Sonia Giovannetti legge “Luoghi sospesi” di Annamaria Ferramosca

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Sonia Giovannetti legge Luoghi sospesi di Annamaria Ferramosca

 “Il poeta non teme il nulla”, scrive Maria Zambrano, perché egli “trae dall’umiliazione del non-essere  ciò che in esso geme, trae dal nulla il nulla stesso dandogli nome e volto”. A questa espressione sembrano fare eco le parole di Annamaria Ferramosca: “l’infinito accoglie te come il tutto e insieme il nulla”, mostrando come solo la poesia, che abita l’immaginazione cui tutto è permesso, riesca a portare  alla luce il dubbio – su di sé, sul mondo: esistiamo davvero? – e, insieme, una dolente  certezza: che tutto nel mondo sia vano, effimero, un “solido nulla”, per dirla con il Leopardi dello Zibaldone; vano, ma anche  terribile, talvolta crudele, più spesso insensato, come insegna la storia degli uomini. Altro che le “magnifiche sorti e progressive” irrise già anzitempo dal grande recanatese. In “Luoghi sospesi” la storia è infatti “brama di estinzione” attestata da “croci lager Hiroshima Vietnam” e preparatoria di un “feroceassurdo futuro”, che rende l’agire dell’uomo cieco e inadeguato al miracoloso ancorché misterioso equilibrio che governa la sovrastante madre Terra.
Ecco: la poesia dei “Luoghi sospesi” è una poetica del dubbio, dell’inadeguatezza a comprendere – “sono inadeguata, non afferro il senso” –, dell’interrogazione assillante sul senso della vita, inesplicabilmente “amaradolce”. Un senso che la ragione, recinto insufficiente, non può cogliere, perché essa non riesce a penetrare il mistero del caos in cui natura e vita si inscrivono. In questo mondo dionisiaco, governato da un “dio Pan che inebria del suo tutto…siamo tutti abitanti del caos”, sicché anche la scienza, dice la biologa Ferramosca, non può che arrendersi: “ho letto cento libri di scienza della vita”, e tuttavia la natura resta “arca inspiegata”.
Ma “Luoghi sospesi” è anche, forse soprattutto, una poetica dei contrasti.
Contrastato e ambivalente è il valore della parola: “riconosco e imparo il duro limite della parola…su cui s’infrange il grande mare euritmico”. Il limite della parola appare a tratti coincidere con il limite della ragione, entrambe incapaci di attingere l’autentico, di afferrare la “cosa” – natura, vita, nascita, morte, l’infinito, il nulla. La parola, dunque: cellula infeconda di una “dis-lingua che sa solo asserire” ma che “non penetra/ il nodo siliceo il chiaro di linfa/ non traduce/ la vena d’acqua che irriga la terra”. Altrove, però, a dispetto di simili rassegnate riflessioni – “perché …accumulare scorie sulle pagine?” –  la poetessa sembra invece non dimenticare la lezione di Platone, per il quale “la parola è come un seme gettato nell’anima”. Tant’è che – ella confessa – “scrivo perché resti dell’umano almeno un seme”; la parola è inoltre omaggiata, quando leggiamo dell’”estrema dignità delle parole”.  Le parole finiscono allora per risultare davvero preziose e fruttuose, se esse “creano anima” e la inducono ad ammettere “ogni volta rinasco se scrivo”!
C’è vita, dunque, malgrado tutto, nella parola poetica; in essa è anzi racchiusa la speranza che possa sfidare l’impenetrabilità del caos primordiale, assumendo su di sé, nel proprio segreto, le arcane sue fattezze, inconoscibili alla ragione. Al sommesso nichilismo della sfiducia nel potere teoretico del logos sembrano così associarsi, nei versi della raccolta, alcune suggestioni heideggeriane sul linguaggio (“Nessuna cosa è dove la parola, cioè il nome, manca. È la parola che procura l’essere alla cosa” sostiene il filosofo tedesco, opponendo all’impotenza della ragione metafisica la potenza euristica della lingua poetica). Suggestioni confermate d’altronde dal comune ripudio dell’illusione tecnologica: “in sogno m’insegue un drone…sa che verrà distrutto – così accade/ anche alle più superbe tecnologie”; “lui (il drone) mucchio di ferraglia/ sepolto nella sabbia”. E ancora: “nei vostri penosi emoticon…siete meno che nulla…nemmeno riuscite a emettere/ un solo bip di senso”.
Leggendo questi passaggi, tornano alla mente ancora una volta le parole di Maria Zambrano: “La cosa del poeta non è mai la cosa concettuale del pensiero, ma complessissima e reale, la cosa fantasmagorica e vagheggiata, quella inventata, quella che ci fu e quella che non ci sarà mai”. Per la nostra poetessa, infatti, la parola poetica, mossa com’è dal cuore – “ cuore mio cuorecos’hai da dirmi cuore?/ dimmi perd’io chi sono” –  e affrancata dai vincoli della ragion ragionante, si alimenta delle immagini ricorrenti del sogno e del mare – quei “mari ancora da navigare…le atlantidi ancora da far emergere” – fortemente evocative di quel “porto sepolto” di ungarettiana memoria, custode dell’”inesauribile segreto” della vita che solo la poesia, per illuminazione, può portare alla luce, proprio come “un lampo di luce mattutina” che interviene “a farci spalancare gli occhi”. È, infine, la parola poetica il solo scandaglio che può farci oltrepassare il triste, insensato spettacolo del mondo, osservato dal “perimetro banale della stanza”, per guidarci verso “gli spazi caldi della prenascita”, alla “previta”, quel luogo ancestrale da cui, nella notte dei tempi, tutto nasce e verso cui la poetessa ambisce insistentemente, nostalgicamente a tornare per resistere al degrado del “dopo”.
Malgrado le ambivalenze dei giudizi sulla parola, le antinomie che la riguardano paiono dunque risolversi in una sostanziale fiducia nel loro potere restituivo del senso delle cose, su cui la poetessa si interroga in ogni pagina della sua opera.
Contrastato è altresì il pensiero sull’amore. L’opera oscilla infatti tra espressioni di dolente scetticismo sulla sua esistenza: “era amore ogni volta un’illusione”amore/ effetto solare collaterale?” e di dolorosa frustrazione per la sua assenza: “amore oh rovinoso/ tsunami amore…/ amore che là fuori mai mi corrisponde/… (e che) non sa di non essere”, ma anche, per converso, di sofferto desiderio e struggente speranza di un suo manifestarsi: “con rabbiamore ti spingo contro il muro/…purché sia di senso densa la vita”. E ancora: “preferirei tu fossi lume/…di quel tempuscolo di grazia/che vorremmo…vivere/ stringendoci le mani occhi negli occhi”.
Tuttavia, la ripetuta evocazione del tema dell’amore nelle sue diverse declinazioni non è, come potrebbe superficialmente intendersi, la mera ricerca di una terapia al malessere della solitudine, né tantomeno l’assillante manifestazione di un naturale impulso psicobiologico che turba l’anima, quando frustrato. C’è molto di più e di diverso, in proposito, nelle pagine di “Luoghi sospesi”. L’amore è in primo luogo la ricerca di una identità e, insieme, una prova di esistenza: “io sono davvero?… ma chi sono”, si interroga ripetutamente l’autrice. Ma il suo smarrimento è anche l’indizio di un disagio profondo non solo personale, bensì di un malessere che riflette lo stato della condizione umana nel mondo moderno, afflitto da guerre e crudeltà di ogni tipo. Disastri che solo l’amore può sanare. Amore, dunque, come volontà di unione tra gli uomini: “ammettiamo pure che/… tutti abitano in me e io in tutti/ allora davvero diverremo tutti/ altissimi e umili/…e solo guardarci negli occhi/ ci farà insieme attraversare/ ogni deserto ogni oceano”. Come non ritrovare anche qui il Leopardi della “Ginestra”, il suo appello all’amicizia e alla solidarietà tra gli uomini per affrontare insieme le avversità della natura e della storia: “sentiamoci in cerchio/…tocchiamo la magnifica interazione/…ché se solo uno perde/ perdiamo tutti ma / sarà come vincere”!
L’amore come veicolo di comunicazione, come comunione affettiva tra gli individui, unica possibile medicina per i mali del mondo e della vita: “.l’amore scorre/ come plasma corpomenteparola” .
Infine: quale migliore omaggio alla Poesia di una poesia che continuamente si interroga, nei “Luoghi sospesi”, sul senso delle cose e del nostro essere al mondo, e che è mossa sì dal dubbio – eccelsa prerogativa della ragione umana e fonte di ogni vero progresso – senza però mai cedere all’epochè, alla sospensione inerte del giudizio, alla resa di fronte all’inesplicabile, al ritiro dalla vita. Il messaggio di quest’opera poetica è anzi l’opposto: il dubbio che la pervade è vibrante, è il senso della vita stessa nel suo incessante pulsare tra umori diversi e contrastanti, non è mai rinuncia a interrogarsi su “quel non so che visibile”, che odora di quell’infinito, essenza profonda e originaria della vita, che solo la poesia può svelare: per intuizione, per illuminazione. E anche quando vi leggiamo l’azzardo di una risposta, questa è a sua volta un interrogativo: “forse è nel sentire il senso?”.
Poesia sublime, che scuote amorevolmente cuore e mente, senza mai percuotere.

©Sonia Giovannetti

Annamaria Ferramosca, Luoghi sospesi. Nota di Elio Grasso, puntoacapo 2023

 

 

 

 

Maurizio Rossi, La ruota di Duchamp (nota di Anna Maria Curci)

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Maurizio Rossi, La ruota di Duchamp. Prefazione di Sandro Montanari, Cofine Edizioni 2022

C’è un confine tra io e noi
una discreta linea d’orizzonte
quando per mare vai
e trascolora con la luce, a volte
si confonde, dispiegato e onde,
un fascio d’energia
nel prisma delle ore
a declinare voci della mente
e toni dell’anima.
Intanto ad Occidente vai
– solitudine e abbraccio –
vele tese sottovento
a precedere la notte.

Maurizio Rossi, La linea incerta

 

Come i versi posti in esergo, tratti dalla poesia La linea incerta, tutto il romanzo di Maurizio Rossi La ruota di Duchamp – il cui titolo fa riferimento, come osserva Sandro Montanari nella Prefazione, alla “stabile disarmonia”, al centro di quest’opera, così come lo è per Ruota di bicicletta di Marcel Duchamp – si muove tra poli che si contrappongono e che pure sono complementari, giacché è del loro coesistere che si nutrono le vicende umane.
La prima coppia è quella indicata dalla poesia menzionata: io e noi. Il cammino che separa «la linea incerta tra io e noi» passa per la riscoperta del sé, un sé che gradualmente, non senza soste, momenti di stallo e scossoni dolorosi, accoglie i propri limiti e, allo stesso tempo, impara ad apprezzare le proprie inclinazioni, i propri talenti sprofondati in precedenza nella disistima, nei “j’accuse” propri e altrui. È il cammino che percorrono i due protagonisti del romanzo, Umberto e Valeria, tanto che non è azzardato affermare che la storia del loro incontro si sviluppa includendo la storia della loro formazione e della loro trasformazione.
Un’altra coppia di ‘opposti complementari’ che riveste un ruolo centrale nel romanzo è quella della malattia e della guarigione. I due poli sono messi in evidenza sia dalla collocazione temporale delle vicende narrate, ambientate all’epoca dell’emergenza sanitaria per l’epidemia di Covid-19, sia dall’irrompere della malattia nelle biografie dei protagonisti. Un episodio, in particolare, segnerà il passaggio dalla prima alla seconda parte del romanzo.
Anche per la coppia malattia-guarigione va messa in evidenza la dinamicità del romanzo, che cresce e si evolve, trasformandosi in progressivo divenire, insieme ai suoi personaggi. La malattia comprende anche i traumi che hanno provocato profonde cesure nella vita di Umberto e di Valeria, in particolare nei rapporti con i partner precedenti. La guarigione passa per un altro nodo fondamentale, un nodo che va sciolto: è quello del perdono, del perdono di sé stessi e del perdono di chi ha inferto la ferita.
L’attesa, la riflessione, l’attenzione, il perdono, possono essere ricondotti alla parte femminile della psiche, che cerca e trova, almeno in questo romanzo, una riconciliazione con la parte maschile. Anche in questo caso il processo di incontro e coesistenza sempre più consapevole ne esalta la dinamicità. L’equilibrio non è acquisito una volta per tutte, ma si ricombina continuamente. Il processo è, inoltre, così come avviene per gli altri nuclei, sia interiore che esteriore, sia individuale che attento alle dimensioni collettive.
Non tanto in contrapposizione, quanto piuttosto in una complementarità che superi pregiudizi e posizioni secolari, è il concetto di paternità rispetto alla maternità. In tal senso la vicenda di Umberto è paradigmatica, giacché egli, provenendo dalla trascuratezza che gli viene rimproverata e che senz’altro paga anche duramente, se si pensa alla scelta di Cristina, sua moglie, e alle recriminazioni che per anni gli esprimono le figlie Francesca e Serena, giunge a una pienezza che abbraccia cura e sollecitudine.
Sono molte, del resto, le figure paterne che illuminano la storia, dal padre di Umberto, ricordato con devozione e riconoscenza, al professor Albergati, nel cui affetto paterno trova conforto Valeria.
Arte e scienza, e tra le scienze in particolare la medicina, vista la professione di Umberto, ora in pensione, sono un binomio che si confronta già nella stessa persona del protagonista maschile del romanzo, attratto dall’arte in senso lato, curioso e appassionato, e scienziato, sia pure di una scienza come la medicina, nella quale i dati empirici e le numerose variabili, esaltate e messe in primo piano dall’emergenza pandemica, non possono fare a meno, a rischio di un fallimento totale, di un’attenzione, continua e sollecita, all’aspetto squisitamente umano.
All’interno del vasto ambito dell’arte, inoltre, come già mostra l’incipit del romanzo, con la descrizione dettagliata dell’interno di San Lorenzo fuori le mura in attesa del concerto, la coppia degli ‘opposti complementari’ architettura e musica convive in maniera significativa non solo per ciò che concerne le predilezioni dei due protagonisti, di Valeria e di Umberto e in quest’ultimo in misura più evidente, ma anche per quanto riguarda le caratteristiche dello stile di Maurizio Rossi in questo romanzo. Si tratta infatti di uno stile che alla musicalità di una prosa, che ha fatto tesoro della consuetudine con il ritmo e la sonorità della poesia, unisce gli elementi architettonici della struttura rigorosa, che alterna i brani in tondo (lo svolgersi dei fatti) e in corsivo (il ricordo, gli antefatti, che nella seconda parte sono anch’essi riportati al tempo presente, in un continuum che mette in evidenza quanto, del passato, sia vivido e attuale e quanto, nella vita vissuta, sia importante il bagaglio di memorie che portiamo con noi).
Anche i luoghi che accolgono i tratti delle esistenze delle persone in questo romanzo si animano di vita fino a diventare realtà diverse, talora contrapposte, sempre complementari: sono i quartieri romani di Centocelle e San Lorenzo, sono Roma, la città, e il litorale di Santa Marinella per Umberto, sono Roma e Ancona, Ancona e Bologna per Valeria.
I sentimenti e gli stati d’animo in gioco sono anch’essi complementari e contrapposti: curiosità, slancio, diffidenza, timore, gioia, dolore, malinconia. Ciò che si attenua, nel volgersi del romanzo verso il futuro, come scoprono con riconoscente stupore i due protagonisti, è, finalmente, il rimpianto per le occasioni perdute.

©Anna Maria Curci Continua a leggere

Simone Zafferani, L’ora delle verità (rec. di Giovanna Amato)

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Simone Zafferani, L’ora delle verità

Allora bisognò mettersi in ascolto,
trascrivere l’udibile in un gesto,
luminosamente fare

Leggo le poesie di Simone Zafferani con una sensazione di convivenza degli estremi. Ci sono versi che accecano, ma con maniere di gentilezza. Un senso di spalancamento, ma senza bufere, con un refolo di stampo educato. Provo un camminare quieto su un rivolo di sabbia ma con qualche improvviso strattone, come di vipera che si drizza dalle dune, tanto velenosa (e mai tossica) sa essere la bellezza dei suoi versi.
C’è un senso di nido che mi ha permesso di scivolare nelle poesie di Zafferani con confidenza nei loro smottamenti: in L’ora delle verità, edito da Pequod all’inizio di quest’anno, mi sembra di acciuffare l’eco tematica, ma anche ariosamente ritmica, di due poetesse da me molto amate, la Dickinson delle poesie più pacate (per quanto sempre in Dickinson si tratti di pacatezza che ribolle) e la Bre delle superne dolcezze di Le barricate misteriose. Immagino che questo sia perché, ancora convivenza degli estremi, la sua poesia sa essere estremamente naturale, pacata e aperta così come d’improvviso cosmica:

E dopo saremo anche noi
silenziosa matematica di luci
tutta fatta di segni e noi stessi segni di qualcosa
– diremo fulmine, pianoro, subsidenza
cambiando la causa con l’effetto.
Ci sopravvivrà la coscienza di quel sovvertimento
l’avere fatto a meno delle stelle
per orientarci nel buio del frattempo.
Saremo tutt’uno con la cosa precipitata
e adesso smetto di pensarlo,
lo so, non lo conosco.

La poesia è questione quasi sciamanica (Quel suono che ti inghiotte, / la musica dell’alba, / rifallo fino a che non ti sfinisce […] Ma tu resisti fino a dove / quel suono trova il nome che lo spezza / e senza compimento te lo rende) e sciamanici sono gli occhi con cui si osserva il mondo, e liturgico il modo (E tu stai lì in segreto a celebrare / l’ultima liturgia di questo mondo, / la sua più sostenibile finzione) di stare al suo interno, ma con un sacro che abbatte la separazione che ha in sé, finché l’osservare, il conoscere, il nominare, perfino il camminare sono l’operare con cui si abita e assieme si contribuisce all’esistere del mondo. E la metrica che non si concede mai bruschi strappi diventa ancora più dolce e più larga nella sezione Vite perpendicolari, sorta di Spoon River dei vivi: l’impiegato, il professore, il (se ho colto bene) prete, il contadino, il direttore d’orchestra che per accontentare un desiderio di sua madre intraprende il mestiere e si scopre “canale” attraverso il quale il molteplice si acquieta e permette “all’armonia di esistere trionfando”. E mentre questi ritratti hanno una loro narratività, è visione pura (anzi assoluta acustica) la successiva sezione, Piccola storia boschiva, nella torsione delle sue radici e nei fremiti delle piccole vite sconvolte da un suono. Se si può dire che ciò che è vita coincide con ciò che scambia informazioni in una comunità, questa sezione lo dice certamente come un piccolo capolavoro. Come piccoli capolavori sono alcune scelte di sintagmi (tra tutti, a Marilyn Monroe viene attribuita una “leggerezza esiziale”) e le cartoline da una Roma apocalittica e scura, dalle “albe lunari” e da un fiume “affatato” e dagli alberi caduti e dai passaggi segreti aperti a tutti che mutano chi li percorre dall’interno. Fino all’ultima sezione, Sul finire, un breve e malinconico canzoniere sulla fine e sulla permanenza di ciò che è stato.
Ho seguito il filo delle sezioni così come il suo autore le ha decise per conservare, da una certa distanza, quell’idea di respiro simile all’alternanza di concavi e convessi del Sant’Ivo alla Sapienza. Ho attraversato anch’io questo libro e “non sono uscito come ero entrato”. Come in un diorama, credo di aver pestato tante delle terre del mondo, e di averne avuto, assieme al poeta, cura.

Da questo pianto nasce il tuo futuro.
Lascialo andare ma tienilo con te.
Ti resti il distillato del dolore
per costruirci sopra un abitato.
Dei tuoi singhiozzi fai una collana.
Quello che ora ti appare irreparabile
visto da molto lontano nello spazio
è alchemicamente in sé perfetto.

Il tuo futuro qualcuno già lo vede
e mentre tu piangi lui stupisce.

 

©Giovanna Amato

Gianni Iasimone, “Invel – la Heimatlosigkeit, dallo spaesamento al dolore di Giovanni Nadiani”

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Invel – la Heimatlosigkeit, dallo spaesamento al dolore di Giovanni Nadiani
un ricordo

di Gianni Iasimone

Giovanni Nadiani, è stato – è – poeta, scrittore, traduttore, linguista. È stato anche docente universitario, germanista e editore, ma soprattutto cantore e fine osservatore del dialetto romagnolo, e molto altro. Il prossimo 11 marzo compirebbe 69 anni, quindi ne aveva poco più di 62 quando se n’è andato per sempre il 27 luglio del 2016, dopo una implacabile, dolorosa malattia. La sua prematura scomparsa ha lasciato un grande vuoto, non solo di affetti, nella sua Birandola di Reda, dove viveva, piccolo centro a “ridosso dell’A14” tra Cassanigo di Cotignola, in provincia di Ravenna, dov’era nato l’11 marzo del ‘54, e Faenza, dove nel 1985 fu tra i fondatori della rivista Tratti insieme al compianto amico scrittore e editore Guido Leotta e della successiva rinomata casa editrice Mobydick; a Forlì, dove era docente presso il Dipartimento di Interpretazione e Traduzione (Sitlec) dell’Università di Bologna; nei tanti amici e studiosi italiani e di “ altre lingue” che molto debbono alla sua vita e alla sua opera; e soprattutto nella sua Romagna che tanto efficacemente ha cantato in versi. Versi ora aspri e ironici ora lirici, nella sua lingua “bastarda” – sempre attento a rimanere lontano dalla retorica e dal folklorico – lingua, “inter-lingua”, dell’alterità e di una geografia ormai distrutta, degradata, “mutata” in un non luogo, nessun altrove, invel, appunto…
Muovendoci da subito in questa prospettiva, a proposito della poesia di Pascoli delle origini – Myricae, per intenderci – infatti, a un certo punto della sua vita umana e artistica (è il 2013) un quasi sessantenne Giovanni Nadiani “confessa” e dice di se stesso: “Non si tratta di meri versi descrittivi o evocativi: lui, ragazzino dell’ancora immota campagna faentina, l’ha sentito davvero lo scampanellare tremulo di cicale, lui s’è perso coi pantaloni corti tra le siepi di melograno e biancospino e tamerici; e il palpito delle trebbiatrici sollevanti nugoli di pula l’ha ancora negli occhi, e negli orecchi l’angelus argentino. Lui sente ancora nei peli grigi del naso l’odore inconfondibile dei fieni allor allor falciati in cui si rotolava scoprendo qualcosa di simile al sesso mentre si beava dei trilli dei grilli, dell’inesausto poetare delle ranocchie, girini sfuggiti alla sua caccia (…), dell’interminato brusio tentennante, inquietante dei pioppi annuncianti un temporale (…). Sì, non erano semplice letteratura quei versi (…) erano la sua vita, erano i suoi giorni, erano il suo posto, la sua casa, la sua melodia diurna e notturna (da Giovanni Nadiani, La pipa di Tucholsky, Homeless Book 2015).
Ecco, Giovanni, Zvan, tutte queste cose le ha sentite, vissute, in pieno boom economico, e di lì a poco – sotto i suoi occhi – tutte quelle cose, insieme alle lucciole, scompariranno dalla sua campagna e non solo. Ma lui le fa diventare lingua, in trasformazione, sì, e anche alter-ego della sua scrittura, della sua poesia. O forse, è lui l’alter-ego della sua attenta sensibile scrittura. Senza scomodare categorie psicoanalitiche potremmo dire – ora che “la morte rende totalità” – che Giovanni ha vissuto una vita di inter-relazione linguistica, e al contempo di relazione con il dolore. Si è fatto – si fa – “tramite della relazione critica (contradditoria) tra il soggetto e il mondo”. Con il suo dolore, autentico, “fino a farlo passare per il corpo, rimuginarlo e restituirlo in forma di poesia, la somma di voce e linguaggio, linguaggio e voce” (Simone Giusti, dalla prefazione a G.N., Il brusio delle cose, Mobydick 2014). Fino a “diventare la lingua che ancora non sa perché ancora non si sa”.
Senza considerare che non è “possibile comprendere veramente la poesia di Nadiani se non si è sensibili allo sforzo doloroso con cui il poeta, per poter scrivere in una lingua determinata, si è dovuto liberare della naturale appartenenza a quella lingua” (Rocco Ronchi, dalla prefazione a G.N., Sens, Pazzini 2000).
È ancora Giovanni che parla di sé: “quei versi potrebbero costituire – e forse costituiscono – il primo manifesto della Heimatlosigkeit, dello spaesamento interiore, linguistico e culturale, ma potrebbero essere – e forse lo sono – anche puro dolore fisico, in cui da lì a poco sarebbe stato sbattuto dal vortice della Grande Trasformazione (…) ancora perdurante, quando avrebbe iniziato ad abbozzare qualche verso sbilenco in lingua sconfitta”. Tutte le parole, le immagini della scrittura di Nadiani, i primi poemetti e poi quelle dell’ultimo doloroso periodo della sua breve e intensa vita, sempre ci riportano allo spaesamento quotidiano, personale e globale: “Era già tutto lì: il suo esser forestiero a casa sua; il suo destino di dover vagare per un mondo altro; il suo certo sapere di un scorpione sotto ogni sasso: la precarietà, l’insufficienza e la fugacità dell’esistenza. Tutto in quella domanda, che resta ancora e sempre senza risposta: dov’ero?” (G.N., La pipa di Tucholsky, Homeless Book 2015).
In una campagna ormai smembrata, “trafitta da viadotti e palafitte industriali”, compaiono relitti di ogni genere, fino al “vecchio aratro-reperto abbandonato dai buoi districarsi come un lombrico nella gleba rinsecchita della tradizione – e’ nostar scorar l’è e’ ritrat de’ / nostar ste un bigat pers trama al terb / sfrisedi avalnedi da no i su padron un / caraton d’pisgh scvadré tra di cùdal sech (il nostro dire è il ritratto del / nostro stare un verme smarrito / tra i campi / sfregiati avvelenati da noi / loro padroni uno / scheletro di filari squadrati tra zolle secche (“Dmenga” da Feriae, Marsilio 1999) e rompere (quindi) con la tradizione regionale, farsi lingua nuova, la lingua che più non si sa, per afferrare e affermare in qualche modo lo sfregio, la lacerazione, la frammentazione inferti (…) alla Terra e all’Umano”.
Ecco, Govanni Nadiani, senza timore di essere smentiti, per questi e altri temi non secondari, per lo sfolgorante significato complessivo del suo discorso poetico, ha lasciato un grande vuoto nel mondo culturale italico sempre più distratto e “coatto”, parafrasando non a caso Pier Paolo Pasolini, a fronte di un potere dei consumi che ricrea e deforma la coscienza del popolo, “fino a una irreversibile degradazione”. E, perciò, per la sua “irredimibile” mancanza, credo sia giusto riproporre la sua opera – che pure viene fatto nella sua Romagna –, ricordare la sua figura. Basterebbe soffermarsi, appunto, sul tema di invel, filo conduttore della poetica e dell’esistenza di Giovanni Nadiani, non solo con una riflessione critica. Forse con una meditazione, o una conversazione a più voci. Con le sue parole dure e struggenti, lucide e folgoranti, i suoi versi in stile “cabaret”, la sua stessa voce tratta dalle tante sue serate in zir par la Romagna alle quali Giovanni aderiva con entusiasmo e disponibilità, una “disposizione” autentica che non gli ha allungato la vita ma per la quale chiunque l’abbia conosciuto lo ricorderà per sempre.

©Gianni Iasimone

Giovanni Nadiani
Da: ANMARCURD, L’arcolaio, 2015

nó ch’a fasen i cvel
sèmpar in freza
pinsènd ch’e’vnirà e’ su dè
ch’a putren lavuré
cum ch’u s’dév
cun tota la chèlma ch’u i vô
par fȅ i cvel fȅt ben…
nó a n‘s ‘n ‘adasen brisa
che chi cvel ch’ a lè
fȅt in prisia e furia
l’era e’ masum
ch’a putegna fȅ
adȅs ch’u s’è fat têrd
l’è bur
e a ngn’ ariven pio dri
nè cun la fôrza
ch’a j aven pèrs
e gnânch cun i dè
ch’a j aven finì
par nȍ scòrar de’ sens
d’fȅ chi cvel
ch’a n’l avden piò invel…

noi che facciamo le cose / sempre in fretta / pensando che verrà il giorno / in cui potremo lavorare come si deve / con tutta la calma che ci vuole / per fare le cose fatte bene / noi non ci accorgiamo / che quelle cose lì / fatte in fretta e furia / erano il massimo / che potevamo fare / ora che si è fatto tardi / è buio / e non ci arriviamo più / né con la forza / che abbiamo perso / e nemmeno coi giorni / che abbiamo finito / per non parlare del senso / di fare quelle cose / che non lo vediamo più da nessuna parte…

Maria Lenti, “Beatrice e le altre: a Dante” (rec. di Maurizio Rossi)

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Maria Lenti, Beatrice e le altre: a Dante, con uno scritto di Loredana Magazzeni e una stampa di Susanna Galeotti,  Vivarte, Urbino, 2022  – plaquette d’arte –

Brevità, perché la poesia ha da essere breve; immagini e musicalità, perché la poesia è pittura e musica; sostanza ed emozioni, perché la poesia è cuore e cervello. Non vuole essere un canone poetico né una critica alla poesia in genere: il mio è il riconoscimento per una poetessa che spazia dal dialetto alla lingua e sa essere ironica, arguta e seria quando è opportuno.
Per chi la conosce come scrittrice sa che già in Elena Ecuba e le altre (2019) Maria Lenti rovescia non solo il punto di vista dell’agire umano e le sue conseguenze, ma anche ribadisce la necessità di ri-leggere la storia e l’arte dopo secoli e secoli di dominio maschile. Non si tratta di ribaltare riaffermando una diversa supremazia, ma piuttosto esprimere il primato dell’ascolto – troppo a lungo sminuito – e dell’accettazione della diversità, come premessa e conseguenza di quest’ascolto.
Lo stesso Dante, uomo del suo tempo, sommo poeta, scivola in una visione “di parte” sulle vicende umane, sui sentimenti e sul pensiero. “Cornice, la tua visione della donna, quasi ectoplasma”, Beatrice non usa mezzi termini, ma neanche la violenza verbale: la nettezza di un desiderio espresso con “potenza” femminile (“Io sono io e l’altro è l’altro che desidero non fermato sulla mia forma ma autonomo nei suoi filamenti esistenziali…”). Lei rivendica un’autonomia che riconosce parimenti all’uomo: c’è nella visione tradizionale della donna  una sorta di obbligo ad essere dipendenti l’uno dall’altra, in bene e in male, a realizzarsi solo con l’altrui o del tutto senza l’altrui.
   Francesca dichiara la propria innocenza e verità e soprattutto la verità dell’amore: “Con Paolo ho imparato l’amore, quello che inizia con lo sguardo che cerca l’anima, quello che s’apre ad un incontro-incanto non inusuale…che condivide parole nuove”. Ben altro che lussuria e peccato e il “libro galeotto” è solo “conferma o sconferma del proprio vibrare in conoscenza”.
Pia de’ Tolomei rinuncia alla vendetta per la probabile sua uccisione da parte del marito, non  per accettazione del proprio destino, che la rende inutile, ma a causa della “limpidezza della propria interiorità” per il “dolce quieto vivere pur nella costrizione”. Ed è questo che suscita il sospetto, e che non viene compreso.
   Piccarda Donati, pur posta da Dante nel Paradiso, sente la necessità di “correggere”  la narrazione della sua vicenda da parte del Poeta – nel contesto del disegno divino la sua scelta e la violenza subìta – dichiarando la sua libertà – in libera mente – che scatena la paura degli uomini e il suo coraggio che viene punito, anziché celebrato come accade spesso per quello maschile.
  Cunizza da Romano risponde alla domanda “mi vinse amore?” in modo schietto e diretto: “Rivolto il detto e ne traggo il succo. Non ho negato le mie vene…Ho preso la mia vita nelle mie mani” e sorride e ride dello scandalo e del paradosso che altri le attribuiscono; ma nello stesso tempo si affranca dalla denuncia storico-politica che Dante le attribuisce, a scapito della sua vicenda umana.
Verso lungo, a tratti prosa poetica: la lucida, libera urgenza del dire chiede cesure, più che versi.
E concludo come nella mia lettura di Elena, Ecuba e le altre: “Bene ha fatto, attraverso la Poesia, Maria Lenti con il ritmo, il canto, l’immagine che Lei conosce ed usa, nella scrittura attenta e originale, non priva di intelligente ironia: la sua Poesia è alchimia che scioglie le sinapsi della mente, ricrea le connessioni tra emisfero destro e sinistro, rende agile, riplasmandolo, il pensiero”.

©Maurizio Rossi

Maria Pina Ciancio, Tre fili d’attesa (nota di Rosaria Di Donato)

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Maria Pina Ciancio, Tre fili dattesa. Con una stampa di Stefania Lubatti. Interventi di Anna Maria Curci e Abele Longo, LucaniArt 2022

 

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». (Cesare Pavese, La luna e i falò).

Forte è il legame che unisce l’Autrice a San Severino Lucano, anche se è nata in Svizzera, dove lei rinviene le sue origini esistenziali profonde. È il suo un canto senza tempo che narra il legame ancestrale con un luogo “sospeso”, nascosto alle cronache, ai media e lontano dai social: quasi una favola antica, un mito che ripropone la vita semplice, essenziale di un paese rurale del Sud. “Tre fili d’attesa”, detto popolare lucano, racchiude l’essenza e il significato di una dimensione antropologica contadina di un mondo ancorato al ciclico corso della natura e al senso tragico dell’esistere: rassegnato all’ineluttabile. “Siamo nidi sfilacciati sugli alberi d’inverno”(pag. 11). Eppure vibrano i versi nel dare vita alle storie di persone e di  cose che custodiscono un vissuto sapienziale conteso tra la vita e la morte, tra il tempo della festa e quello ordinario. C’è un brivido che accende come un vento le vie del paese, i suoi muretti, le stanze delle case e percorre le vene del lettore che si ritrova in Gennaro e Vincenzino, in zio Pietro e la sua casa”pittata” di rosso, in Antoniuccio Vito e Mariuccia, Marietta e Giacomino, Antonella e il suo pallone “rincorso” dai cani…a sussurrare tra le pieghe del tempo:”…a bona sciorta / nu lavoro ca cunta / u capattiempo ca vene sempre chiù luntano” (pag. 8). La stampa di Stefania Lubatti impreziosisce il Quaderno poetico n. 1 di M. P. Ciancio stampato in 65 esemplari firmati e numerati. Resilienti, la poesia e l’arte pittorica si fondono in un abbraccio che rischiara il passato nell’attesa che le radici fioriscano

Rosaria Di Donato

23 Dicembre 2022

Maria Pina Ciancio, di origine lucana, è nata in Svizzera nel 1965. Trascorre la sua infanzia tra la Svizzera e il Sud dell’Italia e da qualche anno vive nella zona dei Castelli Romani. Viaggia fin da quand’era giovanissima alla scoperta dei luoghi interiori e dell’appartenenza, quelli solitamente trascurati dai grandi flussi turistici di massa, in un percorso di riappropriazione della propria identità e delle proprie radici. Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia, alla narrativa, alla saggistica. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo Il gatto e la Maria falena (Premio Parola di Donna, 2003), La ragazza con la valigia (Ed. LietoColle, 2008), Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro (Fara Editore 2009), Assolo per mia madre (Edizioni L’Arca Felice, 2014), Tre fili dattesa (Associazione Culturale LucaniArt 2022). Nel 2012 ha curato il volume antologico Scrittori & Scritture – Viaggio dentro i paesaggi interiori di 26 scrittori italiani.

La forza della verità in “Autobiografia del silenzio” di Cinzia Marulli (di Sonia Giovannetti

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La forza della verità in Autobiografia del silenzio. L’orco e la bambina  (La Vita Felice, 2022) di Cinzia Marulli

“La poesia ha questo compito sublime
di prendere tutto il dolore che ci spumeggia
e ci romba nell’anima e di placarlo,
di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte,
così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare”.
(Antonia Pozzi)

 

Dopo aver letto il nuovo libro di Cinzia Marulli Autobiografia del silenzio sono stata colta da una duplice, fortissima emozione. La prima, più immediata, dovuta al racconto, in versi e in prosa alternati, dell’atroce esperienza vissuta nell’infanzia. Mi è venuto spontaneo immedesimarmi nelle sensazioni di quella bambina, nella paura e nel ribrezzo suscitate in lei dall’atto abominevole di quell’ “orco”. Sarebbero di certo state le mie, ho pensato, se mi fossi trovata al suo posto; e sarebbe toccato anche a me, com’è stato per lei, vivere per tanto tempo col sordo malessere di quel ricordo, acuito dal non averlo saputo confessare al momento. Ma l’altra e altrettanto grande emozione l’ho provata davanti a una scrittura che ha saputo affidare alla parola l’evocazione di una vicenda autobiografica così intima e dolentissima, ma anche, insieme, di importante valore sociale. Una parola, quella di Cinzia, profondamente poetica e di tale misurata drammaticità da riuscire a comunicare un doppio messaggio: la sua avvenuta guarigione, innanzitutto; il superamento di un malessere dell’anima a lungo sopportato. Ma anche, al tempo stesso, un esempio di come la parola della poesia, che Cinzia coltiva con preziosa chiarezza, sia stata essa stessa parte della cura, lenimento di quelle ferite: “La bambola dimenticherà quelle mani sporche…ognuno trova poi il suo riparo/ quel luogo sicuro e sacro dove non sentire”.
Ecco, tutti questi pensieri e queste emozioni acutissime sono affiorati in me sin dalle prime pagine di questo libro “difficile”, difficile sia per chi con coraggio lo ha scritto, sia per chi vorrà leggerlo e farsene carico. Inevitabile, credo, provare una profonda immedesimazione con l’autrice, una donna che, ormai divenuta adulta e madre, è riuscita a mettere a nudo l’anima propria graffiata dalla crudeltà di un “orco”. Un’empatia, nel mio caso – e non perché le sia amica da tempo, pur avendo ignorato a lungo questi suoi dolorosi trascorsi – che scaturisce, oltre che da un sentimento di profonda solidarietà femminile e umana, anche dall’ammirazione per uno stile poetico di limpida apertura sui recessi più riposti della propria interiorità, ai quali Cinzia permette di accedere con apparente semplicità, con ciò dimostrando di non aver smarrito, nonostante tutto, o almeno di essere riuscita a riconquistare una convinta fiducia nel prossimo, negli altri; in quell’umanità tra cui pure sempre si nascondono chissà quanti altri “orchi”  pronti ad aggredire vittime deboli e  innocenti. Ma dimostra anche, con le sue poesie, di aver (ri)trovato fiducia nel vigore dell’amore: in quello accudito nel “grembo”, che ha “il volto meraviglioso del bene”; in quello del padre: “forse sono loro la ragione e il senso della vita”. Fiducia nell’amore ma anche nel perdono, che da quello discende: “Quello che è stato è stato, il male è indietro”, entrambi capaci di richiamare a sé la vita, messa allora in pericolo ma, dopo tanto tempo e tanto lavoro su se stessa, riguadagnata. Di qui la potenza che si sente nei suoi versi: asciutti, efficaci, autentici e intensi.
È la forza della verità, una verità che commuove perché frutto di un sentimento di amore per la vita che, al di là del dolore provato, ha finito per vincere e convincere anche tutti noi che vale la pena di combattere per essa, bene assoluto e inalienabile.


Sonia Giovannetti

 

Annamaria Ferramosca, Come si veste di luce il buio (su “Insorte” di Anna Maria Curci)

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In copertina: “Il borgo fantasma di Celleno” di Luigi Simonetta

Anna Maria Curci, Insorte, Il Convivio Editore, 2022

Lettura di Annamaria Ferramosca

Come si veste di luce il buio

 

Seguo l’indicazione che Anna Maria mi porte nella sua affettuosa dedica e “cammino  lungo i sentieri della poesia in/sorte”. Leggo e rileggo e qui tento di scriverne.  Impressioni che trasmetto attraversando queste pagine in punta di piedi, con gran timore e umiltà, sapendo della mia possibile incapacità di penetrare tutti i messaggi, tutte le metafore e le tante aree profonde di pensiero che Anna Maria dissemina nei versi. Ma ci provo, questa volta con una dose di curiosità raddoppiata, visto il titolo così inaspettato nella sua ambivalenza di senso: Insorte.
Come Giuseppe Manitta dichiara nella sua acuta nota in seconda di copertina, il doppio significato di questo termine è dato dal suo essere participio del verbo insorgere e insieme indicare di stare nella sorte, cioè nella casualità. Mi aspetto dunque di trovare nei testi senso di ribellione e rassegnazione – sempre vigile – alla imprevedibilità della vita, ma sono ansiosa di vederne le declinazioni personalissime che la poeta offre nei testi.
Nella prima delle tre sezioni già il titolo Tragedia e idillio richiama un contrasto che nei testi ispirati a personaggi mitici o della tragedia greca, come in Psyche, Creonte, Kore, Sfinge, sembrano chiedere con forza al mito di far cadere il velo ad ogni ambivalenza delle sue narrazioni. Analoga  richiesta è rivolta ad essenze della natura, come all’Elce, che ha nomi ambigui in due lingue, sospesi nel significato tra offerta di protezione e resistenza, tra rifugio e appiglio, o come al fiume Ciane, per il suo scorrere che è doppia metafora di sosta e ripartenza, addensare e rifluire. Più enigmatiche le richieste che l’autrice si porge / porge, sostando su versi di suoi amati autori come Yeats, Dagerman, Dickinson.
La seconda sezione dal titolo Quando tace il latrato si apre con la poesia eponima che rivela la nostra urgente necessità di silenzio, per porci in ascolto della immensa sofferenza umana, per poter accogliere svelamenti che possono rischiarare il disordine compatto che circonda, definizione ossimorica del mondo, che è caos e pure densa verità celata nel disordine. Seguono testi in distici di grande suggestione, che hanno andamento come di profezie pìtiche, assiomi fieri su cui a lungo riflettere. Forte è l’invito a porsi in ascolto pure di note rivelatrici dalla musica, che la poeta trova nei suggestivi brani del Consorzio Suonatori Indipendenti.
Questa più robusta sezione contiene poesie che appaiono come soste del pensiero su temi essenziali e profondi, come Vigilia, testo sull’attesa della fine che, partendo dalla lettura di un brano poetico di Auden, dice degli attimi durante l’abbandono del corpo, mentre già giungono le voci dall’oltre. E Anna Maria con la sua estrema sensibilità lascia a chi legge la scelta di accogliere queste indicibili voci, che a ognuno parlano in diverse parole, e dunque dalla poeta sottaciute, o di ignorarle.
E qui pure si offrono testi dalla costruzione singolare, che prende l’avvio con una sospensione di senso per poi esplodere in fulminante chiarezza. Esemplare è il testo Nell’angolo del verde che concerta, in cui si parte dall’attesa della primavera tra piante e fiori in boccio, complessa metafora di tutto ciò che viene promesso senza termine e data, cosa che provoca orrore, ma che si apre improvvisamente alla consolazione, se la promessa ha a che fare con l’amore.
Non mancano gli strali, come in La loi quello lanciato sull’omologazione attuale e ovunque imperante, anche nel linguaggio, che rende chi si lascia omologare, servo truccato da padrone.
E nelle pagine successive prende il sopravvento la ribellione severa alla disumanità dilagante di ieri e oggi, e si rivela la sorprendente militanza civile di Anna Maria, che non smette di vigilare e denunciare storture e delitti, come la strage di Ustica o l’assassinio di padre Pino Puglisi.
A chiudere questa sezione è il testo Sottotraccia, che accanto all’amarezza per la violenza  e allo sberleffo lanciato a tutti i malversatori, definisce la necessità di una ostinata opposizione al male, soprattutto quello più subdolo e celato da un perbenismo di facciata. È un’esortazione che la poeta-docente di liceo ogni giorno trasmette ai suoi allievi, come fiero invito a guardare la realtà esercitando lo sguardo critico, non facendosi fuorviare dalla immaterialità virtuale e mai smettendo di praticare quell’attività che affina sensibilità e umanità, che è la lettura. Per cui l’esortazione Tolle, lege, che dà il nome all’ultima sezione, resta l’imperativo da seguire come universale strumento di salvezza.
Mi sento dunque di dire che questa parola poetica, così vicina a una sociologia della letteratura, afferma la sua irrevocabile necessità in questo nostro tempo di crisi. Del resto anche l’appassionato lavoro di poliedrica operatrice culturale che Anna Maria Curci compie sul territorio testimonia il suo costante dialogo con la collettività, il suo tenersi sempre lontana dall’ autoisolamento intellettualistico, frequente prassi di molti scriventi.
Centrale nella terza sezione appare la poesia dedicata a Hölderlin, dal titolo Scardanelli, pseudonimo che il grande poeta si diede nella seconda fase della sua vita creativa, trascorsa rinchiuso in una torre per 37 anni. Holderlin, disconoscendo la sua vita e opera precedente, scrisse le sue Poesie della torre con un tono altro e umilissimo, attendendo la fine; esempio luminoso di negazione di ogni aura autocelebrativa, testimonianza della consapevolezza dell’effimero che tutti siamo, e dell’attenzione doverosa al legame che sempre tutto tiene unito, dall’infimo all’altissimo.

Tutto è connesso,
scriveva in altra firma
un altro te sulla soglia del buio.

E commuove questa postura spontanea di un’autrice che mostra la sua tenace umile devozione ai grandi maestri della parola come per chiedere sostegno e conforto lungo la propria ricerca umana e creativa. Tensione che leggiamo nel successivo intenso testo E ogni giorno, in cui augura a tutti la bellezza di camminare a fianco e, sempre, il dovere della riconoscenza per ogni bene ricevuto. E su questa scia di pensiero l’anima altruista e profondamente cristiana di Anna Maria si lascia trasportare dicendo delle virtù della misericordia, dell’ascolto e della ricomposizione di ogni contrasto. Accanto a questi temi che costituiscono il fermo fondale della sua parola, la poeta continua nel suo giocoso metodo poetico-didattico, divertendosi a nascondere, lasciando tracce da seguire per scavare, approfondire, dilatare, indicando la via maestra della costante curiosità e dello studio, per non fermarsi alla superficie, per continuare a cercare e trovare Nel buio stella.
Siamo dunque invitati a leggere questi versi seguendo ritmo e incanto di curatissimi endecasillabi o di versi perfino di un solo termine, oppure disposti in distici, per sostenere ogni intensa sollecitazione che sempre giunge, portando a un’altezza impensabile di pensiero. Un pensiero che chiede condivisione e che promette quella serenità che inesorabilmente investe chi legge per l’immersione in cieli di inaspettata chiarezza.
E noi che leggiamo sempre confidiamo nella vigile e sognante trobadora-menestrella che cantando continua a farsi guida, vestendo di luce il buio.

Annamaria Ferramosca, ottobre 2022

 

 

Salvatore Statello, Ines de Castro (nota di Norma Stramucci)

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Annotazioni a proposito di: Salvatore Statello, Ines de Castro eroina del balletto pantomimico italiano tra Settecento e Ottocento, Di Nicolò Edizioni, Messina 2021

Salvatore Statello pubblica un libro che, se non fossi stata consigliata a farlo, non avrei letto, credendolo esulare non tanto dai miei interessi quanto dalle mie competenze. Non solo infatti è dedicato all’eroina di melodrammi famosi (tra cui quello del compositore recanatese Giuseppe Persiani, 1835), cioè Ines de Castro, ma nella fattispecie se ne indaga la figura in un settore ben particolare, come specifica il sottotitolo: eroina del balletto pantomimico italiano tra Settecento e Ottocento. Ines de Castro è davvero vissuta a metà del XIV secolo, amata da don Pedro del Portogallo erede al trono, ma avversata dal padre re Alfonso IV, che la fece uccidere a Coimbra il 7 gennaio 1357. Una tragica storia di amore e morte che ha ispirato fondamentali lavori della letteratura portoghese ed europea (Garcia de Resende, António Ferreira, Luís de Camões, Luís Vélez de Guevara, solo per citare alcuni autori), circa una quarantina di melodrammi tra il secondo Settecento e la fine del secolo scorso e numerosi coreodrammi. Un mondo, quello del balletto italiano ottocentesco, tanto affascinante quanto semisconosciuto, che questo interessante volume (il terzo dedicato da Statello al soggetto Ines de Castro) ha il merito di disvelarci.
Giuseppe Canziani, nel 1775 a Venezia -e che successivamente portò il soggetto a Pietroburgo con la sua Inessa de Castro -, Giuseppe Herdlitzka, Domenico Le Fèvre, Antonio Muzzarelli e più tardi Antonio Cortesi e Salvatore Taglioni sono stati i maggiori coreografi che hanno offerto al pubblico la loro versione della storia di Ines. Statello, oltre a dedicare loro una sezione del libro con schede biografiche, ne analizza nel dettaglio i lavori ed è interessantissimo notare quali sono le varianti tra l’una e l’altra versione e scoprirne, insieme all’autore, le motivazioni. Ad esempio, Canziani si ripromette, secondo le teorie illuministiche, di osservare le virtù borghesi, e dunque non presenta Ines nel ruolo di amante ma in quello di sposa segreta; nella rappresentazione romantica di Cortesi Ines non morirà a causa del veleno, ma sulla scena ci sarà un cruento spargimento di sangue, secondo, appunto, il gusto dell’epoca.
A parte il rigore scrupoloso della ricerca, quel che più si apprezza del volume è il suo avere salvato dalla dimenticanza un importante tassello di storia culturale, come pure sottolinea, alla fine della sua Introduzione, dove ci istruisce sul ballo teatrale in Italia tra il XVIII e il XIX secolo, Paola Ciarlantini.

Norma Stramucci

Reiner Kunze, CROCE DEL SUD

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Oggi, 16 agosto 2022, Reiner Kunze, nato a Oelsnitz il 16 agosto 1933, compie 89 anni. Il mio omaggio alla sua poesia avviene anche quest’anno con una traduzione inedita. (Anna Maria Curci)

 

 

CROCE DEL SUD

Notti che ti lapidano

Le stelle precipitano giù
nella loro luce

Tu stai nella loro grandine

Nessuna ti colpisce

Eppure fa male,
come se tutte colpissero

 

Reiner Kunze
(traduzione di Anna Maria Curci)

 

KREUZ DES SÜDENS

Nächte, die dich steinigen
Die sterne stürzen herab
auf ihrem licht

Du stehst in ihrem hagel

Keiner trifft dich

Doch es schmerzt,
als träfen alle

 

Reiner Kunze
da: ein tag auf dieser erde, Fischer Verlag 1999: 56