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Letture a due voci, 5: Sandra Luigia Rebecchi, E adesso statemi a sentire

25 venerdì Mar 2016

Posted by letteremigranti in Brunella Bassetti, Laura Vazzana, Letture a due voci, Memoria, Romanzi, Rubriche, Sandra L. Rebecchi

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Alzheimer, Brunella Bassetti, Fondazione Paolo Procacci, Laura Vazzana, Letture a due voci, Nulla Die editore, recensioni, romanzi, rubriche, Sandra Luigia Rebecchi

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Sandra Luigia Rebecchi, E adesso statemi a sentire (Editore: Nulla Die, 2015, Collana: Lego/Narrativa. Brossura, Pagine 191-Prezzo € 18,00, ISBN 978-88-6)

 

        “Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé come le pagine di un libro imparato a memoria e di cui gli amici possono solo leggere il titolo” (Virginia Woolf)

 

         Questa potrebbe essere la definizione letteraria per descrivere le persone colpite dalla patologia dell’Alzheimer. Questa malattia, più di tante altre, costituisce per la scienza medica ancora un mistero e per i familiari un tabù nonostante si cerchi, da alcuni anni, di focalizzare sempre più l’attenzione e la cura sulla persona piuttosto che sul malato. Ciò che la rende diversa dalle altre patologie è il particolare tipo di rapporto che si crea tra malato e familiari. Tutti i sentimenti sino allora sperimentati vengono accantonati, messi a tacere e paiono poca cosa: è una nuova relazione quella che s’instaura basata soprattutto, paradossalmente, sulla donazione e conoscenza reciproca. Il malato esige (o ha diritto) di sentirsi ancora amato e ancora voluto. È una persona, una vita intera a essere imprigionata in una mente colpita dall’oblio e da un corpo colpito da corti circuiti.

         E la sofferenza (quella propria dei caregivers) diventa un’esperienza in cui il dolore non è più un problema da risolvere o che fa orrore ma un “mistero da vivere e condividere” insieme. È un percorso lungo, difficile che quando non trova completa soluzione nell’approccio medico diventa una sfida per la ragione e per la fede. Bisogna continuare ad amarli con la compassione che nasce dall’amore e non dal nostro timore. E allora, quale strada seguire per star loro vicino? Lasciarsi pervadere dalle emozioni: sperimentarle, provarle, viverle fino in fondo anche se fanno male.

         Raccontare, narrare questa patologia è possibile? È possibile – per chi scrive – raccontare con obiettività, lucidità e tenerezza quella particolare situazione che ha vissuto in prima persona? Ci prova Sandra Luigia Rebecchi nel suo interessante (da più punti di vista) romanzo E adesso statemi a sentire, una storia di fantasia che parte da una situazione autobiografica per approdare, in alcuni punti, alla Narrative Based Medicine.

         La storia di Rina che si racconta in prima persona mentre la sua malattia progredisce inesorabilmente rappresenta la triste realtà della sua patologia ma anche la metafora della nostra malattia: il rapporto ambiguo e, spesso, ambivalente che abbiamo nei confronti della nostra vita, delle nostre scelte, dei nostri ricordi. La scrittura piana e, nello stesso tempo, profonda; l’uso ripetitivo e continuato di domande accompagna il lettore in questo dramma familiare riuscendo (e, forse, questo è il maggior pregio che riconosciamo) a creare un’atmosfera di coinvolgimento e di straniamento. Leggiamo, pensiamo, riflettiamo, ricordiamo, ci commuoviamo e ci allontaniamo perché sappiamo e riusciamo a percepire che, a volte, soltanto il Dolore ci permette di conoscere l’abisso più profondo del nostro essere.

         “Senza di lei e senza la sua malattia, non avrei potuto conoscere alcune realtà, non avrei potuto vivere in profondità alcuni sentimenti” (pag. 190).

(Molto apprezzabile anche la bibliografia di riferimento).

© Brunella Bassetti, Fondazione Paolo Procacci

Il libro E adesso statemi a sentire di Sandra Rebecchi si avventura con coraggio nel terreno misterioso e poco esplorato in letteratura della malattia di Alzheimer. Ma non solo. Io estenderei questa considerazione alla vecchiaia in generale. Altro argomento di cui non sembra politicamente corretto parlare o scrivere, in una società come la nostra in cui bisogna essere giovani, belli e in salute perché solo così si può tenere il ritmo frenetico che domina la vita moderna.

Sandra Rebecchi scopre con il dovuto rispetto il mondo lento degli anziani ed è davvero una novità. Ne mette in risalto la ricchezza interiore, il vissuto pieno di esperienze spesso difficili, di ostacoli da superare, l’umanità, l’abbandono di sovrastrutture ipocrite, la spontaneità.

Il lettore segue pagina dopo pagina l’evolversi della malattia di Rina, amorevolmente accudita dalle figlie, che con paziente dolcezza la stanno a sentire, come recita il titolo dell’opera, e la comprendono. I ruoli si sono invertiti ma il filo del sentimento profondo tra loro non si è spezzato. E di amore nel libro ce n’è tanto. Rina stessa ha amato tanto nella vita e ama ancora. Non riesce più a parlare del bene che prova, ma lo prova. La mente non va più di pari passo con il cuore e si perde a rincorrere episodi di un passato lontano che tornano nitidi. Il fisico sta cedendo ma la stanchezza prevarrà sulla voglia di vivere solo dopo un’ultima definitiva lotta.

La dedizione dei familiari è il mezzo attraverso il quale Rina rimane fino all’ultimo giorno una persona. Articola a stento le parole, non ricorda le cose più semplici, cosa ha fatto, cosa ha mangiato, non riconosce la casa, ma conserva la dignità. Questo è ciò di cui spesso ci si dimentica.

Un anziano, anche se è malato, ha vissuto, porta dentro un bagaglio personale immenso, ha creato, ha dato e resta uno di noi, fa parte della nostra famiglia e ha ancora insegnamenti preziosi per noi, se abbiamo la delicatezza d’animo per coglierli.

Fino al suo ultimo respiro.

Grazie a Sandra Rebecchi per l’implicito delicato monito a non trascurare fino alla fine il tesoro inestimabile rappresentato dai nostri ‘vecchi’.

© Laura Vazzana

Letture a due voci, 3: Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno

28 giovedì Gen 2016

Posted by letteremigranti in Recensioni, Romanzi, Rubriche

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edizioni e/o, Laura Vazzana, Letture a due voci, Patrizia Rinaldi, recensioni, romanzo, rubriche, Sandra Luigia Rebecchi

Rinaldi_Prima_di_giugno

 

Patrizia Rinaldi, MA GIA’ PRIMA DI GIUGNO, edizioni e/o, 2015

Alla lettura del romanzo Ma già prima di giugno, di Patrizia Rinaldi, non si può restare indifferenti.

La cosa che colpisce fin dalle prime pagine è il linguaggio: una prosa secca, asciutta, ma capace di staffilate improvvise, un linguaggio letterario sapiente, che trasmette l’ansia delle due protagoniste di raccontarsi, di far sentire ad altri il proprio dolore, ma, allo stesso tempo, di gridare la testarda tenacia nel voler vivere appieno tutto ciò che il destino ha in serbo per loro.

Patrizia Rinaldi sceglie di raccontare la vita di due donne, una madre e sua figlia. Ci spiega lei stessa in una nota la struttura del romanzo: si tratta di due percorsi paralleli che si troveranno a convergere e a raccordarsi solo nelle ultime pagine.

Le storie narrate sono diverse:  Maria Antonia, la madre, ha vissuto sulla sua pelle gli orrori della guerra, è fuggita da Spalato, ha perso il marito nelle foibe, ha visto partire i suoi fratelli per i campi di lavoro. Quello che la tiene in vita, che la spinge a combattere è la voglia di riscatto, il desiderio di prendersi quello che la vita le ha negato. Bella e sfacciata, dà scandalo, mentre sfida la miseria. Si conquisterà in età avanzata l’amore di un giovane studente e dal loro rapporto nascerà Ena, la seconda protagonista del romanzo.

Mentre la storia di Maria Antonia viene raccontata in terza persona, è Ena stessa ormai anziana a descrivere la sua realtà.È confinata in un letto e il suo mondo è limitato alla stanza dove è immobilizzata. La assiste una giovane slava, che Ena chiama sprezzantemente Abbadessa. Il rapporto delle due donne è un difficile continuo scontro. La sfrontatezza di Ena sfida la morte,  la sfida parlando di sesso, del suo corpo che si disfa giorno dopo giorno; Ena rifiuta gli atteggiamenti più comuni in una anziana per scegliere di sbeffeggiare tutti, compresa se stessa e il suo destino. Le fa da contrappunto il silenzio ostinato della ragazza, che tenta di mantenere un rapporto distaccato con la malattia, pronunciando il minimo indispensabile di parole, generando regole di vita e chiudendosi in un guscio protettivo.

Ci sono molte altre figure femminili nel racconto. Oltre Maria Antonia, Ena e l’Abbadessa compaiono una Monaca, la portinaia e altre; in particolare Giuseppina, amica di infanzia di Ena, che ormai parla a malapena: proprio lei assisterà alla sua fine e la vivrà come un tradimento.

Nell’ombra, appena tratteggiate, le figure maschili, che, una volta chiuso il libro, si dimenticano.

Il romanzo di Patrizia Rinaldi è storia di donne. Sono donne forti e decise, che hanno il coraggio di tradire i ruoli che la vita ha loro assegnato e guardano in faccia il destino, quando non lo conoscono e lo sfidano e quando lo conoscono e lo sfidano ugualmente. Il femminile che c’è in queste pagine è vario, ma pieno di forza e di speranza per il futuro, è un femminile che non si arrende, che combatte quando vince e quando perde, non facendosi inutili domande, vivendo giornata dopo giornata senza ripensamenti, con una decisione che nulla scalfisce. Perché “vivere vale la pena!”

Un bel romanzo, da leggere e rileggere per afferrare veramente tutto quanto, scritto o sotteso, ci racconta Patrizia Rinaldi.

© Sandra L. Rebecchi

Ma già prima di giugno è un altro esempio della scrittura calda, avvolgente, appassionata e passionale di Patrizia Rinaldi.

Nel delineare i tratti delle due protagoniste, la madre Maria Antonia da giovane e la figlia Ena da vecchia, l’autrice crea due personalità diametralmente opposte, dotate entrambe di realismo,  ma in modo diverso.

Le storie proseguono parallelamente, una nel passato e l’altra nel presente, una in terza persona, l’altra in prima. La figlia è sempre stata un po’ vecchia in fondo, mentre la madre non invecchierà nello spirito mai. Eppure si è dovuta confrontare con gli orrori e la miseria della guerra, ma forse proprio per questo è tenacemente attaccata alla vita, anche se con la vita è arrabbiata. “Troppo selvatica per morire” la definisce il marito Augusto, che non tornerà più dal fronte.

Nell’attesa sfibrante di sue notizie certe, Maria Antonia è preda di sentimenti oscillanti, vorrebbe credere in un ritorno, ma la ragione le suggerisce di non coltivare speranze impossibili. Lo sogna vivo sapendo, in cuor suo, che è morto.

Con poche nitide parole, l’autrice ci fa vedere Maria Antonia di fronte alla crudele verità: “un altro pezzo di lei era diventato pietra”. Nonostante tutto, rimasta sola, si rialza, lotta e raggiunge i suoi obiettivi.

La figura di Ena, alla vivacità della madre, contrappone il cinismo di chi non si aspetta nulla. Forzata a letto da una seria frattura, ha un immaginario appuntamento con la morte per giugno e intanto ricorda e commenta aspra, provocatoria e disincantata.

Tuttavia, qua e là, la vediamo cedere alla tenerezza, ma è una tenerezza che preferisce tenere per sé. Verso il figlio, ad esempio: “vorrei dirgli che lo amo perdutamente, nel modo sbagliato di una qualsiasi Filomena”. Verso l’amica di una vita, Giuseppina. E verso la sorella che non c’è più.

La storia di Maria Antonia si chiude con la nascita di Ena, quella di Ena con la propria morte.

Mirabile quadratura del cerchio.

© Laura Vazzana

Qui la mia lettura di Ma già prima di giugno.

Letture a due voci, 2: Claudio Pescetelli, Roma Beat

06 mercoledì Gen 2016

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Laura Vazzana, Musica, Prosa, Recensioni, Rubriche, Storia

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Anna Maria Curci, Beat, Beatles, Claudio Pescetelli, golpe Borghese, Il vicario, Laura Vazzana, Letture a due voci, musica, Per le strade di Roma, Piper, Poetarum Silva, prosa, recensioni, Rolf Hochhuth, rubriche, storia, Teatro Adriano, teatro off, underground

ROMA BEAT - copertina prima

Claudio Pescetelli, Roma Beat, Zona editrice 2015

Con il suo libro “Roma Beat”, Claudio Pescetelli ha scritto pagine della storia d’Italia. Una storia piuttosto recente, per molto tempo trascurata, come spesso avviene con le cose a portata di mano. Qui non si parla della grande America, si parla di Roma, di come Roma, negli anni ’60, ha rivisitato e vissuto a modo suo stimoli creativi e culturali, offrendoli a un vasto pubblico. Di giovani, naturalmente, perché i giovani rappresentano da sempre la parte ricettiva della società.

Noi che eravamo bambini o ragazzi negli anni ’60 non possiamo non provare un senso di nostalgia, non possiamo non aver conosciuto direttamente o indirettamente una bella fetta dei nomi citati con grande cura e studio dall’autore, degli artisti, come pure dei locali. Che spesso erano locali per modo di dire. Mentre gli artisti neanche si immaginava che, alla distanza, avrebbero costituito capitoli importanti della musica rock italiana.  Prendo ad esempio il mitico Renato Zero. Ora è riconosciuto universalmente un grande, uno che ha ancora molto da dire, i cui concerti sono autentici spettacoli, allora si notava perché era un personaggio e proprio per questo non aveva vita facile.

Per i ragazzi di oggi la lettura di “Roma Beat” è utile e istruttiva perché riporta dettagliatamente il clima particolare di voglia di sperimentare che abbracciava le nuove generazioni, pure se in un momento storico in cui il cosiddetto ‘gap’ con gli adulti era davvero profondo. Eppure, nei condomini, non erano rare le cantine allestite a salette per suonare, insonorizzate alla meglio con le scatole delle uova. Chi poteva, metteva i soldi da parte per comprarsi una chitarra. Si suonava sul prato con gli amici, cercando gli accordi giusti, imitando gli artisti veri.

Con l’aderenza al reale dello storico, l’autore non trascura, tuttavia, di mettere in evidenza come, nonostante gli slogan sulla pace gridati con forza, cominciasse purtroppo ad aprirsi un varco anche il lato buio del cambiamento.

©Laura Vazzana

Immaginate di poter proseguire, attraverso la lettura di un libro, una conversazione che avete iniziato, appena ventenni, con un amico. Quella conversazione, come avveniva spesso, verteva sui ricordi, ancora molto freschi, che provenivano dai banchi di scuola. Immaginate che quella scuola di cui vi raccontava l’amico sia la scuola nella quale insegnate da tanti anni. Immaginate di aver conosciuto e apprezzato, come colleghi, alcuni dei professori del vostro amico. Immaginate, ancora, che quella conversazione, che partiva dai banchi di scuola, si allargasse immediatamente alle passioni comuni, o meglio “alla” passione per eccellenza, quella per la musica, quella che vi spingeva, tra l’altro, a trascorrere la domenica mattina nella galleria semibuia che collega Piazzale della Radio con il dispiego di colori delle bancarelle di Porta Portese. A far cosa? Ma a scambiare vinili, sfiancati dall’ascolto e sempre inseguiti e curati, a cos’altro?  La passione per la musica che vi faceva sussurrare o gridare (a mo’ di quel “Klopstock” pronunciato ne I dolori del giovane Werther) il nome di gruppi sentiti come propri grazie al piacere della ricerca e della scoperta. Immaginate di leggere Roma Beat di Claudio Pescetelli e trovare, ampliato e amplificato, con un suono nitido, il tono familiare e sempre nuovo di quella conversazione. Se immaginate tutto questo, comprenderete la gioia nel percorrere questo “ponte della musica” visionario e tuttavia assai concreto. Roma Beat è una cronaca appassionata e documentata fin nel minimo dettaglio non solo della scena underground, dell’universo beat a Roma, dal 13 febbraio 1965 all’11 ottobre 1970, ma anche del contesto sociale e politico in cui si muovono i giovani che danno vita in quegli anni a locali, concerti, teatri e cinema off. Non troverete soltanto notizie – una fucina pressoché inesauribile, comunque – sulla storia dell’apertura del Piper e sulla prima volta dei Beatles a Roma, per la precisione al Teatro Adriano, ma anche particolari e testimonianze su soffiate di quotidiani della capitale, sgomberi e fermi in occasione della prova generale della pièce di Hochhuth, Il vicario,  opera e operazione che scatenarono rumorosissime polemiche e sordi interventi di censura, sui “capelloni”  che stazionavano sulla scalinata di Trinità dei Monti, tenuti a distanza e perfino temuti dai benpensanti, i quali reclamavano a gran voce l’intervento della polizia, su manifestazioni e repressioni, su proteste e pacifismo, sulla guerra del Vietnam, sui depistaggi dei servizi segreti sulla strage di piazza Fontana, sui preparativi del golpe di Junio Valerio Borghese.

“Se vuoi, dai voce alla storia”, scrivevo qualche anno fa a Berlino, in occasione dei 50 anni dalla costruzione del muro.  In Roma Beat Claudio Pescetelli ha dato voce alla storia, con la cronaca di un cambiamento epocale che si è manifestato in particolare attraverso la musica e la sua ricezione.*

© Anna Maria Curci

CLAUDIO PESCETELLI è nato nel 1960 a Roma, dove vive. Appassionato e studioso degli anni sessanta e settanta, alle culture e alla musica di quegli anni dal 1991 ha dedicato le fanzine Born Loser e Mondo Capellone. Ha sinora pubblicato otto libri, sei di argomento musicale – Ciglia ribelli (I libri del Mondo Capellone, 2003), Una generazione piena di complessi (Zona Editrice, 2006), i tre volumi di Nudi & crudi (I libri del Mondo Capellone, 2010, 2011 e 2012) e Lo stivale è marcio (Rave Up Books, 2013) – e due romanzi, Le tribù (Zona Editrice, 2009) e Strada statale (I libri del Mondo Capellone, 2011).Ha disegnato copertine di dischi per i gruppi The Garbages e The Others, e collaborato con le riviste Bassa Fedeltà, Misty Lane, Vintage e Jamboree.

*la lettura di Anna Maria Curci è apparsa in anteprima su Poetarum Silva, qui

Letture a due voci, 1: Patrizia Rinaldi, Rosso caldo

15 martedì Set 2015

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Letture a due voci, Narrativa, Recensioni, Romanzi

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Anna Maria Curci, edizioni e/o, letture, Patrizia Rinaldi, recensioni, romanzi, rubriche

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Patrizia Rinaldi,  Rosso caldo, edizioni e/o, 2014

Leggendo Rosso caldo di Patrizia Rinaldi si respira Napoli. Una Napoli autentica, abbracciata dal suo mare e accarezzata dal suo vento carico di profumi quotidiani, quello del pane, quello dei fiori, quello della pioggia.
Si è raggiunti con naturale semplicità da un girotondo di personaggi di varia umanità, dipinti a tinte allegre e vivide come pure più fosche, a formare un quadro di realtà. Con loro si ride e si piange.
Il mistero della trama, avvincente e fluida, conduce tra le strade, tra i palazzi, dentro le case, illustrato da piccoli eppure indimenticabili cenni descrittivi di luoghi dall’atmosfera particolare, come il “pezzo di passato, sopravvissuto non si sa perché” che ospitava il basso della casa delle cugine Rosselli.
L’introspezione dei personaggi, più delineata nei capitoli monologo ad essi dedicati, prosegue per tutta l’opera con pensieri intimi e osservazioni che rendono familiari quei volti solo immaginati. I fatti del commissariato di Pozzuoli e degli altri che ruotano intorno alla vicenda coinvolgono per la veridicità e si seguono con ansia.
Una menzione particolare, certamente, va alla contraddittoria e difficile relazione tra Blanca, la sovrintendente, e l’ispettore Liguori. Si amano ma si fuggono. Si cercano ma si evitano in un’alternanza di paura, sentimento profondo, vigliaccheria e attrazione. Blanca, ipovedente, soffre perché lui le sussurra parole stupende e poi sparisce. Vorrebbe troncare ma lo sente fortemente in tutto il suo essere. Sente il suo amore scombinato e incoerente, ne ha bisogno ma non può permettersi il dolore che prova. «Mi levi forza, Liguori, mi fai molla di carne viva, senza pelle».
E poi c’è Ninì, figlia adottiva di Blanca. Sembra di vederla, chiusa nel ripostiglio della scuola, sola con la sua vita tormentata, lontana anni luce dai compagni e dai professori, pieni di atteggiamenti e idee che non la toccano. Anche Ninì ama Blanca in modo contraddittorio, di un sentimento spaccato a metà ma vero.
Come non affezionarsi a loro?
Servendosi di un linguaggio immediato e spontaneo, l’autrice dissemina le pagine del romanzo di brevi frasi di una saggezza universale e antica che, dalle labbra dei personaggi, vanno dritte all’anima del lettore per restarvi.
«Evitare il dolore equivale a evitare la vita».
«Ospedali, carceri e roba simile… mi sembrano meno finti di tutto il resto».
Questo libro possiede un requisito essenziale: dispiace quando si arriva all’ultima pagina.
Da leggere.

©Laura Vazzana

*

Con Blanca e la sua percezione ‘altra’, superiore e dolorosa, tornano il commissario Martusciello e la sua saggezza mal conciata dalla vita, l’ispettore Liguori,  che pratica l’arte dell’investigazione come i nobili avi coltivavano l’otium, ma che qui vacilla tra crisi latente e palese,  l’agente scelto Carità con le sue teorie irresistibili, tornano splendori e miserie di Napoli e Pozzuoli, veri personaggi di primo piano.  Misteri e delitti corrono affiancati e paralleli, le mura di palazzi storici gemono, uditi solo da chi è in grado di sentirli, con un talento nato, forse, proprio dall’esclusione.  L’amore, «lasciato lì con le zampe che si muovono ancora», reclama la sua parte sin dai versi di Raboni in epigrafe.

©Anna Maria Curci

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