blocco, se così si può chiamare: una garitta che ricorda – fotograficamente – alcune scene de “Il deserto dei Tartari”. Dall’aeroporto fino al confine del primo campo siamo accompagnati dalla scorta militare algerina: per la nostra incolumità. Un tragitto surreale. Così come surreali sono le emozioni e le sensazioni che si rincorrono e si sovrappongono nella mia mente.
Arriviamo a casa di Salek quasi alle prime luci dell’alba. È bello ritrovare un amico conosciuto in Italia grazie al progetto accoglienza dei bambini Saharawi. Sulla tavola, all’europea, è già imbandita la colazione delle prossime ore.  Un’ora o forse meno di riposo e già siamo in partenza per Dakhla, il più lontano campo profughi (circa 170 km da Tindouf) quasi al confine con il Mali. Abdul – il nostro autista, la persona che il protocollo del Polisario ha affidato al nostro gruppo – ha dormito con noi e, prima di partire, ci ha già preparato il tè. Con il passare dei giorni ci affezioneremo sempre più a questa cerimonia. In una dimensione dello spazio dove il tempo è una variabile infinitesima questo antichissimo rituale riveste una importanza fondamentale. Fulcro della casa, dell’ospitalità, della famiglia, del ritrovarsi tutti insieme attorno ad un piccolo braciere, una teiera come se – fuori – non ci fosse la vita che pulsa.
Iniziamo il nostro viaggio percorrendo l’unica strada asfaltata dei campi. Una lunga nera linea retta che taglia in due il “deserto dei deserti”. Tentiamo di fare qualche video, qualche foto ma già dalle prime ore capiamo che i mezzi tecnologici non possono minimamente racchiudere ciò che stiamo vedendo e vivendo.  Il nulla, il nulla a 360° gradi. Deserto, non quello delle immagini pubblicitarie, ma il deserto fatto veramente di nulla. Una distesa infinita di niente e, immancabilmente, tornano alla mente le storie dalle mille e una notte di questi popoli appartenenti a queste latitudini e longitudini; film come “Un thè nel deserto”, “Il paziente inglese” o altri tipi di deserto (nello specifico quello visto in Samaria dove si svolse la famosa parabola del Buon Samaritano) ma nulla hanno a che vedere con lo scenario che si presenta ai nostri occhi. In alcuni punti, grazie a depressioni e a protuberanze del suolo create dal continuo gioco del vento – il Ghibli – sulla sabbia, sembra di essere sulla Luna.
Arriviamo in tarda mattinata nel campo profughi più lontano e più povero, perché qui, a causa della maggiore distanza rispetto agli altri campi gli aiuti umanitari internazionali arrivano con più difficoltà. Accolti calorosamente nella “jaima” (tenda, ogni famiglia ne possiede una accanto alla propria casa) dalla famiglia di Debha e Azman, veniamo catapultati nella vita quotidiana dei Saharawi. L’Africa, il Sahara ci dà il benvenuto con la luce che filtra attraverso i variopinti tessuti della tenda. Ma il benvenuto più bello è senz’altro quello che ci riservano i bambini. Si siedono accanto a te, ti guardano, ti sorridono e, dopo qualche iniziale diffidenza, ti prendono per mano e ti portano a conoscere il loro mondo. Ti accompagnano al recinto delle capre, ti presentano ai loro amichetti cercando di farti sentire a tuo agio come meglio possono. Ti aiutano, ti indicano la strada, sono attenti che tu non ti faccia male, ti proteggono in una sorta di scorta in questo mondo primordiale e vero. Sono felici della tua presenza e te lo fanno capire in mille modi. Si tolgono quello che hanno per darlo a te: il poco che hanno lo condividono con gioia e serenità. Dopo mezza giornata sei una di loro: ti donano e ti aiutano ad indossare la “melfa” (abito tipico della cultura femminile Saharawi. È composta da un unico telo lungo circa cinque metri che le donne si avvolgono attorno al corpo e alla testa. Serve per ripararsi dal sole e dal vento. La veste tradizione maschile è il “dhra”, simile alle tuniche blu dei Tuareg. Per proteggere il capo, invece, gli uomini utilizzano il “thelm”, un turbante che viene avvolto sulla testa e sul viso), ridono delle tue imbranataggini: togli le scarpe, metti le scarpe … e, alla fine, ti ritrovi a camminare a piedi scalzi sulla nuda sabbia. Sorridi, sei felice di queste giornate ricche di umanità.
Il giorno dopo ci rechiamo al Municipio del campo: l’architettura continua a ricordarmi il fortino di Drogo: il pantone azzurro del cielo – accecante e brillante – fa da contrasto con i muri bianchi, un po’ sgretolati, e la bandiera della RASD (Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi) che ricorda il sacrificio, il dolore e le speranze di un intero popolo. Anche qui deve accadere “qualcosa”, dovrà accadere “qualcosa” ma non si sa quando …
Il sindaco e la vice-sindaco hanno chiamato a raccolta le famiglie cui andranno i soldi delle adozioni a distanza. Una cosa che mi ha sempre colpito e affascinato sono i colori sgargianti delle stoffe e dei vestiti delle donne africane, in genere: icone bellissime di femminilità e sensualità. Un’esplosione di colori, di linee e disegni. Quest’anno 30 famiglie italiane hanno adottato altrettante famiglie Saharawi. Dignitose e fiere nella loro compostezza e deferenza ringraziano con lo sguardo e, nonostante il loro nulla, donano regali e piccoli oggetti artigianali da portare alle rispettive famiglie italiane che hanno deciso di sostenerle nelle loro difficoltà. Non nascondo che in quella mattinata ho vissuto momenti di vera commozione.
Fuori ancora il deserto, tende, baracche, il nulla, il vento, il sole, nessun albero e, in lontananza, un carretto trainato da un asino. Accanto dei bambini. Uno di loro ha uno zaino in spalla e, in italiano, mi dice: “Io madras”. Le scuole, in questo periodo, sono chiuse; evidentemente le scuole religiose no. Tuttavia, anche se di religione mussulmana, qui esiste un Islam moderato, più vissuto quotidianamente che non professato o reclamizzato a gran voce. Mi pare di non avere visto alcuna moschea, in nessun campo.
Proseguiamo la nostra visita di Dakhla recandoci all’ospedale comunale: anche questo isolato e sperduto nel nulla, tra dune di sabbia. Il responsabile ci fa visitare l’intero complesso … pensiamo ai nostri ospedali. Scopriamo che c’è anche una moderna sala operatoria … forse la nostra coscienza si placa un po’…
Ritorniamo alla nostra casa, dalla nostra famiglia. Abbiamo ancora un po’ di difficoltà a delineare le varie discendenze e parentele: figli, cugini, nipoti. Qui vige ancora il senso della “famiglia”. Nessun bambino sarà mai orfano perché ci sarà sempre qualcuno (della famiglia o vicino di casa) che si prenderà cura di lui. Cerchiamo di rispettare le regole e le tradizioni di questo fiero popolo: nei rituali, nei pranzi e nelle cene, nel rispetto dei bambini, delle donne e degli anziani.
Le stanze principali delle case sono confortevoli. Cuscini piccoli e grandi sono l’unico arredamento. Nei campi profughi non vi è nulla di definitivo perché basta il minimo indispensabile per sopravvivere bene. Lo ripetono da 44 anni da quando il controllo dei loro territori è passato dalla colonia spagnola a quella – illegale e sanguinaria – imposta dall’invasione marocchina nel 1976. Non utilizzare il cemento – qui – è una scelta politica. Una sera, all’imbrunire, i nostri piccoli amici ci hanno preso per mano e ci hanno portato a vedere la “casa delle bottiglie”. Un progetto di Tateh Lehbib per realizzare case con bottiglie di plastica riempite di sabbia. In tutti i campi ci sono 25 case realizzate in questo modo.
L’ultimo appuntamento, a Dakhla, sarà con le dune. Un naturale parco dei divertimenti … difficile dire quali siano state le emozioni e le sensazioni in quei momenti!!!
Lasciamo, a malincuore Dakhla. Forse è troppo dire che dopo soltanto due giorni ci siamo affezionati ma, si sa, non esistono regole del cuore. Alcuni dei bambini e bambine si nascondono o vanno lontano … hanno ragione: il saluto presuppone un distacco. Ma, ormai, un filo che ci terrà uniti per sempre è stato creato.
Ritorniamo a Auserd, a casa di Salek. È il 31 dicembre e solo la torta fatta da Kaltum “Welcome 2020” ci ricorda questa data. Per il pomeriggio è stata organizzata una festa con i bambini e bambine ospiti, nell’estate 2019, in alcuni comuni del Lazio. Rivederli lì mi fa un certo effetto … trattengo, molto spesso, l’emozione e, discorrendo in spagnolo, arabo e italiano, trascorriamo il pomeriggio tra risate, fotografie, giochi e sorrisi. Ho portato con me il gioco “Uno” e le carte da gioco italiane. Attorno ad un tavolo organizziamo giochi di prestigio (tre trucchi imparati da ragazzina da mio padre che riciclo sempre in queste particolari occasioni) e la famigerata “scopa” italiana così da esercitare un po’ di matematica e imparare i numeri. Disegniamo e coloriamo insieme. Regalo a Mariude e Rafia i libri “Piccolo blu e piccolo giallo” e “Tutti in coda”. I “silent book” (come socia IBBY) li ho utilizzati spesso con i migranti sia a Lampedusa, sia a Roma. E, anche qui, creano “ponti” inaspettati. La giornata sembra non avere più fine … rimani senza parole di fronte al rubeo tramonto, aspetti l’imbrunire e l’accensione del cielo, cerchi un po’ di solitudine (difficile da queste parti) per riflettere un po’ e per elaborare tutto ciò che si sta vivendo ma … all’interno già ci aspetta il “thè con il latte” della sera e le chiacchiere in famiglia.
Il giorno dopo è prevista la visita al “muro”: 2720 km di muro (di sabbia e fango) in pieno deserto; 20 mila km di sfilo spinato controllato a vista dall’esercito marocchino e 6 milioni di mine antiuomo e anticarro. Siamo un bel gruppo – scortati – e ben protetti. Nonostante tanti diktat e proclami – al mondo – ci sono ancora, troppi muri “dimenticati” e che dividono. Quasi due ore di vero “Camel Trophy” per arrivare nel punto consentito. Una Parigi-Dakar in piena regola … ma lo spirito con cui ci avviciniamo alla meta sicuramente è diverso. Scrutiamo i nostri amici Saharawi e vediamo, nel loro volto, nel loro sguardo, tutto il loro dolore, tutte le loro speranze. In religioso silenzio percorriamo un breve tratto del deserto … delimitato da alcune pietre per evitare le mine e … in lontananza vediamo piccoli minuscoli puntini neri. È l’esercito marocchino che ci ha visto da lontano. Si apre una bandiera della RASD e si fa il segno di vittoria con le dita. Un piccolo omaggio, da parte nostra, al loro sacrificio, alle loro scelte, alla loro vita.
Durante il ritorno ci fermiamo, in pieno deserto, per il pranzo. Il solito braciere per il thè, un piccolo fuoco acceso all’impronta, spiedini di carne di cammello, pane, datteri e “cous cous”. E tanta libertà, nonostante tutto.
È difficile tenere una sorta di diario di viaggio. Troppe le emozioni, le suggestioni, le impressioni. Forse la cosa migliore è lasciarsi trasportare da questo flusso ininterrotto di esperienze di vita, in un continuo altalenarsi tra idee acquisite, pregiudizi e smentite. Stiamo vivendo il “deserto”: uno dei luoghi più inospitali della Terra ma, nello stesso tempo, uno dei luoghi più ospitali (qui l’ospite è veramente “sacro”). Continua a leggere →

Francesco Mancuso, Oriolo Romano. Un borgo da raccontare (rec. di Brunella Bassetti)

08 martedì Gen 2019

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Brunella Bassetti, Francesco Mancuso, Lazio, Oriolo Romano, prosa, recensioni

Oriolo Romano. Un borgo da raccontare

a cura di Francesco Mancuso

Presentazione di E. Rallo – Prefazione di S. Lechiancole – Nota introduttiva di S. Risse – Introduzione e Lettera a Emiliano di F. Mancuso

Fogli di vita n. 18, Davide Ghaleb Editore, Vetralla 2018, pp. 180, Euro 12,00

         Se dovessimo raccontare la storia di Oriolo Romano secondo le categorie dello “storytelling”, gli ingredienti non mancherebbero di certo. Si potrebbe iniziare così: “C’era una volta un re illuminato che volle fondare il suo regno ideale tra boschi incantati e magici terreni. Chiamò a raccolta capannari provenienti da altri luoghi e, nel corso degli anni, per scegliere la bella tra le belle dovette combattere contro il temibile drago di San Giorgio …”, per proseguire fino ai giorni nostri mescolando, così, realtà e fantasia.

         Il nostro “acchiappa parole” biografo di comunità Francesco Mancuso, invece, lo fa con lo stile che più gli appartiene e seguendo le linee-guida della “Libera Università d’Autobiografia” di Anghiari. Come per la “Narrative Based Medicine”, raccontare di sé, recuperare la memoria del proprio passato è diventata, nel corso degli anni, “terapia” ma – soprattutto – uno strumento conoscitivo fondamentale per ri-tracciare storie che si credevano già note ed esaustive.

         In quest’epoca di presenzialismo social e digitale, dove il confine tra realtà e finzione, tra vita reale e virtuale è sempre più labile, è da apprezzare ancora di più la disponibilità delle persone intervistate a raccontare squarci della loro vita, flashback della loro infanzia, restituire – nel descriversi – anche momenti intimi di dolore, di sofferenza, di povertà, di disagio. Il risultato finale è di notevole pregio: il testo si legge piacevolmente anche grazie agli artefici descrittivi ed emozionali del nostro maestro scribacchino; ma, soprattutto, le fitte pagine suscitano curiosità e domande cui, inevitabilmente, si dovrà dare seguito. Dodici sono state le testimonianze raccolte come in una scala musicale maggiore passando per i diversi diesis e bemolle: ciascuno con la sua tonalità, con il suo registro, con il suo timbro più o meno acuto restituendo, però, nell’insieme un’immagine armonica e corale.

         L’appartenenza a una comunità nella diversità.

         Al di là del discorso “locale” o “campanilistico” (che pure ha una sua valenza e importanza storica e storiografica) ciò che ci dovrebbe far riflettere – dopo aver assaporato e quasi sentito profumi, colori, suoni, voci, odori – sono le “tematiche”, le varie “esperienze”, individuali e comunitarie, che le parole dei protagonisti ci lasciano in eredità. Così come alcuni “refrain” che, in maniera più o meno inconscia e, quindi, doppiamente significativi per il tessuto sociale, civile e produttivo del paese, hanno fatto da sfondo in diverse interviste. Solo per citarne alcuni: la fonderia Giampieri, il periodo bellico e il dopoguerra o i luoghi simbolo di questo paese, soprattutto architettonici – in primis il “Palazzo Altieri” – o naturalistici come la Faggeta, la Mola e Villa Altieri.

         Azzardandoci a percorrere un discorso più generale e che esca fuori dai confini territoriali – spaziali e temporali – di Oriolo Romano potremmo dire che “l’Italia è una Repubblica fondata sui comuni”.  Proprio partendo dalle esperienze dei piccoli centri, credo, sia possibile e urgente – oggi – ridisegnare la storia passata di questo Paese mediante la ricerca sempre più scientifica e costante di una memoria storica locale condivisa. Nello stesso tempo cercare di tracciare (o almeno tentare) le nuove coordinate di quello che potrebbe essere un futuro più sostenibile per le nuove generazioni (grazie anche a iniziative culturali di vario genere che possano diventare “volano” per favorire sempre più la partecipazione dei cittadini, di tutti i cittadini, ai vari processi di trasformazione e di evoluzione delle varie comunità in cui si vive).

         Tentare di ritrovare quegli spazi di socialità e di umanità che non sostituivano la piazza, il bar o la fraschetta, ma erano di fatto “agorà” di condivisione e di compartecipazione. Esercitare e fare “memoria” è un atto morale dovuto e, nello stesso tempo, un atto politico nel senso più nobile di questo termine.

         “Di questo ne sono certo. Se apriamo una lite tra il presente e il passato, rischiamo di perdere il futuro” … così diceva Winston Churchill.

Brunella Bassetti

(Chi ha scritto queste brevi note è legata per discendenze familiari e affettive al borgo narrato in questo delizioso e prezioso volume. Spero di esser riuscita a mantenere il giusto distacco e obiettività e quella dose di onestà intellettuale cui non bisogna mai rinunciare).

Silvano Tessicini, Battito d’ali (recensione di Brunella Bassetti)

31 mercoledì Gen 2018

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Brunella Bassetti, La Caravella editrice, letture, recensioni, romanzi, Silvano Tessicini

Silvano Tessicini, Battito d’ali, La Caravella editrice, Roma, 2017, pp.106

“Il tuo progetto è scritto nel palmo delle mie mani” (cfr. Isaia, 46, 15-16)

Bisogna diffidare di quelle persone che sostengono che un “grande” dolore (di qualsiasi natura esso sia) si possa superare. Ci si può convivere, ma è cosa ben diversa. È al pari di una modificazione genetica. Crea “disabilità” e si diventa “diversamente abili” nell’affrontare la vita. Si perde il senso della vita perché è la vita a non avere più senso, o almeno così sembra.
Il protagonista di questo romanzo – Sergio – ci narra la sua personalissima esperienza, il suo travaglio interiore, la sua lotta quotidiana, le sue emozioni e sensazioni legate al superamento, all’accettazione della morte improvvisa, per un tragico incidente, della sua piccola figlia Andrea.
Un tema su cui si è scritto molto e si continuerà a scrivere, negli ultimi anni anche su basi scientifiche, grazie all’evolversi di metodiche specialistiche quali la “Narrative Based Medicine”.
L’Autore di questo breve ma intenso romanzo lo fa alla sua maniera attingendo dalla sua vita privata e professionale mezzi e strumenti di narrazione che gli appartengono. Arte cinematografica, pittura, poesia sono le quinte di questa vicenda umana, fanno da sfondo al lutto di Sergio ma, nello stesso tempo, accompagnano il lettore – o meglio fanno da eco – a quelle domande universali legate al senso della vita e, quindi, inevitabilmente anche al senso della morte. Anche i momenti più tragici e drammatici di questo percorso sono descritti con una delicatezza rara e con rispetto umano. È un tunnel che si deve attraversare, percorrere se si vuole ritornare a vedere la luce. Il dolore va accolto, va amato nelle sue mille sfaccettature, non bisogna farsi sconti anche quando l’estrema decisione appare, esclusivamente, come l’unica soluzione salvifica.
A una prima lettura si è catturati dalla storia di Sergio, dai suoi pensieri, dalla sua disperazione; rileggendolo, tuttavia, si può notare come alla fine sia – anche – un romanzo corale dove tutti i protagonisti (o co-protagonisti) stiano attraversando un loro particolare momento della vita.
Molto interessante, dal punto di vista narrativo e descrittivo, l’escamotage di citare alcuni quadri famosi per fissare, come in un piano sequenza, la sensazione del momento. Tre quadri per rappresentare altrettanti stati d’animo del protagonista: “La città che sale” del futurista Boccioni per l’estremo senso di solitudine e di vuoto; il “Cristo morto” del Mantegna che, forse, insieme al “Cristo velato” della Cappella Sansevero di Napoli, è la rappresentazione più bella e vera della deposizione. Una prospettiva diversa nel “vedere” il corpo esamine della figlioletta all’obitorio. Ma, come si sa, la tragicità del sudario è uguale a se stessa in ogni epoca e in ogni dove. Infine, “L’urlo” di Munch: la disperazione.
Scenograficamente parlando due sono i momenti che hanno catturato di più la mia attenzione e immaginazione. Il primo, nelle prime pagine ambientate a San Candido, quando viene descritta la messa in scena della sacra rappresentazione della Pasqua. Mi è tornato in mente il film “La Passione” di Mazzacurati. Sono pagine molto forti e anche molto intense: l’eterno dilemma di conciliazione tra la nostra e la volontà di Dio. Ma quale volontà di Dio? Giuda è stato funzionale al piano della Salvezza ma sarà stato “salvato” in un gesto estremo di misericordia dal Padre? “Perché Dio lo aveva risparmiato mentre Giuda aveva consumato nel suicidio la sua disperazione?” (cfr. pag. 32). Continua a leggere →

Gaia Spera, Distanze (recensione di Brunella Bassetti)

03 martedì Ott 2017

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3 ottobre 2013, A.P.N. editrice, AfricanPeopleNews, Brunella Bassetti, Gaia Spera, immigrazione

Gaia Spera, Distanze,  A.P.N. (AfricanPeopleNews), Roma, 2017, pp. 48

Sentire come una perdita la morte
Di coloro che non abbiamo mai visto –
Implica una Vitale Affinità
Fra la nostra Anima – e la loro –
Per l’Estraneo – gli Estranei non si piangono –
(E. Dickinson, Poems, trad. G. Ierolli)

Il 3 ottobre si celebra la “Giornata della Memoria e dell’Accoglienza” (istituita dalla Legge 45/2016) con lo scopo di ricordare e commemorare tutte le vittime dell’immigrazione e promuovere iniziative di sensibilizzazione e solidarietà.
Una data dall’alto contenuto simbolico che ricorda il giorno in cui – nel 2013 – 368 persone tra bambini, donne e uomini persero la vita in un naufragio a largo dell’isola di Lampedusa.
Qualche giorno dopo l’immane tragedia mi sono trovata sulla “zattera d’Europa” per un campo di volontariato con l’associazione Ibby Italia. E, naturalmente, le emozioni vissute attraverso i media si sono amplificate e sono diventate cassa di risonanza in quei giorni intensi vissuti a stretto contatto con la popolazione – locale e immigrati – di questo scoglio (sinonimo alternativamente di morte e/o di solidarietà e accoglienza) in mezzo al Mediterraneo.
“Nel villaggio, quando i bambini vivevano in povertà, arrivò un re che schiavizzò tutte le persone. Un giorno, il figlio del re Giasone XVII si recò dagli schiavi e disse loro: “Scappate! Ma prima costruiremo dei robot che vi somigliano; così ogni volta che mio padre – il re – darà dei colpi di frusta loro si ribelleranno e alla fine lo uccideranno” … Allora il principe con le poche informazioni che aveva ricevuto mise delle telecamere nella loro vita … Allora in città c’era un funerale ma era un inganno. Era una finzione … non si sa quello che accadrà dopo … (La corona misteriosa)”.
Quello riportato sopra è lo stralcio di un racconto scritto da una bambina delle elementari durante un nostro laboratorio. In un certo senso è la “trasfigurazione” fantastica di quello che in quei giorni, in quelle settimane non solo gli adulti ma anche i bambini avevano vissuto e sofferto. Continua a leggere →

Martina Cecilia Salza, Verde muschio, recensione di Brunella Bassetti

30 sabato Set 2017

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Brunella Bassetti, Ghaleb Editore, letture, Martina Cecilia Salza, recensioni, romanzi

Martina Cecilia Salza, Verde muschio
Latitudini 22, Davide Ghaleb Editore, Vetralla 2017, pp. 248

Verde muschio non è un romanzo biografico o autobiografico nel senso classico che la critica attribuisce a tale termine. È un romanzo, una storia – direi più storie – che s’intrecciano e si dipanano attraverso il racconto e i “sogni” di una delle due protagoniste – Matilde – per approdare ad “altro”. L’idea di fondo prende sviluppo da vicende e avvenimenti familiari della scrittrice, che s’innestano e si fondono simbioticamente con la storia locale del territorio e la storia universale, in generale.
Volendo semplificare, ma soltanto per illustrare meglio ciò che questo romanzo è realmente, si potrebbe affermare che grazie alla sua struttura narrativa, al modo come la vicenda si sviluppa, può senz’altro essere definito un romanzo di “iniziazione” e/o “psicologico”. Per altri versi, invece, rispetta le regole classiche del romanzo “storico” e del romanzo “giallo”. Potrebbe essere considerato, anche, un romanzo “doppio” (una macrostoria nella microstoria e viceversa): nel senso che le due vicende, quella di Matilde e quella di Angela (ecco l’altra protagonista) potrebbero leggersi l’una indipendentemente dall’altra. Ma, sicuramente, è anche altro.
L’intera vicenda si svolge, prevalentemente, tra Parigi e l’Antichissima Città di Sutri (che, peraltro, insieme al suo aggettivo relativo, viene citata pochissime volte nelle quasi 250 pagine del testo), per “ritrovare” e dare un senso alle proprie radici. La potremmo definire anche una “letteratura migrante”, un ritorno – forzato e inconscio – nel ventre caldo e fecondo del proprio paese natio e dei suoi misteri.
In alcune guide turistiche, ormai datate (primi anni ’50), di Sutri troviamo scritto: “Quello che oggi resta della grande Città non è che la Cittadella ossia la fortezza. I cinque borghi che la componevano, spazzati via dal tempo ineffabile si sono persi ormai fra i canneti delle vallate” e “Poche rovine, disperse dovunque nel vasto territorio, testimoniano ancora l’antica grandezza che il muschio e l’edera nasconde e custodisce tra il verde”. Uno dei tanti meriti che riconosciamo alla scrittura evocativa di Martina Salza è senz’altro quello di averci riportato e fatto conoscere parte di “questi borghi” in un particolare momento storico – il Medioevo – che ancora tanto ha da insegnarci. La descrizione minuziosa e dettagliata della vita quotidiana, la caratterizzazione dei vari personaggi, la verosimiglianza (frutto di una ricerca storiografica durata vari anni) delle situazioni ci accompagnano verso la conoscenza ma anche verso la risoluzione del “mistero”. Continua a leggere →

Letture a due voci, 5: Sandra Luigia Rebecchi, E adesso statemi a sentire

25 venerdì Mar 2016

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Alzheimer, Brunella Bassetti, Fondazione Paolo Procacci, Laura Vazzana, Letture a due voci, Nulla Die editore, recensioni, romanzi, rubriche, Sandra Luigia Rebecchi

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Sandra Luigia Rebecchi, E adesso statemi a sentire (Editore: Nulla Die, 2015, Collana: Lego/Narrativa. Brossura, Pagine 191-Prezzo € 18,00, ISBN 978-88-6)

 

        “Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé come le pagine di un libro imparato a memoria e di cui gli amici possono solo leggere il titolo” (Virginia Woolf)

 

         Questa potrebbe essere la definizione letteraria per descrivere le persone colpite dalla patologia dell’Alzheimer. Questa malattia, più di tante altre, costituisce per la scienza medica ancora un mistero e per i familiari un tabù nonostante si cerchi, da alcuni anni, di focalizzare sempre più l’attenzione e la cura sulla persona piuttosto che sul malato. Ciò che la rende diversa dalle altre patologie è il particolare tipo di rapporto che si crea tra malato e familiari. Tutti i sentimenti sino allora sperimentati vengono accantonati, messi a tacere e paiono poca cosa: è una nuova relazione quella che s’instaura basata soprattutto, paradossalmente, sulla donazione e conoscenza reciproca. Il malato esige (o ha diritto) di sentirsi ancora amato e ancora voluto. È una persona, una vita intera a essere imprigionata in una mente colpita dall’oblio e da un corpo colpito da corti circuiti.

         E la sofferenza (quella propria dei caregivers) diventa un’esperienza in cui il dolore non è più un problema da risolvere o che fa orrore ma un “mistero da vivere e condividere” insieme. È un percorso lungo, difficile che quando non trova completa soluzione nell’approccio medico diventa una sfida per la ragione e per la fede. Bisogna continuare ad amarli con la compassione che nasce dall’amore e non dal nostro timore. E allora, quale strada seguire per star loro vicino? Lasciarsi pervadere dalle emozioni: sperimentarle, provarle, viverle fino in fondo anche se fanno male.

         Raccontare, narrare questa patologia è possibile? È possibile – per chi scrive – raccontare con obiettività, lucidità e tenerezza quella particolare situazione che ha vissuto in prima persona? Ci prova Sandra Luigia Rebecchi nel suo interessante (da più punti di vista) romanzo E adesso statemi a sentire, una storia di fantasia che parte da una situazione autobiografica per approdare, in alcuni punti, alla Narrative Based Medicine.

         La storia di Rina che si racconta in prima persona mentre la sua malattia progredisce inesorabilmente rappresenta la triste realtà della sua patologia ma anche la metafora della nostra malattia: il rapporto ambiguo e, spesso, ambivalente che abbiamo nei confronti della nostra vita, delle nostre scelte, dei nostri ricordi. La scrittura piana e, nello stesso tempo, profonda; l’uso ripetitivo e continuato di domande accompagna il lettore in questo dramma familiare riuscendo (e, forse, questo è il maggior pregio che riconosciamo) a creare un’atmosfera di coinvolgimento e di straniamento. Leggiamo, pensiamo, riflettiamo, ricordiamo, ci commuoviamo e ci allontaniamo perché sappiamo e riusciamo a percepire che, a volte, soltanto il Dolore ci permette di conoscere l’abisso più profondo del nostro essere.

         “Senza di lei e senza la sua malattia, non avrei potuto conoscere alcune realtà, non avrei potuto vivere in profondità alcuni sentimenti” (pag. 190).

(Molto apprezzabile anche la bibliografia di riferimento).

© Brunella Bassetti, Fondazione Paolo Procacci

Il libro E adesso statemi a sentire di Sandra Rebecchi si avventura con coraggio nel terreno misterioso e poco esplorato in letteratura della malattia di Alzheimer. Ma non solo. Io estenderei questa considerazione alla vecchiaia in generale. Altro argomento di cui non sembra politicamente corretto parlare o scrivere, in una società come la nostra in cui bisogna essere giovani, belli e in salute perché solo così si può tenere il ritmo frenetico che domina la vita moderna.

Sandra Rebecchi scopre con il dovuto rispetto il mondo lento degli anziani ed è davvero una novità. Ne mette in risalto la ricchezza interiore, il vissuto pieno di esperienze spesso difficili, di ostacoli da superare, l’umanità, l’abbandono di sovrastrutture ipocrite, la spontaneità.

Il lettore segue pagina dopo pagina l’evolversi della malattia di Rina, amorevolmente accudita dalle figlie, che con paziente dolcezza la stanno a sentire, come recita il titolo dell’opera, e la comprendono. I ruoli si sono invertiti ma il filo del sentimento profondo tra loro non si è spezzato. E di amore nel libro ce n’è tanto. Rina stessa ha amato tanto nella vita e ama ancora. Non riesce più a parlare del bene che prova, ma lo prova. La mente non va più di pari passo con il cuore e si perde a rincorrere episodi di un passato lontano che tornano nitidi. Il fisico sta cedendo ma la stanchezza prevarrà sulla voglia di vivere solo dopo un’ultima definitiva lotta.

La dedizione dei familiari è il mezzo attraverso il quale Rina rimane fino all’ultimo giorno una persona. Articola a stento le parole, non ricorda le cose più semplici, cosa ha fatto, cosa ha mangiato, non riconosce la casa, ma conserva la dignità. Questo è ciò di cui spesso ci si dimentica.

Un anziano, anche se è malato, ha vissuto, porta dentro un bagaglio personale immenso, ha creato, ha dato e resta uno di noi, fa parte della nostra famiglia e ha ancora insegnamenti preziosi per noi, se abbiamo la delicatezza d’animo per coglierli.

Fino al suo ultimo respiro.

Grazie a Sandra Rebecchi per l’implicito delicato monito a non trascurare fino alla fine il tesoro inestimabile rappresentato dai nostri ‘vecchi’.

© Laura Vazzana

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