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Herta Müller, Cuoreanimale. Lettura di Cristina Polli

Il dovere della memoria. La scena frantumata.

Cuoreanimale di Herta Müller, letto nell’edizione Feltrinelli nella traduzione di Margherita Carbonaro, è, in estrema sintesi, una storia di resistenza al regime violento e degradante della dittatura di Ceausescu. L’io narrante, che condivide molti tratti con la biografia dell’autrice, è una studentessa proveniente da un villaggio del Banato abitato dalla minoranza sveva. Prima chiave di lettura del romanzo, e suo incipit, è la consapevolezza che sia parlare che tacere tradiscono il ricordo e la memoria quando la paura toglie ogni possibilità di sopravvivere al pensiero e alla persona. Riporto alcuni stralci dell’incipit:

Quando stiamo zitti diventiamo sgradevoli, disse Edgar, quando parliamo diventiamo ridicoli. […]
Con le parole in bocca calpestiamo un sacco di cose, come coi piedi nell’erba. Ma anche col silenzio. […]
E se ci penso, ho l’impressione che ogni morto si lasci dietro un sacco di parole.
L’erba sta dentro la testa. Quando parliamo, viene falciata. Ma anche quando stiamo zitti. E la seconda, la terza erba ricresce come le pare. Eppure siamo fortunati.

Che valore ha quindi la parola? Perché narrare, se non per una restituzione? Perché narrare, se non per il dovere umanissimo della memoria? Ma la memoria è così difficile e dolorosa che la scena si frantuma e la voce narrante non può che parlare attraverso continue ferite, attraverso percezioni parziali, distorte e angoscianti:

Volevo avere a che fare con le ruote e poco prima che arrivassero balzavo sulla strada. Lasciavo che fosse il caso a decidere se sarei riuscita a raggiungere l’altro lato. Lasciavo decidere le ruote. La polvere mi inghiottiva per un po’, i miei capelli volavano tra la fortuna e la morte. Raggiungevo l’altro lato della strada, ridevo e avevo vinto. Ma mi sentivo ridere da fuori, da lontano. (p.41)

L’accento posto subito sulla parola, sul pensiero che si intreccia al ricordo e si fa immagine, apre però la via al vero poetico, alle cose trasfigurate nella filigrana della loro autenticità (p. 14):

Nei cortili con i gelsi l’ombra cadeva come quiete sopra visi anziani seduti sulle sedie. Come quiete, perché entravo inaspettatamente anche per me stessa in quei cortili e solo di rado ci tornavo. E quelle rare volte un filo di luce, cadendo dalla cima dell’albero su un viso anziano, mostrava una regione lontana. Il mio sguardo saliva e scendeva lungo il filo. Sentivo i brividi corrermi lungo la schiena, perché quella quiete non veniva dai gelsi ma dalla solitudine degli occhi in quel viso.

Il titolo…

Per parlare, brevemente, della vicenda inizierei dal titolo: nel 2008 viene pubblicato in Italia dalla casa editrice Keller con il titolo Il paese delle prugne verdi. Le prugne verdi costituiscono un simbolo di controllo e oppressione, un richiamo all’arbitrarietà arrogante dei guardiani,  gente proveniente da regioni povere e poi resa tracotante dal misero e meschino incarico, ma anche un richiamo dell’esperienza infantile del controllo esercitato da un padre egoista e violento:

La zappa getta sull’aiuola un’ombra, che invece non zappa. L’ombra resta immobile e guarda il viottolo nell’orto. Là una bambina si riempie le tasche di prugne verdi.
In mezzo alle piante più stupide che ha tagliato, il padre dice: le prugne verdi non si devono mangiare, il nocciolo è ancora morbido, e si morde la morte. Nessuno può aiutarti e muori. La febbre devastante ti distrugge il cuore dall’interno.
Gli occhi del padre sono torbidi, e la bambina vede che l’amore di suo padre è una smania. Che nel suo amore non sa trattenersi. E lui che ha fatto cimiteri augura la morte alla bambina.
Per questo la bambina divora poi tutte le prugne di cui si era riempita le tasche. Tutti i giorni, quando il padre non la vede, nasconde mezzi alberi nella pancia. La bambina mangia e pensa: è per morire. (pp. 24 e 25)

Questo titolo sembra quindi dar conto di una duplice oppressione, di un duplice intrappolamento reso nei  flashback che spesso partono dall’evocazione creata da una parola, dal vissuto di un momento per cercare ragioni di sentimenti, esperienze e stati d’animo (p. 40):

Nella paura erano di casa [gli avventori della bodegă]. La fabbrica, la bodegă, i negozi e i quartieri dormitorio, le stazioni e i viaggi in treno con i campi di grano, di girasole e di granoturco li tenevano d’occhio. I tram, gli ospedali, i cimiteri. Le pareti e i soffitti e il cielo aperto. E se tuttavia, come spesso succedeva, il bere in posti menzogneri diventava avventato, l’errore andava ascritto più che altro alle pareti e ai soffitti o al cielo aperto e non all’intenzione del cervello di un essere umano.

E quando la madre lega la bambina alla sedia con la cintura dei vestiti, quando il parrucchiere taglia i capelli al nonno, quando il padre dice alla bambina che non bisogna mangiare le prugne verdi, per tutti questi anni una nonna sta nell’angolo della stanza. Guarda assente l’andirivieni e i discorsi in casa, come se già al mattino il vento fuori si fosse coricato, come se il giorno si fosse addormentato nel cielo. Durante tutti questi anni, la nonna canticchia nella mente una canzone.

Cuoreanimale è un concetto più complesso. La parola occorre più volte nel romanzo.  Come scrive la traduttrice, Margherita Carbonaro, nella nota Il cuore e l’animale, è una parola ambigua e il suo significato è legato al contesto.  Per districarsi tra i passaggi plurilinguistici attraversati da questo doppio vocabolo consiglio di leggere l’articolo che Anna Maria Curci scrive con sensibilità e competenza sul plurilinguismo di Herta Müller[1].  In merito alla sua apparizione in diversi contesti e con diverse connotazioni, mi sembra che si possa cogliere il riferimento a un nucleo intimo e rivelatore ma anche alla capacità di ribellione e violenza, a qualcosa di sporco. Forse nessuno è libero dal suo cuoreanimale, e forse al cuoreanimale si contrappone il “qualcuno” intrappolato anche nel pensiero e nel sentimento dalla rigidità del regime.

… e la trama

L’io narrante è una studentessa universitaria che vive nello studentato insieme ad altre cinque ragazze:

Un piccolo rettangolo come stanza, una finestra, sei ragazze, sei letti e sotto ogni letto una valigia. Accanto alla porta un armadio a muro, e sul soffitto, sopra la porta, un altoparlante. I cori operai cantavano dal soffitto alla parete, dalla parete ai letti, fino al calare della notte. Po tacevano, come la strada davanti alla finestra e il parco inselvatichito là fuori, che nessuno più attraversava. Il piccolo rettangolo si ripeteva quaranta volte in ogni edificio. (p.15)

Le ragazze cercano di procurarsi collant velati e di preparare un surrogato di mascara, un bisogno di fuggire dalla rozzezza che Lola manifesta con più determinazione di tutte.. Lola porta impressa sul volto la regione dalla quale proviene con tutta la sua aridità e il suo sogno è sposare qualcuno che porti “la camicia bianca”. Non ha una personalità gradevole e ha impressi sulla sua schiena i segni dei rapporti sessuali che intrattiene di notte nel parco. Un giorno Lola viene trovata morta, impiccata nell’armadio con la cintura dell’io narrante. La faccenda viene rubricata come suicidio e successivamente in bacheca compare la sua foto con inequivocabili parole di disprezzo per il suo gesto.
Tutti gli studenti riuniti in aula magna devono votare per la sua disimmatricolazione e per l’espulsione dal partito. In questo frangente l’io narrante si scopre come parte del numero dei votanti, come un qualcuno che non sa e non riesce a far fronte alle sue responsabilità. Scopre poi il quaderno sul quale Lola scriveva segretamente le sue vicende nella propria valigia. Tra intuizioni, osservazioni e letture dei resoconti di Lola, deduce i sordidi retroscena della sua morte. Nasconde il quaderno, ma il quaderno sparisce. Tutto e tutti sono sorvegliati. In seguito alla morte di Lola viene avvicinata da tre ragazzi Georg, Kurt e Edgar. Come lei fanno parte della minoranza tedesca e, come per lei, i padri sono stati SS mentre le madri hanno malattie che usano come richiamo e come ricatto morale nelle lettere che spediscono ai figli. I ragazzi vorrebbero far luce sulla vicenda e i quattro iniziano a ritrovarsi quotidianamente per condividere letture e poesie, ma anche per documentare quanto avviene tramite foto e tenere memoria di coloro che per vie varie e diverse, quasi sempre disperate, tentano di fuggire, di andare all’estero. Nascondono tutto in una villa dove trovano libri provenienti dall’estero (p. 53):

I libri della villa erano stati introdotti di nascosto nel paese. Erano scritti nella lingua-madre, quella in cui “il vento posa”. Non la lingua-dello-Stato, come qui nella nazione. Ma nemmeno la lingua-della-culla dei paesi di campagna. Nei libri c’era la lingua-madre, ma il silenzio della campagna, che vieta il pensare, quello nei libri non c’era.

Iniziano gli interrogatori a causa di una poesia che è stata ascoltata dalle voci dei quattro ragazzi. La poesia è di Gellu Naum ed è posta in esergo al romanzo:

Ognuno aveva un amico in ogni pezzetto di nuvola
così è infatti con gli amici se il mondo è pieno di orrori
anche mia madre diceva è  normale
lascia perdere gli amici
pensa a cose più serie

Il capitano Pjele esercita sui quattro ragazzi sopraffazioni fisiche e torture psicologiche avvilenti e sottopone a perquisizioni devastanti anche le loro famiglie. I quattro stabiliscono degli stratagemmi per comunicare tra loro e avvertirsi reciprocamente in caso di pericolo.

Intanto emergono altre presenze nella quotidianità della protagonista: la sarta che legge le carte e ogni tanto si reca in Ungheria per contrabbando; Teresa, la compagna di studi con cui ha un rapporto che ondeggia tra affetto e disprezzo; la signora Margit, una anziana donna ungherese presso la quale abita e che ha atteggiamenti di difficile interpretazione; i vicini dei quali osserva comportamenti e reazioni nel piccolo mondo del cortile.

L’esperienza quotidiana.

Domina la dimensione del piccolo, per meglio dire dell’infimo e del meschino, ne sono esempi quanto accade nella bodegă e quanto accade nel macello in cui Kurt è impiegato come ingegnere. Riporto un estratto che unisce desiderio e dato oggettivo e può essere colto come una metafora del male che si diffonde ovunque:

Sarà dura mantenere bianche le camicie di un signore. Sarà il mio amore, se dopo quattro anni verrà con me nell’aridità. Se in paese riuscirà ad abbagliare i passanti con le sue camicie bianche, sarà il mio amore. E se il parrucchiere andrà a servirlo in casa, come si serve un signore, e si toglierà le scarpe davanti alla sua porta. Sarà dura mantenere bianche le camicie con tutta quella sporcizia in mezzo a cui saltellano le pulci, scrive Lola. (pp. 16 e 17)

La dimensione morale si rispecchia in quella dello spazio. Privata di ogni connotazione che possa rivelare una qualunque scelta personale, un qualunque rapporto d’affezione, la stanza dello studentato è un rettangolo e sul volto di Lola si vede una regione, un mero dato geografico, non un paesaggio che è l’insieme di elementi colti dallo sguardo in un dato luogo, un insieme di forme, linee e colori sul quale possiamo convogliare un giudizio estetico:

Lola veniva dal Sud del paese e gliela si vedeva addosso, quella regione rimasta povera. Dove non saprei, forse sulle ossa delle guance, o intorno alla bocca, o negli occhi. Difficile dirlo, una cosa così è difficile dirla di una regione come di un viso. Ogni regione nel paese era rimasta povera, anche in ogni viso. Ma la regione di Lola, e come gliela si vedeva sulle ossa delle guance, o intorno alla bocca, o negli occhi, era forse ancora più povera. Più regione che paesaggio. (p. 13)

Molto ci sarebbe da dire sul tema dello spazio, una geografia della morte e del desiderio di fuga che trova spazi di compassione e di poesia (p. 131):

Qui in fabbrica nessuno aspettò Paul, nemmeno un’ora. È stato sfortunato, dicevano dopo che non era più tornato al lavoro, come molti altri prima di lui. Facevano la fila come nel negozio. Quando a uno era stata servita la morte, toccava al prossimo. Cosa ne sapevano di tutto questo il latte della nebbia, le correnti dell’aria o la curva dei binari. Una morte meschina come un buco nella tasca: si infilava la mano e l’intero corpo veniva risucchiato.

Lo spazio del mondo immaginato da chi conosce solo il luogo che lo imprigiona (p.118):

Tereza lo stuzzicò e camminò imitando la postura del guardiano. Come se camminasse non sul terreno, ma sopra il mondo. Io rabbrividii un po’ e potevo camminare solo come si fa in questo paese. Sentivo la differenza tra il paese e il mondo. Era più grande della differenza tra me e Tereza. Io ero il paese, ma lei non era il mondo. Lei era solo quel che nel paese, quando si voleva fuggire, si credeva fosse il mondo.

Cristina Polli

[1] Anna Maria Curci, Terra natia e linguaggio: il plurilinguismo di visioni, volti, voci nella scrittura di Herta Müller

Il romanzo Cuoreanimale di Herta Müller è stato presentato il 17 marzo 2024 da Cristina Polli e Anna Maria Curci nell’ambito dell’iniziativa Aperitivo con libro.