Tag

, , , ,

Giovanna Amato, Tutto in questo concerto può tutto – Mozart, K491

 

A mia madre, che sa ascoltare (almeno me)
con ineguagliabile pazienza.

L’anno prima, nel 1785, Mozart aveva scritto il concerto 20 in re minore K466. Il mio insegnante di pianoforte diceva, ma di questo non ho fonti e non l’ho più trovato altrove, che il re minore è la tonalità cui le donne sono più sensibili. Sia come sia, l’anno prima Mozart aveva scritto il concerto in re minore K466, probabilmente il più bello e completo dei concerti al mondo, e l’aveva fatto finire con un movimento in maggiore pieno di luce e di allegria. Quando scrive il concerto in do minore numero 24, invece, Mozart fa qualcosa di pazzo: lascia che anche il terzo movimento termini in minore, senza piccarda, in una desolazione tutta onesta e reale, cosa che ha perplesso il pubblico del suo tempo e ha fatto dire a un estasiato Beethoven “noi non faremo mai nulla di simile”. Per entrambi i concerti ascolto le lezioni (e le cadenze) di Mitsuko Uchida, mia inarrivabile interprete mozartiana, cui devo un risveglio alle tre antimeridiane per riuscire a coprire la tratta Perugia-Roma necessaria a passare dal suo abbraccio la sera dopo un concerto al mio essere fresca e pimpante a scuola alle otto del mattino. Sua l’esecuzione a margine di questi appunti dall’incisione Philips 2006 con la English Chamber Orchestra e Jeffery Tate. Sue le dita nelle cuffiette quando scrivo, cammino, copro tratte Perugia-Roma a orari impervi, e questo per una semplice ragione: le sue dita scandiscono ogni nota, e nulla va perduto. E questo, per chi vuole parlare a ruota libera del concerto 24, è condizione essenziale.
Glenn Gould (in L’ala del turbine intelligente, Adelphi) argomenta per una densa pagina sostanzialmente la seguente cosa: il concerto 24 non regge le intenzioni, e dopo una prima apertura manda i buoi (stilema mio) fuori dalla stalla.
Tecnicamente ha ragione: la struttura è in forma sonata, eppure a molti ascolti non si compone, ma monta e si accavalla, in una serie di scale e fischiettii che fanno tessera e tassello. Il “tutti” dell’orchestra non anticipa quello che il “solo” del pianoforte ha da dire. Il tema lancia le sue bordate, con l’orchestra più variegata del repertorio mozartiano, ma non appiglia. Quando il pianoforte attacca, si comprende che questa frammentazione è la meraviglia, nei suoi arpeggi e nelle sue modulazioni in maggiore. Il tema ha sviluppo ma divaga, ricompare, è un già sentito, il ritmo ternario che all’inizio si poneva marziale ora culla. I bassi segnano un perpetuo inizio smorzato dall’insolenza delle scale. Gioca, questo allegro, a farsi sontuoso ma trattenendo al suo interno vene di irriverenza divertita. Fino al minimo intermezzo, verso il minuto otto, di una soluzione melodica di delicata dolcezza, presente solo per porsi a barriera e ritirare i dadi di una continua sterzata. La cadenza asseconda questo montaggio apparentemente disattento, che scarica in una chiusa orchestrale maestosa e piena. Anche in questo caso sovversivo, Mozart aggiunge la presenza di un piano solo, che si intromette e traghetta l’orchestra verso un delicato pianissimo.
Il secondo movimento ha un tema di semplicità estrema. L’orchestra propone, il pianoforte risponde, entrambi educatissimi. Poi, improvvisamente, qualcosa accade, che fa piangere i fiati e immalinconire la voce solista, accompagnata da un leggerissimo corteo di archi. Una brevissima serenata. Anche adesso, è questione di intermezzi. E dopo una delle frasi più belle che un compositore abbia mai scritto (sono attorno al minuto diciassette), una frase che promette cura e parla ostinazione e dolcezza, il tema ricomincia.
Il terzo movimento è una febbre. È un tema con variazioni, una vera e propria passacaglia, sistematico e preciso come il primo movimento era (scientemente) dispersivo. È l’orchestra, che abbiamo già detto essere ampia come in nessun concerto mozartiano, a decidere la carica emotiva di ogni variazione, alcune delle quali in scala napoletana per aumentare l’effetto inquietante. “Danza sinistra”, la chiama Angela Hewitt. Perfino le variazioni in maggiore, la quarta e la sesta, sono intervallate dalla disperazione lucida di una quinta in minore. Il tempo binario qui bombarda, le percussioni incalzano ma la precisione di Uchida detta mordenti e appoggiature con la chiarezza di grani di rosario. Tutto in questo concerto può tutto, dai timpani che evocano la cupezza agli archi che si insinuano come rettili nel fraseggio pianistico della quinta variazione. Può anche finire con due secche gragnole di tarantella al pianoforte e una coda d’orchestra che si rovina addosso in un inaspettato minore. È ancora un gioco, macabro e maestoso ma pur sempre un gioco. Come sa chi insegna, è con il gioco che apprendono gli umani, e questo Mozart, il più celeste tra gli umani, lo sapeva bene.

©Giovanna Amato

https://m.youtube.com/watch?v=peLN2XH0BKc&pp=ygUfbW96YXJ0IHBpYW5vIGNvbmNlcnRvIDI0IHVjaGlkYQ%3D%3D