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Annamaria Ferramosca, Come si veste di luce il buio (su “Insorte” di Anna Maria Curci)

23 domenica Ott 2022

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Anna Maria Curci, Annamaria Ferramosca, Il Convivio, Insorte, Luigi Simonetta, Poesia, recensioni

In copertina: “Il borgo fantasma di Celleno” di Luigi Simonetta

Anna Maria Curci, Insorte, Il Convivio Editore, 2022

Lettura di Annamaria Ferramosca

Come si veste di luce il buio

 

Seguo l’indicazione che Anna Maria mi porte nella sua affettuosa dedica e “cammino  lungo i sentieri della poesia in/sorte”. Leggo e rileggo e qui tento di scriverne.  Impressioni che trasmetto attraversando queste pagine in punta di piedi, con gran timore e umiltà, sapendo della mia possibile incapacità di penetrare tutti i messaggi, tutte le metafore e le tante aree profonde di pensiero che Anna Maria dissemina nei versi. Ma ci provo, questa volta con una dose di curiosità raddoppiata, visto il titolo così inaspettato nella sua ambivalenza di senso: Insorte.
Come Giuseppe Manitta dichiara nella sua acuta nota in seconda di copertina, il doppio significato di questo termine è dato dal suo essere participio del verbo insorgere e insieme indicare di stare nella sorte, cioè nella casualità. Mi aspetto dunque di trovare nei testi senso di ribellione e rassegnazione – sempre vigile – alla imprevedibilità della vita, ma sono ansiosa di vederne le declinazioni personalissime che la poeta offre nei testi.
Nella prima delle tre sezioni già il titolo Tragedia e idillio richiama un contrasto che nei testi ispirati a personaggi mitici o della tragedia greca, come in Psyche, Creonte, Kore, Sfinge, sembrano chiedere con forza al mito di far cadere il velo ad ogni ambivalenza delle sue narrazioni. Analoga  richiesta è rivolta ad essenze della natura, come all’Elce, che ha nomi ambigui in due lingue, sospesi nel significato tra offerta di protezione e resistenza, tra rifugio e appiglio, o come al fiume Ciane, per il suo scorrere che è doppia metafora di sosta e ripartenza, addensare e rifluire. Più enigmatiche le richieste che l’autrice si porge / porge, sostando su versi di suoi amati autori come Yeats, Dagerman, Dickinson.
La seconda sezione dal titolo Quando tace il latrato si apre con la poesia eponima che rivela la nostra urgente necessità di silenzio, per porci in ascolto della immensa sofferenza umana, per poter accogliere svelamenti che possono rischiarare il disordine compatto che circonda, definizione ossimorica del mondo, che è caos e pure densa verità celata nel disordine. Seguono testi in distici di grande suggestione, che hanno andamento come di profezie pìtiche, assiomi fieri su cui a lungo riflettere. Forte è l’invito a porsi in ascolto pure di note rivelatrici dalla musica, che la poeta trova nei suggestivi brani del Consorzio Suonatori Indipendenti.
Questa più robusta sezione contiene poesie che appaiono come soste del pensiero su temi essenziali e profondi, come Vigilia, testo sull’attesa della fine che, partendo dalla lettura di un brano poetico di Auden, dice degli attimi durante l’abbandono del corpo, mentre già giungono le voci dall’oltre. E Anna Maria con la sua estrema sensibilità lascia a chi legge la scelta di accogliere queste indicibili voci, che a ognuno parlano in diverse parole, e dunque dalla poeta sottaciute, o di ignorarle.
E qui pure si offrono testi dalla costruzione singolare, che prende l’avvio con una sospensione di senso per poi esplodere in fulminante chiarezza. Esemplare è il testo Nell’angolo del verde che concerta, in cui si parte dall’attesa della primavera tra piante e fiori in boccio, complessa metafora di tutto ciò che viene promesso senza termine e data, cosa che provoca orrore, ma che si apre improvvisamente alla consolazione, se la promessa ha a che fare con l’amore.
Non mancano gli strali, come in La loi quello lanciato sull’omologazione attuale e ovunque imperante, anche nel linguaggio, che rende chi si lascia omologare, servo truccato da padrone.
E nelle pagine successive prende il sopravvento la ribellione severa alla disumanità dilagante di ieri e oggi, e si rivela la sorprendente militanza civile di Anna Maria, che non smette di vigilare e denunciare storture e delitti, come la strage di Ustica o l’assassinio di padre Pino Puglisi.
A chiudere questa sezione è il testo Sottotraccia, che accanto all’amarezza per la violenza  e allo sberleffo lanciato a tutti i malversatori, definisce la necessità di una ostinata opposizione al male, soprattutto quello più subdolo e celato da un perbenismo di facciata. È un’esortazione che la poeta-docente di liceo ogni giorno trasmette ai suoi allievi, come fiero invito a guardare la realtà esercitando lo sguardo critico, non facendosi fuorviare dalla immaterialità virtuale e mai smettendo di praticare quell’attività che affina sensibilità e umanità, che è la lettura. Per cui l’esortazione Tolle, lege, che dà il nome all’ultima sezione, resta l’imperativo da seguire come universale strumento di salvezza.
Mi sento dunque di dire che questa parola poetica, così vicina a una sociologia della letteratura, afferma la sua irrevocabile necessità in questo nostro tempo di crisi. Del resto anche l’appassionato lavoro di poliedrica operatrice culturale che Anna Maria Curci compie sul territorio testimonia il suo costante dialogo con la collettività, il suo tenersi sempre lontana dall’ autoisolamento intellettualistico, frequente prassi di molti scriventi.
Centrale nella terza sezione appare la poesia dedicata a Hölderlin, dal titolo Scardanelli, pseudonimo che il grande poeta si diede nella seconda fase della sua vita creativa, trascorsa rinchiuso in una torre per 37 anni. Holderlin, disconoscendo la sua vita e opera precedente, scrisse le sue Poesie della torre con un tono altro e umilissimo, attendendo la fine; esempio luminoso di negazione di ogni aura autocelebrativa, testimonianza della consapevolezza dell’effimero che tutti siamo, e dell’attenzione doverosa al legame che sempre tutto tiene unito, dall’infimo all’altissimo.

Tutto è connesso,
scriveva in altra firma
un altro te sulla soglia del buio.

E commuove questa postura spontanea di un’autrice che mostra la sua tenace umile devozione ai grandi maestri della parola come per chiedere sostegno e conforto lungo la propria ricerca umana e creativa. Tensione che leggiamo nel successivo intenso testo E ogni giorno, in cui augura a tutti la bellezza di camminare a fianco e, sempre, il dovere della riconoscenza per ogni bene ricevuto. E su questa scia di pensiero l’anima altruista e profondamente cristiana di Anna Maria si lascia trasportare dicendo delle virtù della misericordia, dell’ascolto e della ricomposizione di ogni contrasto. Accanto a questi temi che costituiscono il fermo fondale della sua parola, la poeta continua nel suo giocoso metodo poetico-didattico, divertendosi a nascondere, lasciando tracce da seguire per scavare, approfondire, dilatare, indicando la via maestra della costante curiosità e dello studio, per non fermarsi alla superficie, per continuare a cercare e trovare Nel buio stella.
Siamo dunque invitati a leggere questi versi seguendo ritmo e incanto di curatissimi endecasillabi o di versi perfino di un solo termine, oppure disposti in distici, per sostenere ogni intensa sollecitazione che sempre giunge, portando a un’altezza impensabile di pensiero. Un pensiero che chiede condivisione e che promette quella serenità che inesorabilmente investe chi legge per l’immersione in cieli di inaspettata chiarezza.
E noi che leggiamo sempre confidiamo nella vigile e sognante trobadora-menestrella che cantando continua a farsi guida, vestendo di luce il buio.

Annamaria Ferramosca, ottobre 2022

 

 

Reiner Kunze, CROCE DEL SUD

16 martedì Ago 2022

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Anna Maria Curci, anniversari, croce del sud, ein tag auf dieser erde, Fischer Verlag, kreuz des südens, Poesia, Reiner Kunze, traduzioni

 

 

 

 

Oggi, 16 agosto 2022, Reiner Kunze, nato a Oelsnitz il 16 agosto 1933, compie 89 anni. Il mio omaggio alla sua poesia avviene anche quest’anno con una traduzione inedita. (Anna Maria Curci)

 

 

CROCE DEL SUD

Notti che ti lapidano

Le stelle precipitano giù
nella loro luce

Tu stai nella loro grandine

Nessuna ti colpisce

Eppure fa male,
come se tutte colpissero

 

Reiner Kunze
(traduzione di Anna Maria Curci)

 

KREUZ DES SÜDENS

Nächte, die dich steinigen
Die sterne stürzen herab
auf ihrem licht

Du stehst in ihrem hagel

Keiner trifft dich

Doch es schmerzt,
als träfen alle

 

Reiner Kunze
da: ein tag auf dieser erde, Fischer Verlag 1999: 56

“Un bel giorno sarà estate”: Intervista a Giovanna Amato

21 martedì Giu 2022

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Anna Maria Curci, fvə editori, Giovanna Amato, interviste, Un bel giorno sarà estate

Il blog “Lettere migranti” ospita oggi il dialogo con  Giovanna Amato intorno al suo romanzo Un bel giorno sarà estate, pubblicato da fvə editori nel 2021. Buona lettura! (Anna Maria Curci)

 

  1. Tonio, il protagonista di Un bel giorno sarà estate, è un –bot. La sua origine lo distingue dunque dagli umani. Intensità, concentrazione, capacità di muoversi nei territori del sublime e dell’assoluto, essere estraneo, essere alieno accomuna senz’altro Tonio a tanti suoi affini letterari – la schiera è lunga e varia, ma Tonio ha tratti che lo rendono unico. L’idea del romanzo è scaturita nel tuo progetto dalla ‘natura’ del protagonista o da un altro nucleo?

L’idea del romanzo è scaturita dalla natura dell’amore, se posso permettermi la superbia di poter ragionare su un colosso concettuale del genere. Mi ero focalizzata su un’idea in particolare. Volevo credere possibile un amore disinteressato, svincolato dalla speranza di essere ricambiato, sensuale indipendentemente dalla quantità di erotismo (non di sesso, di erotismo) e dal lessico familiare, che è forse il vero tavolo su cui si gioca la partita di un legame amoroso. Volevo controllare se fosse possibile senza che il suo detentore si votasse a un destino di rinuncia e sofferenza. In parole povere: esiste un amore scevro dal possesso e che non si disperi, ma allegramente si nutra di sé? Creare un -bot è stata una bieca manovra per non annoiare con la dinamica lui-ama-lei e soprattutto con la dinamica ecco-cosa-si-prova-in-amore, di cui il libro è pieno e che poteva esserlo solo a patto di qualche sotterfugio. Il sotterfugio è il -bot. Per Tonio, incapace di amare senza il supporto chimico delle sue pillole, la scoperta della fisiologia dell’amore è una novità: questo mi permetteva di parlarne senza risultare lapalissiana o ridondante. Quindi la natura di Tonio è consequenziale ma anche vagamente tangenziale. Mi occorre. Ma mi occorre a pronunciare l’inesplorato del sentimento amoroso, che è il paesaggio della domanda che nel libro si staglia come un dolmen: è possibile amare con tanta intensità da – lungi dall’annullarsi – fare di questa intensità nutrimento per entrambi? Tempo fa leggevo Guerra d’infanzia e di Spagna, e a un certo punto Ramondino usa una frase folgorante per descrivere l’innamoramento, che io trovo verissima e che Tonio approverebbe: «spesso mi pareva che non avrei mai potuto sopportare neppure i successivi cinque minuti». Maneggiare il sublime, come dici tu, essere estraneo perché separato, perché «sacro», perché per nulla sicuro (né particolarmente interessato) di arrivare al minuto numero sei per la detonante regalità che ci abita: volevo descrivere esattamente quei cinque minuti, a cinque minuti per volta.

  1. La scuola è il luogo in cui sono ambientate molte scene del romanzo. Tonio si trova lì con un preciso incarico del governo, quello di svolgere l’ora settimanale di «dismisura creativa». Proprio lì Tonio incontra Maria e, con lei, una dimensione nuova, molto vicina a quella che per i poeti è la soglia sull’abisso e, d’altro canto, lo stupore incommensurabile. Dove risiedono le ragioni della scelta della scuola come luogo privilegiato delle vicende narrate?

La scuola è la mia casa, da più di dieci anni. L’anno in cui ho scritto questo libro, un’imbarazzante primavera di cinque anni fa, avevo quattordici classi, le riunioni si facevano in presenza, da ciò si desume che la scuola era letteralmente la mia casa. Avevo la borsa piena di libri e pranzi e bevande in una sacca a parte. Ma la scuola è il luogo in cui un ragazzo di undici anni scopre per la prima volta che si può amare al punto da chiedere al principe guerriero che si è sposato di non andare in guerra, e farlo deridere dall’intera città. Si proietta alla LIM il volto dell’Andromaca di De Chirico che affonda nella clavicola del suo amore, e si è già detto tutto riguardo agli umani. La scuola è l’addestramento alla bellezza, a quelli che tu chiami abisso e stupore. Ed è un luogo che permette ai due attori del mio libro di vedersi quotidianamente: senza, mancherebbe il puntello logico per cui Maria, piacevolmente assediata ma pur sempre logica nelle sue azioni, dovrebbe stare con Tonio in una routine quotidiana, lunga e condivisa. Ma non sono né partita da questo né sono andata a cercarlo dopo aver messo a fuoco un’esigenza narrativa. L’ho scritto, perché era vero. Questo è il criterio, quando butto nove libri ogni volta che ne scrivo due.

  1. All’inizio del capitolo 11, dinanzi «ai cesti del fruttivendolo», prende vita una fantastica esplosione di colori, puri e mescolati, caldi e freddi, vividi e, allo stesso tempo, portatori di simboli. Sembra di trovarsi di fronte a una contemporanea rivisitazione del “blason des couleurs” medievale, con ogni tonalità cromatica emblema e portatrice di un universo. L’accostamento è verosimile o si tratta della mera interpretazione di chi legge e si appropria del libro che, una volta pubblicato, consegnato alla lettura, diventa «il libro di tutti»?

Proprio perché mi piace remare contro all’idea di libro di tutti, che rispetto e condivido ma contro cui mi piace molto giocare, sono una vera serpe quando c’è da descrivere. Il cortile di scuola non può essere altro cortile se non barando di fantasia. E Maria ha i suoi bravi dettagli, lanciati come un dado e che la inchiodano a una certa maniera. Si dice che ha la bellezza di una mantide. Che ha gli zigomi alti, da tartara. A questo proposito, l’incredibile copertina che fve editori mi ha regalato, a opera di Francesca Bianchessi, accosta un goniometro alla gota di una donna stilizzata. Maria è impressa, non è di tutti: a rendere chiara la scivolata di colore dei suoi occhi c’è una metafora così lunga che riguarda l’intera ricerca del giusto guscio di frutta secca al bancone di un mercato. Tonio ha un problema, con gli occhi di Maria. C’è uno studio secondo il quale innamoramenti molto violenti possono generare un’amnesia dei tratti somatici dell’altro, che può essere decodificato solo in presenza. Esiste una zona del cervello precisa che interpreta i volti, ma l’innamoramento rende così traumatico il viso da creare un deficit di comprensione dei dati a livello di quella zona. Terribilmente affascinante, e fastidioso, lo dico da vittima di questa perenne fornitura di nostalgia. Tonio ricorda Maria, è pur sempre un -bot. Ma è completamente incapace di capire i suoi occhi, che vanno dal verde al castano con qualche irritante spruzzata di rosso. È lo stesso processo di mancata lettura, dovuto a questo amore irrequieto. Così vorrebbe quasi tenere in tasca un talismano che la rappresenti, che sia il suo occhio. Non gli basta capire di quale legno abbia il colore d’occhi: in una fervenza da bestiario medievale, se ne vuole impossessare.

  1. A proposito della scelta di Tonio, ho scritto di un atto di ribellione, temerariamente ponderato, all’economia del dare e dell’avere, alla logica dell’utile, perfino al capriccio di colei che, pur indietreggiando dinanzi all’abbagliante gratuità, non vuole rinunciare a essere idolatrata. “Discorrere d’amore” non è mai stato così sovversivo, non trovi?

Adoro l’immagine che allarga l’amore alla logica dell’utile. Adoro che di Maria si noti quella punta di vanità, che non è la lusinga, del tutto innocente, ma qualcosa di più malizioso. Trovare l’accoglienza magari lusingata ma senza giochini di potere è cosa rara. Eppure, nonostante la vanità o forse proprio per questo, Maria è preda di quella logica dell’utile da cui Tonio è affrancato. Anche per lei, angosciata all’idea di non corrispondere e quindi di essere-da-meno, l’amore è derubricato a questione da dover ricambiare come un pranzo con dei conoscenti. Un amore che dia, che sia appagato dal suo dare, è ancora socialmente inopportuno, come minimo manchevole o sofferente. Tonio non ha neanche il tempo di farci caso, non è una questione di scegliere. La scelta di Tonio semmai non è solo la scelta di assumere delle droghe, ma di continuare a farlo. E questa non è mai una dipendenza dall’effetto in sé: Tonio è estraneo a masochismi e dipendenze. Lui vuole continuare a ricreare la purezza di un sentimento. Per lei, apparentemente, ma soprattutto perché è per sé stesso che vale la pena. Il punto non è essere ricambiati, ma essere felici: e quale altro -bot si è mai annullato addosso la dicotomia tra dolore e meraviglia? Tonio è appagato, perché gode in maniera entusiasta e curiosa del moto perpetuo di questo sentimento. Ed è puro, non perché esente dal desiderio e dal sesso (il corpo è anzi molto presente nello strazio di non poterlo toccare, nell’incanto di clavicole, capelli, dettagli). Purezza non vuol dire astrazione. Vuol dire ubbidienza a un sentimento senza risparmio. Tonio ha scoperto la nostra dismisura: se noi avessimo il modo di scoprire la sua, questo disinteresse senza infelicità, saremmo questa parola che tu dici e che mi piace. Sovversivi. Ma ho il veleno nella coda, e propongo dall’altro lato una triste verità: forse non c’è reale via d’uscita. Chi dà può raggiungere la gioia dell’agape, ma è la persona che amiamo che, anche nell’innocenza della lusinga e fuori dalla logica dell’utile in cui è Maria, si sentirebbe-da-meno, come quando si ha in mano un regalo troppo prezioso. Chi ama, forse, lo fa per sé, e questo non è esente da una forma di egotismo. Chi dona, può; il peso è di chi riceve. Sotto questo cielo, insomma, forse l’amore disinteressato non ha via alcuna.

Anna Maria Curci – Giovanna Amato

Ottavio Olita, Sulle tracce di Almeida

30 sabato Apr 2022

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Almeida Garrett, Anna Maria Curci, IsolaPalma, Ottavio Olita, recensioni, romanzi, Silvano Tagliagambe, Sulle tracce di Almeida

Ottavio Olita, Sulle tracce di Almeida. Postfazione di Silvano Tagliagambe, IsolaPalma 2021

Da un moto di sacrosanta insofferenza, di giusta rabbia, scaturiscono prima una lettera del giovane protagonista Luca Mulas, poco più che ventenne, poi la serie di eventi, luoghi, personaggi e scoperte che popola Sulle tracce di Almeida, il romanzo più recente di Ottavio Olita.
La lettera, scritta nel 2019 e lasciata dal giovane alla madre Valeria, medico a Cagliari, spaventa quest’ultima, giacché Luca appare fermamente intenzionato a far perdere le sue tracce dopo esser partito dalla città. È una lettera che denuncia il degrado di un paese nel quale l’esclusione degli ultimi, la violenza – razzista, antisemita, fascista – sono tornati a trionfare; è una lettera che, d’altro canto, rivela una assunzione di responsabilità, una ‘auto-mobilitazione’: Luca scrive che ritiene che spetti alla propria generazione muoversi, camminare, conoscere, aiutare, avere cura, agire per opporsi alla colpevole indifferenza.
Valeria teme in un primo momento che Luca pensi a una rivolta, violenta anch’essa come il male che si propone di sconfiggere; consigliata dall’amica Nerina, si rivolge al giornalista Nicola Auletta.
Cominciano così da un lato le ricerche, condotte discretamente dal capitano dei carabinieri Gino Murgia – una presenza costante, insieme al già menzionato Nicola Auletta e all’avvocato Giuliano Deffenu, nei romanzi di Ottavio Olita –; dall’altro lato prendono le mosse le tappe di avvicinamento a quella che sarà o, per essere più precisi, diventerà una delle mete del suo cammino, che si presenta, come nei due romanzi di formazione per eccellenza, che Goethe costruisce intorno alla figura di Wilhelm Meister (Wilhelm Meisters Lehrjahre e Wilhelm Meisters Wanderjahre), come “apprendistato” e “viaggio”: Porto.
Dopo Cagliari, ci sono infatti Bologna, città nella quale Luca incontra altri giovani e si scontra con le fasce più violente dello scontento nei confronti della realtà sempre più disgregata e iniqua e di una classe politica vana e corrotta; Padova, dove conosce Beatriz Alves, Madrid, dove si ferma per qualche tempo e, grazie a Gianni Gentili, figura paterna e sollecita, riesce a partecipare in prima persona a iniziative di incontri culturali, e infine Porto, dove sarà proprio Beatriz, Bea, a invitarlo. Ma il ventaglio nutrito di luoghi si dispiegherà ulteriormente, a mostrare Lisbona e, di nuovo in Spagna, la Navarra; con un ricordo drammatico del personaggio dell’avvocato Rafael Melis Pilloni, anche Gonnosfanàdiga nel Campidano nel terribile bombardamento del 17 febbraio 1943.
A Porto, dove la storia d’amore tra Bea e Luca crescerà, Luca conosce i nonni paterni di Bea e Caetana, amica di Bea, che, a sua volta, lo introdurrà alla scoperta di Almeida Garrett.
La figura di Almeida Garrett è, come suggerisce il titolo stesso del romanzo, centrale in tutta la vicenda. Lo scrittore, giornalista e politico ottocentesco João Baptista da Silva Leitão de Almeida Garrett, pensatore profondo e brillante, sostenitore e propugnatore del liberalismo e del costituzionalismo, si rivela guida spirituale nel viaggio tra memoria e futuro di Luca Mulas.
In questo vero e proprio viaggio di conoscenza – e il viaggio di conoscenza, metafora e sale di una vita piena di senso è un concetto cardine – si illuminano alcuni sentieri, che possono essere considerati vere e proprie piste di ricerca per chi legge e si inoltra tra le pagine del romanzo Sulle tracce di Almeida.
Il primo sentiero è quello della pluralità, di luoghi, di culture, di etnie: l’epigrafe dall’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti è indicativa di un filo conduttore che sarà intrecciato per tutto il corso del libro, per culminare in un progetto, un’iniziativa che promuove e diffonde l’incontro tra i popoli. La pluralità di lingue parlate e ‘frequentate’ dai personaggi del romanzo è un aspetto importante, accompagnato dalla cura di Ottavio Olita, che è stato, ancor prima che giornalista, docente universitario di lingua e letteratura francese, di “fare esprimere ciascuno nel proprio idioma”, come egli stesso ha avuto modo di dichiarare il 27 aprile 2022 a Roma, in occasione della presentazione del libro alla Fondazione Murialdi.
Il secondo sentiero è quello della formazione, attraverso i maestri: non solo i professori, come Acúrsio Souza e, successivamente, Giorgio Mingardi, ma coloro che della loro vita hanno fatto testimonianza, dai personaggi Gianni Gentili e Rafael Melis Pilloni, ai sacerdoti don Luigi Ciotti e don Tonino Bello, menzionati da Eleonora, nonna materna di Luca, nella sua lettera-lascito al nipote. Nella formazione hanno un ruolo fondamentale i nonni: nonna Eleonora per Luca, nonna Isabel e nonno Jorge per Bea. I nonni sono punto di riferimento, interlocutori prediletti, fonte e meta di affetto incondizionato, sapienza di vita.
Il terzo sentiero riguarda la dimensione politica, nel senso più alto del termine, dell’esistenza. Come contrapposizione alla sciatteria, alla corruzione, all’opportunismo, all’interesse privato, essa è indissolubilmente legata all’assunzione di responsabilità. La dimensione politica, nelle aspirazioni che vanno progressivamente chiarendosi agli occhi dei giovani protagonisti, Luca, Bea, la loro amica Caetana, appare armoniosamente allacciata alla passione culturale, artistica e letteraria, senza scissioni, come dimostra la vicenda esemplare di Almeida Garrett. La tensione spirituale, la spinta degli ideali è accompagnata e sostenuta dalla solidarietà nei confronti di chi ne ha maggiormente bisogno. La politica non può pensare di fare a meno della bussola del sapere: il punto di vista dell’autore è messo nel giusto rilievo da Silvano Tagliagambe nella lucida e chiara Postfazione.
Il quarto sentiero riguarda la testimonianza di umanità ai tempi dell’emergenza. Il diffondersi del virus Covid-19, le misure adottate per fronteggiarlo, le restrizioni, il mutamento drastico della quotidianità e l’irrompere del lutto sono temi che entrano con la loro urgenza nel romanzo, insieme al quesito: quale è la responsabilità del singolo e della comunità civile dinanzi all’imprevisto, all’imponderabile? La pandemia, la guerra non possono, non devono sospendere la pietas e, con un raggio più ampio e inclusivo, la compassione («con-dolore», per ricorrere a un concetto centrale nella scrittura di Hilde Domin che, come Almeida Garrett, dall’esilio ritornò con l’impegno di chi costruisce pace), il sentimento profondo di umanità.

© Anna Maria Curci

 

Conoscere Almeida Garrett è servito a farmi nascere un margine di speranza. Per sostenere i suoi ideali affrontò prima il carcere, poi l’esilio durante il quale seppe anche dare una più precisa definizione di qual particolare sentimento di nostalgia che è la saudade; si mise in relazione con il nuovo che stava nascendo in tutta Europa, sia in politica, sia in letteratura; capì quale grande funzione avrebbe potuto svolgere il giornalismo d’inchiesta e per praticarlo creò due diverse testate, una successiva all’altra; prese parte attiva al grande movimento liberale che stava nascendo e crescendo in Portogallo, grazie anche al suo contributo di poeta, romanziere e drammaturgo.
Tradusse la sua elaborazione teorica in opere che segnarono il suo tempo e che fecero rinascere la passione dei portoghesi per le proprie tradizioni popolari. Utilizzando il suo romanzo più importante, Viagens na Minha Terra non solo come opera narrativa, ma anche come testo storico e filosofico, seppe mettere insieme efficacemente intrattenimento e diffusione della conoscenza.
Fondamentale, nella sua esperienza di vita e professionale, è stato l’interscambio con le grandi culture europee del tempo, da quella inglese, a quella francese, a quella tedesca. Uno scossone per quegli anni nei quali il suo Paese rischiava di sprofondare nella palude dell’ignoranza voluta dall’assolutismo.
Perché non rilanciare uguali modalità d’intervento oggi, in tempi nei quali sembra prevalere l’ossessione della chiusura culturale, politica, etnica, nei propri confini nazionali? Un’egemonia che impoverisce, invece che arricchire, proprio come l’assolutismo di allora. (p. 198)

 

Ottavio Olita, da 40 anni giornalista – dopo sei anni di insegnamento universitario – negli ultimi tre decenni si è dedicato ai libri. Prima saggistica, poi narrativa. Questo è il suo ottavo romanzo. Scrive con il PC sulle ginocchia, le idee migliori gli vengono camminando, poi le trascrive ascoltando musica: Rossini, Mozart, Bach, ma anche Beatles, Edith Piaf, Mina.
Ama i gatti.

 

Maria Gabriella Canfarelli, Memento

25 lunedì Apr 2022

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25 aprile, Anna Maria Curci, edizioni Cofine, Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana, Maria Gabriella Canfarelli, Memento, Poesia italiana contemporanea


Per questo 25 aprile 2022 propongo la lettura di alcune poesie che Maria Gabriella Canfarelli ha scritto in Memento. Dalle Lettere di condannati a morte della Resistenza Italiana (Edizioni Cofine 2021), insieme alla mia prefazione. «Ricordare, ricondurre al cuore vicende, destini, scelte e sorti di donne e uomini attraverso una poesia, “parola che fa accadere”, che riprende, condensa, illumina il dettato di quelle ultime missive, congedo e lascito, commiato e impegno»: questo è il dono, testimone e pegno, che Maria Gabriella Canfarelli ci offre anche oggi, Festa della Liberazione.

 

Ricordare, ricondurre alla mente e al cuore: Memento di Maria Gabriella Canfarelli

 

L’imperativo, formulato in latino, è l’invito posto come titolo della propria raccolta da Maria Gabriella Canfarelli: Memento. “Ricorda!”, dunque, è l’esortazione che si fa incontro a chi legge i componimenti in versi che sono nati e si sono sviluppati dalla frequentazione – meditazione, discesa in profondità, testimonianza – con le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana.
Ricordare, ricondurre al cuore vicende, destini, scelte e sorti di donne e uomini attraverso una poesia, “parola che fa accadere”, che riprende, condensa, illumina il dettato di quelle ultime missive, congedo e lascito, commiato e impegno: in un tale proposito scorgo l’intendimento di dare consistenza, forma compiuta e vibrante di spazi e di silenzi, al grande dimenticato dell’oggi, al senso del tragico.
Con l’espressione “senso del tragico” non alludo tanto (non soltanto, almeno) all’epilogo, all’interruzione violenta dell’esistenza terrena, che accomuna le biografie alle quali Maria Gabriella Canfarelli conferisce voce poetica, quanto piuttosto al conflitto permanente, a quella che Salvatore Natoli definisce come «contraddittorietà delle sorti umane strette tra caso (Týche) e necessità (Anánke)».
Nella visione tragica del mondo c’è uno spazio che l’umano può riempire, c’è la risposta a ciò che si manifesta come ineluttabile, e ha un nome e un’esistenza: responsabilità. Della presa in carico della responsabilità nell’esserci, per sé e per gli altri, con sé e con gli altri, riluce la poesia di Memento.
Il sottotitolo Dalle lettere di condannati a morte della Resistenza italiana palesa fin dall’inizio che la prima lettura e le successive riletture di un determinato volume, proprio quello indicato nel sottotitolo, sono indubbiamente state tappe importanti nella stesura dei testi di Memento.
Leggere insieme Lettere e Memento aiuta senz’altro a identificare le voci, a dare loro un nome; sono quelle, per menzionarne alcune, di Walter Magri, Giacomo Cappellini (Il Maestro), Paola Garelli (Mirka),  Antonio Fossati, Eraclio Cappannini, Pietro Benedetti, don Aldo Mei, Giulio Biglieri, Raffaele Giallorenzo, Paolo Braccini (Verdi), Maria Luisa Alessi, Irma Marchiani (Anty), Leone Ginzburg, Renato Molinari, Umberto Ricci (Napoleone).
È un ulteriore viaggio nella memoria, questa lettura comparata, che nulla toglie, tuttavia, all’intervento poetico di Canfarelli. Ne esalta, al contrario, la capacità di dare vita a versi la cui limpidezza, la precisione delle immagini, la partecipazione commossa che si fa ritmo, misura, cadenza, imprimono tracce profonde nelle percezioni e nelle rappresentazioni di chi a Memento si accosta e ne percorre le pagine vive di presenze e vicende.
D’altro canto, leggere Memento ancor prima di riprendere in mano il volume delle Lettere, attraversarne i testi ed addentrarsi nella loro architettura, nella loro partitura, è un procedimento che conduce alla scoperta della caratteristica principale di questa opera di Maria Gabriella Canfarelli: l’equilibrio tra l’intuizione profonda dello stato d’animo, di volta in volta ritratto e restituito, e la sapienza compositiva.
I trentacinque testi di Memento sono tutti condensati in un’unica strofa, la cui lunghezza varia, tuttavia, tra sei, otto, nove o undici versi. Anche la misura metrica è diversificata: settenari («Non più di un giorno al mese») si alternano a ottonari («qualcuno ordinava: Aprite!»); a novenari («in un’ora viola e imprecisa»), a decasillabi («clandestina al tramonto sui monti») e a endecasillabi («che le parole senza fiato incorda»; «fasciata nella nebbia novembrina») si affiancano versi formati dall’accostamento di un quinario e di un settenario («che non sapete, come stretto mi tiene») o di un settenario con un novenario («la pistola tedesca, il colpo sparato alla nuca»).
Quando l’attacco di una poesia è costituito da un decasillabo («Ho vissuto contando le ore»; «In piedi, sulla porta socchiusa») o da un doppio decasillabo («Pensavo di incontrarti a Torino/ ma un agguato mortale aspettava»), anche il ritmo induce all’associazione con il canto dei salmi nella Bibbia. Altri importanti richiami biblici si riferiscono, tra l’altro, al lamento nella cattività («annodato all’orecchio di un Dio/ che non mi sente») o al tradimento («chiacchiere alle orecchie di giuda»).
Le poesie di Memento iniziano tutte con un verso che viene trascritto in corsivo: colei o colui che ‘scrive’ richiama l’attenzione con una frase che introduce in maniera incisiva al breve monologo nel quale riferisce i fatti che hanno condotto alla sentenza, rievoca il passato comune, rivendica le proprie scelte – dolorose, laceranti per sé e per i propri cari, ma scelte: non è dato, come ricordava Gustavo Zagrebelski nell’introduzione alle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, lo stare alla finestra, l’opportunistico prendere tempo, il non schierarsi -, richiede conforto, comprensione, perdono per la sofferenza del distacco, ricordo come esercizio vivo della memoria.
La densità di tutti i versi e, in particolare, dei versi iniziali, ha fatto tesoro di una lunga consuetudine con costrutti e forme della prosa in latino: un esempio significativo è l’incipit «Da pochi istanti emessa la sentenza», che discende da un ablativo assoluto latino e rende con un perfetto endecasillabo la situazione dalla quale l’io poetico di quella determinata poesia (la prima di pag. 18) articola la propria testimonianza.
La forma verbale prevalente è, esattamente come nel titolo, quella dell’imperativo o, in alternativa, quella del futuro con valore di esortazione («l’epitaffio per me. Farete scrivere:/ Resistere è un dovere non da poco»), una “parola” (parola che si fa alleanza, patto e, ancora una volta “parola che fa accadere”) che diventi la prosecuzione di un impegno: «Comando a voi tutti prudenza, non vi fidate», insieme alle ultime volontà: «sigillatemi il cuore,/ gli occhi, la bocca, le braccia conserte/ nella terra di Sestola».
Un imperativo che è, insieme, consegna del testimone di una “parola che fa accadere”, è nei versi di pagina 15, che non ripropongono soltanto alcuni passaggi della lettera a Settimo Costantino di Giulio Biglieri, fucilato il 5 aprile 1944 da un plotone di militi della guardia nazionale repubblicana al poligono nazionale del Martinetto di Torino, ma compiono un passo ulteriore:

Conserva invece i miei versi
non per farli stampare, li darai a mio nipote
perché viva di me, con i libri, la parte
migliore.

Questi di Maria Gabriella Canfarelli in Memento sono versi che, insieme alla memoria, affidano a chi legge un lascito consistente e coinvolgente per l’oggi.

© Anna Maria Curci

Non avrò altri giorni
con te, non verrà il tempo per due.
Mi avresti reso felice, lo so.
Ti prego, Vittoria, resisti.  Dovrai essere
forte, e non morire di dolore
per me che lascio la luce intensa, pulita
di questo mattino e la respiro a fondo
ed è l’ultima volta (non potrò più
stringerti, mai più la bocca coprire di baci).

***

Mimma, un giorno ti diranno
saprai che la tua mamma non ha avuto
un processo giusto o ingiusto che fosse.
I tuoi piccoli anni orfani
come un dolore attorcigliato adesso
sfiancano le poche, necessarie parole
raccolte per te. Non ti vedrò
crescere, altri ti alleveranno:
perdona la brutale sparizione,
l’assenza non voluta.

***

L’ufficio, le scartoffie
i giorni mi stavano stretti
(mentre altri morivano). Staffetta partigiana
clandestina al tramonto sui monti,
portavo il pane e le armi. E una notte
di calma sospetta, mi hanno presa
al ritorno, arrestata sull’uscio di casa.
Comando a voi tutti prudenza, non vi fidate,
non parlate coi vostri vicini, non date inutili
chiacchiere alle orecchie di giuda.

***

Abbiamo pochi minuti
sarò il primo a passare la porta.
Madre, prega per me se credi
possa fare la fede del bene
al tuo dolore.
Amici, compagni di lotta
venite a prendermi: troverete
il mio corpo dove l’hanno lasciato
– di qua dal ponte, nei pressi
della scuola cantoniera.

***

Conserva fino all’ultimo
respiro dell’anima tua
il ricordo di me, custodisci
questo mio scritto sempre
per non dimenticare. E di portare
fiori alla fossa e di parlarmi, non
dimenticare. Tienimi accanto
come fossi vivo, tienimi sin d’ora
ch’è l’ora del tramonto
e tanto nevica, e batte i denti
l’ultima parola.

Maria Gabriella Canfarelli, Memento. Dalle Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana. Prefazione di Anna Maria Curci, Edizioni Cofine 2021

Rolf Bossert, Temporale

17 giovedì Feb 2022

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Anna Maria Curci, Gewitter, Herta Müller, Herztier, Poesia, Rolf Bossert, Schöffling & Co., Temporale, traduzioni

Nel romanzo Herztier (tradotto da Margherita Carbonaro con il titolo Cuoreanimale) Herta Müller, premio Nobel per la Letteratura nel 2009, presenta il personaggio di Georg, uno degli amici dell’io narrante femminile, anche lui appartenente al gruppo degli scrittori rumeni di lingua tedesca, provenienti dalla regione del Banato. Dietro il nome di Georg si celano versi (soprattutto quelli della poesia Neuntöter – Lanius collurio, ovvero “averla piccola”) e vicende di Rolf Bossert, morto il 17 febbraio 1986 a Francoforte sul Meno, pochi mesi dopo aver ottenuto l’espatrio dalla Romania in Germania. Il corpo steso sul selciato, la finestra aperta. Le circostanze della sua morte non sono state mai chiarite. La poesia Gewitter, “Temporale”, appartiene al gruppo di poesie scritte da Bossert dopo aver fatto richiesta di espatrio, richiesta avanzata nel luglio 1984 e che gli costò una brutale aggressione con frattura della mascella, un interrogatorio della “Securitate”, i servizi segreti agli ordini di Ceauşescu e il divieto di pubblicazione delle sue opere, considerate l’espressione di un “nemico dello Stato”.
Oggi, 17 febbraio 2022, a trentasei anni dalla morte di Rolf Bossert, il mio omaggio alla sua voce e alla sua poesia avviene con questa traduzione inedita di “Gewitter”. (Anna Maria Curci)

 

Temporale

Da lì batte
giù a picco
l’ascia azzurra,
nel timpano
abbaia anche a me
teglia galattica.

Aggrappati, bambino,
alla caramella incollata:
io scrivo io piango
con te. Avanti, lontano.

Rolf Bossert
(traduzione di Anna Maria Curci)

 

Gewitter

Von dort schlägt
steil runter
die blaue Axt,
im Trommelfell
bellt auch mir
galaktisches Backblech.

Klammer dich, Kind,
ans verklebte Bonbon:
Ich schreibe ich weine
mit. Weiter, weit.

Rolf Bossert
(ora in: Rolf Bossert, Ich stehe auf den Treppen des Winds. Gesammelte Gedichte. A cura di Gerhart Csejka, Schöffling & Co. 2006, p. 230 – sezione »Wo sind wir, was wir sind« 1984-1955)

Omaggio a Danilo Kiš (di Anna Maria Curci, Cristina Polli, Patrizia Sardisco)

22 lunedì Feb 2021

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Anna Maria Curci, anniversari, Cristina Polli, Danilo Kiš, Il liuto e le cicatrici, letteratura, Omaggio, Patrizia Sardisco

Danilo Kiš, foto di Maristela Veličković, da qui

Oggi, 22 febbraio 2021, Danilo Kiš avrebbe compiuto 86 anni. Il nostro omaggio a un autore che abbiamo conosciuto grazie alla proposta di Giorgio Galli del libro Il liuto e le cicatrici per l’iniziativa “Aperitivo con libro” si manifesta qui con i nostri appunti di lettura.

Danilo Kiš, Il liuto e le cicatrici. Traduzione di  Dunja Badnjević, Adelphi Edizioni 2014

In Balcanica. Viaggio nel sud-est europeo attraverso la letteratura contemporanea[1], Diego Zandel presenta sulla stessa pagina Alexandar Tišma e Danilo Kiš, entrambi nati nella Vojvodina, regione sul confine tra Serbia e Ungheria. Kiš nasce a Subotica nel 1935, da padre ebreo ungherese e madre montenegrina. In un’intervista a Fridrik Ranfsson sottolinea il duplice volto delle proprie origini. Stare al confine, vivere in più lingue, sarà una costante della sua vita, come quella di tanti altri scrittori che legge, traduce e che appariranno nelle sue opere. Dopo un’infanzia e un’adolescenza tra Ungheria e Montenegro, verso i vent’anni giunge a Belgrado, dove compie i suoi studi letterari, laureandosi nel 1958. A partire dagli anni ’60 è lettore di lingua serbo-croata a Strasburgo, poi a Bordeaux e infine a Lille. Dal 1979 fino alla sua morte nel 1989 vive a Parigi.
Il trauma della scomparsa del padre – deportato ad Auschwitz e letteralmente scomparso – è presente già nel primo romanzo, che Kiš scrive nel 1960, a venticinque anni. Si tratta di Salmo 44, che la casa editrice Adelphi, che detiene i diritti per le sue opere, ancora non pubblica. La protagonista del romanzo, Marija, può essere considerata un alter ego dell’autore. Del romanzo sono stati tradotti e pubblicati estratti, insieme a Novi Sad, I giorni freddi di Alexandar Tišma, dalla casa editrice di Lugano ADV.
Di cultura raffinatissima, è inviso ai detentori del potere e ai neonazionalisti, come lo scrittore Limonov, fondatore del partito nazionalista bolscevico, che si riferisce a lui usando l’espressione “lo sporco Kiš”.
Tradotto da Dunja Badnjević, anch’ella scrittrice (esordisce con il romanzo L’isola nuda, Bollati Boringhieri 2008) e traduttrice, fra l’altro, del romanzo Il ponte sulla Drina di Ivo Andrić, Il liuto e le cicatrici di Danilo Kiš raccoglie sei narrazioni (una delle quali dà il titolo alla raccolta, titolo scelto dalla curatrice Mirjana Miočinović, ex moglie dell’autore), seguite dal breve scritto A e B. I racconti, ritrovati tra i manoscritti di Kiš, sono stati scritti tra il 1980 e il 1986. Alcuni di essi avrebbero dovuto far parte dell’opera Enciclopedia dei morti e a essi sono collegati, ché di morti improvvise e annunciate, subitanee e preparate si scrive, di morti per risalire alla vita, a singole vicende narrate e dipanate all’indietro a partire dalla morte, oppure tendenti a quell’evento conclusivo. Emergono eventi passati e luoghi cancellati alla vista e alla memoria, emergono exempla di una bellezza strappata all’oblio: Ödön von Horváth e Endre Ady in Il senza patria, Piotr Rawicz in Jurij Golec, il protagonista del racconto Il poeta, il protagonista e il narratore in Il maratoneta e il giudice di gara, Ivo Andrić in Il debito: vite spezzate da regimi totalitari, prigionie insensate, dal controllo asfissiante. La letteratura interviene con una verità strappata al silenzio e alle lacerazioni, così come ai silenzi della storia: questo afferma – quasi una dichiarazione di poetica dell’autore –  il signor Nikola in Il liuto e le cicatrici:

Lo scrittore [..] deve osservare la vita nella sua totalità. Deve far intravedere il grande tema della morte perché l’uomo sia meno superbo, meno egoista, meno malevolo e, d’altra parte, deve dare un senso alla vita. L’arte è l’equilibrio di queste due visioni contraddittorie. Il dovere dell’uomo, soprattutto dello scrittore – lei dirà che parlo da persona anziana – è di andarsene da questo mondo lasciando dietro di sé non l’opera, tutto è opera, ma un po’ di bontà, un po’ di conoscenza. Ogni parola scritta è come l’atto della creazione. (p. 78)

Il senza patria può essere letto come tappa rilevante di un percorso pluriennale e a molte voci sulla lingua come Heimat, come terra natia. Al centro del racconto gli ultimi giorni di Ödön von Horváth, anche lui scrittore danubiano, anche lui decisamente critico non solo con sé stesso come poeta (entrambi cercarono di cancellare tracce della giovanile attività poetica; di Kiš in italiano possiamo leggere  in poesia solo quello che troviamo nel volume, a cura di Stevka Smitran, Antologia della poesia dell’ex Jugoslavia, ed. Noubs, Chieti, 1996), bensì anche nei confronti di un regime che manovra le leve del nazionalismo, dando fiato alle tromba dell’ideologia della “comunità popolare”. C’è, in un sapiente sistema di rimandi, anche il comune interesse – una passione giovanile alla quale si tiene fede, proprio perché controcorrente, proprio perché bersaglio degli ultranazionalisti di turno – per il poeta Endre Ady, di cui Kiš tradusse dall’ungherese al serbo-croato le poesie[2]. Colpisce la conoscenza dei dettagli della vita e delle frequentazioni di Horváth (che nel racconto prende il nome di Egon von Németh) colpisce, ancora di più, la struttura architettonica del racconto, composto da ventisei paragrafi, prevalentemente brevi e tutti straordinariamente densi.
Il debito, che racconta gli ultimi momenti di Ivo Andrić, autore di poesie e romanzi, tra i quali il celebre Il ponte sulla Drina, premio Nobel per la letteratura nel 1961,  è costruito come un inventario. Viene allora da pensare a quanto possa avere influito sull’immaginazione dell’autore la professione del padre di Kiš, ispettore delle ferrovie, addetto alla compilazioni di elenchi di orari e passaggi. I parallelismi qui sono in numero inferiore rispetto alle sorprendenti coincidenze che provengono dalla vita e dagli scritti di Horváth, ma senz’altro molti punti di contatto si ‘annidano’ nella scelta dei “creditori” nei confronti dei quali Andrić narrato da Kiš si sente in debito e le motivazioni che adduce per esprimere, di volta in volta, il debito di riconoscenza. Anche Andrić, come Kiš, conosceva molte lingue, viveva in molte lingue e anch’egli rappresenta, come Kiš e Horváth, un momento rilevante della letteratura mitteleuropea.

Anna Maria Curci

[1] Edizione Novecento Libri, 2018
[2]Nell’intervista menzionata, Kiš racconta di sé: «Ho cominciato a tradurre quando, dopo la guerra, sono tornato in Montenegro con mia madre e mia sorella. Ci arrivammo dopo che mio padre era morto ad Auschwitz. Mi sono ritrovato improvvisamente catapultato nel serbo-croato, lingua che, dopo aver vissuto in Ungheria, non conoscevo bene. Frequentavo una scuola dove si insegnava in serbo-croato, e fu allora che cominciai a pormi alcune domande sulle lingue. Traducevo molto dall’ungherese al serbo-croato, perché mi piaceva. Più tardi, dopo aver appreso il francese e il russo, ho continuato a tradurre per puro divertimento. Nutrivo il sogno di diventare poeta e leggevo tutto quel che potevo trovare sull’arte poetica. Per fortuna tutto questo non durò molto. Scoprii infatti l’opera del poeta ungherese Endre Ady. Mi impegnai a tradurlo e così fui in grado di soddisfare il mio bisogno di scrivere poesia. Ho detto “per fortuna”, perché credo che quando ho qualcosa d’importante da dire la esprimo meglio in prosa che in versi».

Omaggio a Danilo Kiš, “Il maratoneta e il giudice di gara”,  in Il liuto e le cicatrici, Adelphi 2014

Danilo Kiš scrisse “Il maratoneta e il giudice di gara” nell’estate del 1982 a Belgrado. Miriana Miočinović nel “Commento ai testi” ci dice che era previsto per L’enciclopedia dei morti, infatti per due volte era stato inserito nel sommario.
L’aneddoto al centro del racconto proviene da una pluralità di voci e la lettura ci colloca davanti alla loro polifonia, elemento caratteristico dell’arte compositiva di Kiš, e, nello stesso tempo, alla loro stratificazione.  La scrittura di Kiš è una lente sul caleidoscopio della memoria della quale ci restituisce una visione plurale e composita indicando percorsi possibili nella cronologia del ricordo. L’orchestrazione polifonica del racconto e la riscrittura aprono prospettive nella Storia attraverso la cura della memoria di un evento particolare che riguarda la singola persona, la profondità che il momento viene ad assumere è resa tangibile  già nell’incipit dall’attenzione che il primo narratore , il pittore Leonid Šejka, pone alla ricerca delle parole con cui coniuga fatti, emozioni e ricerca artistica.

Nonostante una certa incongruenza cronologica, sono tuttavia convinto di aver sentito raccontare questa storia per la prima volta dal defunto Leonid Šejka, un pittore che si autodefiniva << il classificatore>>. Non so se avesse letto il testo manoscritto di Terc o se invece ne avesse sentito parlare da qualcuno. Credo, comunque, di averne avuto notizia per la prima volta da lui. (Seguiva con lo sguardo i corridori ansimanti che si sorpassavano continuamente, sottoposti a un terribile sforzo fisico e mentale, in un paesaggio immaginario a cui egli dava forma e colore. Tenendo strette tre dita della mano destra, cercava la parola e l’espressione, come a voler saggiare con i polpastrelli, la delicatezza del pigmento o la densità dell’impasto, mentre nella sinistra, immobile, stranamente immobile, come rattrappita, si stava consumando una sigaretta, e intanto la colonnina di cenere rimaneva dritta fino alla fine, intatta). (p. 89)

Leonid Šeika è stato un pittore dell’avanguardia jugoslava. In un articolo[1] molto scorrevole in cui non sfugge l’ammirazione dell’autore, Božidar Stanišić, è agile rintracciare le affinità artistiche e i legami affettivi tra il pittore e Kiš. Stanišić riporta una  osservazione biografo di Šejka, Dejan Đorić, illuminante per la comprensione delle analogie tra i due artisti:

“… Il suo sapere enciclopedico ha determinato lo sviluppo della sua dialettica del fantastico, gli ha permesso di spaziare con facilità tra diverse materie spirituali, lungo l’asse verticale e quello orizzontale della storia, elaborando così idee radicali…”.

Šejka era tra i fondatori del gruppo di avanguardia “Mediala”. Riporto ancora le parole di Stanišic che ci danno l’accesso al significato di questo nome:

All’epoca pochi critici compresero il significato profetico dell’arte del gruppo Mediala, il cui nome deriva dall’unione di due parole: “med” [termine serbo-croato per indicare miele, inteso come toccasana, ma anche come simbolo dell’unione delle diversità] e “ala” [termine che significa drago, divoratore metaforico di arte].

Arte, quindi, come balsamo, cura e ricerca in un dialogo che segnò l’espressione artistica nell’amicizia, nella stima e nella ricerca. Il passo seguente è una chiara testimonianza di reciprocità:

Šejka esercitò un’influenza determinante su Kiš e sul suo concetto di deposito con il suo credo “transit clasificando”, passo catalogando quindi esisto. In occasione della morte dell’amico, Kiš scrisse uno dei suoi saggi più brevi e più belli. Cito l’ultima frase: “Allievo di Berdjaev e degli esistenzialisti, ha attraversato la vita da saggio, da vecchio saggio: riappacificato con la morte e riconciliato con la vita, portando nella sua breve e ricca vita come unico bagaglio la sua ricchezza spirituale, la sua coscienza artistica e la sua infinita bontà da saggio”.

In Allestimento museale, opera del 1956, Šejka ci mette davanti agli occhi un insieme di oggetti che noi vediamo in prospettiva frontale. Vorrei tentare una lettura di questa rappresentazione: si può arrivare a ciò che sta dietro, cioè  simbolicamente scavare nello spazio e nel tempo, soltanto prendendo gli oggetti e spostandoli, ma nel momento in cui questo avverrà gli oggetti ci parleranno, e tutto acquisirà mano a mano nuove dimensioni e indicherà nuovi richiami. Allo stesso modo nel racconto Il maratoneta e il giudice di gara Kiš sovrappone e orchestra le voci offrendoci pagine di intensa immedesimazione nei pensieri, nelle emozioni e nelle speranze del corridore mentre vede il paesaggio mutare lungo il percorso. Il sogno ripercorre la memoria del tragitto, ma poi interviene la decisione inspiegabile del giudice che fa entrare Valdamar D. nell’incubo di un giro di campo senza uscite.
Tornando all’inizio del racconto, ricorderemo senz’altro che Kiš dice che forse Šejka aveva appreso l’aneddoto da Terc, ma come era arrivato nelle pagine di Abram Terc?

Ebbe ancora il tempo di raccontare il sogno all’uomo che era steso accanto a lui in uno dei lager siberiani. Questi, dopo l’improvvisa morte di Valdemar, lo raccontò a un altro prigioniero, oggi anche lui morto da anni. Così il sogno di Valdemar arrivò fino ad Abram Terc, che nelle lettere alla moglie scriveva di ogni cosa. (p. 97)

Tutto è davanti a noi, il racconto dà voce a un deposito di narrazioni che Kiš ha allestito con la sua tecnica mirabile perché ogni cosa ci parlasse e ogni cosa generasse nuova arte, significato e riconciliazione nel balsamo delle sue parole.

Cristina Polli

[1] https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Leonid-Sejka-anima-dell-avanguardia-jugoslava-207556

Su Il liuto e le cicatrici e Jurji Golec
di Patrizia Sardisco

Grazie all’amorevole precisione filologica della curatela di Mirjana Miočinović, sappiamo con certezza che i due racconti Jurji Golec e Il liuto e le cicatrici erano destinati a far parte de L’Enciclopedia dei morti: lo testimonia il ritrovamento dei sommari delle diverse stesure che Kiš ne aveva fatto, e nei quali i due testi figurano fino all’ultima, salvo poi esserne depennati a mano nell’imminenza della pubblicazione.
Ulteriormente, sempre grazie al Commento ai testi della curatrice, possiamo avere conferma della sostanziale continuità tematica e stilistica dei due racconti, accomunati da riflessioni che appaiono cardinali rispetto all’intera opera dello scrittore serbo: la morte, e qui in particolare nel suo rapporto con l’amore; il ruolo della letteratura rispetto al lavoro dell’oblio sulle biografie annullate dalla Storia, della potenza della scrittura come unica vera forma di sopravvivenza.
Scritto nel 1982, Jurji Golec narra gli ultimi giorni di vita di Piotr Rawicz, scrittore e amico, autore della prefazione alla prima edizione francese del romanzo Clessidra di Danilo Kiš, (Sablier, Gallimard, 1982), suicidatosi poco dopo la morte della moglie. In questo breve racconto dichiaratamente autobiografico, dove poco viene ceduto all’ideazione fantastica, e che al contrario si limita soltanto a camuffare alcuni dei nomi propri autentici dietro iniziali o nomi d’invenzione, la vicenda è collocata in una Parigi d’inizio anni ’80, in pieno fermento intellettuale e artistico, tra ambienti accademici in cui è possibile imbattersi in scrittori del calibro di Marguerite Yourcenar, ricevimenti frequentati da pittori e scrittori famosi e famosissimi insieme ai propri editori, e cene alle cui tavole non mancano critici d’arte e stilisti di levatura internazionale. Quasi in posizione laterale, l’io narrante, spiazzato dalla richiesta dell’amico di aiutarlo a procurarsi un’arma per porre fine ai propri giorni, si muove, lungo la manciata di giorni che costituisce il tempo della narrazione, tra la disperazione dell’amico e la scoperta di quanto non sia facile “dare una risposta a un uomo che ti chiede: perché devo vivere?”, nemmeno (o forse soprattutto) se quell’uomo è un sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz.  L’indissolubilità dell’amore viene sancita dal gesto di Jurji, dal suo darsi la morte nella certezza che Dio perdonerà. E la consapevolezza della potenza della scrittura, come un’epifania verrà incontro all’io narrante- Kiš ai funerali dell’amico, quando la vista di un topo morto gli ricorderà una similitudine particolarmente pregnante nel romanzo dell’amico, il ratto “che dal romanzo era arrivato direttamente al cimitero di Montparnasse (…) quel ratto morto uscito vivo dal romanzo”.
Ne Il liuto e le cicatrici, scritto nel 1982, il tema della memoria è sviluppato attraverso un doppio livello temporale e narrativo: il ritorno a Belgrado del protagonista e io narrante, nella seconda metà degli anni ’60, dopo più di due anni di assenza; e una passeggiata notturna in centro città, che conducendo fino al vicolo in cui, ora in rovina, si trova la casa dove aveva vissuto per qualche tempo nel periodo degli studi universitari, apriranno la porta ai ricordi e, sul piano della narrazione, al lungo flashback che dipana e conclude il racconto.
Ospite di un’anziana coppia di profughi russi, il giovane Kiš, allora studente di letteratura, condivide la stessa camera del signor Nikola, prodigo di ascolto e tenerezza paterna tanto quanto la moglie, Marija, lo è di secche chiose e aspri rimproveri rivolti al giovane, accusato di essere “solo un bohémien”. Le cicatrici sul volto e sulle mani di Marija ci appaiono ben presto cicatrici sul cuore, il suo e quello di un intero popolo costretto a vivere da esule, piegato dai lutti, in una condizione mai più riconciliabile con l’esistenza. Il liuto è invece lo strumento che Nikola, ormai completamente sordo, continua a suonare per sé e per il suo giovane ospite, con un sorriso incrollabile quanto la propria speranza nell’uomo e in ciò che oltrepassa la misura breve della sua esistenza, non l’opera in sé, ma quel poco di bontà e di conoscenza che egli avrà saputo lasciare dietro di sé.
Con mirabile eleganza, con una efficacia che mutua da una chiara visione poetica ed esistenziale l’essenzialità pregnante del dettato, Kiš restituisce in queste pagine, a torto ancora troppo sconosciute nel nostro paese, il dolore e l’incanto, la disperazione e la dignità di destini, di vite che nessuno vede né conoscerà mai, di vite che non hanno importanza: vite senza le quali, tuttavia, nessuna Storia potrebbe dispiegare ali né affondare artigli. Vite nelle cui pieghe la bellezza resiste, dentro un manto che splende di riconoscenza.

 

Finale da “Santa Giovanna dei Macelli” di Bertolt Brecht

18 martedì Ago 2020

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Anna Maria Curci, Bertolt Brecht, Johanna, Santa Giovanna dei Macelli, storia, Teatro, traduzione

Carola Neher in Die heilige Johanna der Schlachthöfe di Brecht. Foto di Karl Schrecker, 1930

Con Brecht, Santa Giovanna dei Macelli,
pensavo al mattatoio di Testaccio.
Anna Maria Curci

TUTTI
Due anime ti abitano, umano,
Nel cuore!
Sceglierne una è vano
Ché entrambe devi avere.
Resta sempre in conflitto con te stesso!
Resta l’Uno, resta sempre Scisso!
Tieni l’anima nobile, tieni la plebea
Tieni la grezza, tieni la filistea
Tienile entrambe appresso!

Bertolt Brecht, Santa Giovanna dei Macelli
(traduzione di Anna Maria Curci)

 

 

ALLE
Mensch, es wohnen dir zwei Seelen
in der Brust!
Such nicht eine auszuwählen
Da du beide haben mußt.
Bleibe stets mit dir im Streite!
Bleib der Eine, stets Entzweite!
Halte die hohe, halte die niedere
Halte die rohe, halte die biedere
Halte sie beide!

Bertolt Brecht, Die heilige Johanna der Schlachthöfe
(1929-1930)

Cristina Polli, Leggere, presentare, dialogare: “Aperitivo con libro”

30 giovedì Lug 2020

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Anna Maria Curci, Barbara Evangelista, Cristina Polli, Giorgio Galli, Maurizio Ceccarani, Patrizia Sardisco, Sandra Luigia Rebecchi, Silvia Giannini, Simonetta Bumbi, Viviana Scarinci

“Aperitivo con libro”: i testi presentati da maggio a luglio 2020. Locandina elaborata da Silvia Giannini

Leggere, presentare, dialogare. “Aperitivo con libro”: incontri di letture condivise

Leggere, presentare, dialogare sono le tre azioni chiave svolte dai partecipanti all’iniziativa “Aperitivo con libro”. Ho scelto di usare il termine iniziativa per distaccare la realtà di “Aperitivo con libro” dal concetto di progetto, dal concetto cioè di qualcosa che, proiettato avanti, lanciato nel futuro, abbia obiettivi e finalità nel divenire perseguibili tramite un computo di risorse e strategie, tramite, insomma,  un orientamento strategico preordinato all’azione. L’idea di “Aperitivo con libro” reca in sé, in modo del tutto connaturato, una visione di futuro che si fa strada partendo dal primo dialogo posto in essere, quello tra il lettore e il libro, per poi fortificarsi e trovare alimento nella condivisione.
“Aperitivo con libro”, infatti,  è una realtà viva e non si pone alcuna finalità se non quella della condivisione che passa per la lettura di un libro scelto e per la circolarità degli apporti. I partecipanti si assumono volontariamente l’incarico, e il piacere, di presentare un libro di loro interesse secondo la propria angolazione e interpretazione, proponendo gli snodi e le linee narrative, o gli argomenti, i richiami ai dati storici, culturali e sociali contemporanei all’opera, che sono loro apparsi più salienti.
A questa prima parte segue la condivisione di osservazioni, commenti, domande da parte dei membri del gruppo per generare e intrecciare dialoghi dal basso in cui ognuno può intervenire tramite le proprie conoscenze, le proprie idee e il proprio approccio alla lettura e al discorso. Ne risulta un momento di vera e propria costruzione collettiva della riflessione che, partendo dagli interrogativi individuali, accresce e affina la sensibilità per la divergenza e la complessità narrativa ed è, non di rado, stimolo per ulteriori ricerche e riletture tramite le quali i partecipanti hanno la possibilità di sganciarsi dalla pigrizia del pensiero semplice e dalla sudditanza al mainstream.
L’idea è frutto di un confronto tra Anna Maria Curci, Cristina Polli e Patrizia Sardisco le quali, oltre a condividere l’esperienza della scrittura poetica e della docenza nelle loro diverse realtà, coltivano il gusto della lettura e dell’indagine di una parola che non sia neutra. Occorre specificare la portata non indifferente della sapienza di Anna Maria Curci in qualità di traduttrice in ricerca costante e dedita della verità poetica e di critica letteraria puntuale e sensibile.
Gli incontri, iniziati a metà maggio 2020, si svolgono con cadenza settimanale, la domenica sera alle 19,00, su piattaforma Zoom per permettere la partecipazione a lettori che vivono anche in luoghi molto distanti tra loro e che hanno accolto, e accolgono, l’iniziativa con entusiasmo.
I libri scelti in questi primi tre mesi sono stati prevalentemente testi di narrativa nei suoi vari generi e contaminazioni, ma non è mancato un incontro dedicato a un volume di saggistica, Femminismi futuri Jacobelli 2019, che ha presentato punti di vista filosofici, narratologici e poetici in senso aperto della più recente critica femminista. Le proposte dei titoli possono arrivare sia dai partecipanti che dalle ideatrici con l’unica clausola che non si tratti di opere scritte da chi presenta.

Ora siamo in piena estate e gli incontri sono sospesi per la pausa estiva, riprenderanno il 20 settembre con Le luci di Settembre, di Carlos Ruiz Zafón, omaggio allo scrittore recentemente scomparso, proposto da Anna Maria Curci. Seguirà La vendetta di Oreste di Giovanni Ricciardi, incontro a cura di Cristina Polli e, successivamente, verranno comunicate le altre proposte. Da tenere a mente l’incontro dedicato al romanzo storico di Maria Attanasio, La ragazza di Marsiglia, che si svolgerà in forma di lettura collettiva.
Se vi è venuta voglia di partecipare all’iniziativa, se vi sentite motivati a condividere l’esperienza della lettura, vi diamo appuntamento a settembre! Scriveteci in privato.

Cristina Polli

Monologo della Buona Madre

08 domenica Mar 2020

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Recensioni, Teatro

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Anna Maria Curci, Lea Barletti, Monologo della Buona Madre, recensioni, Teatro, Teatro Torlonia, Werner Waas

Lea Barletti nel “Monologo della Buona Madre”. Foto di L. Onza

C’è una pièce teatrale, che ho voluto vedere a tutti i costi, la sera del 28 febbraio scorso, a Roma, al Teatro Torlonia. Sentivo che non volevo assolutamente mancare a quella serata, nonostante i dinieghi di più di una persona da me contattata perché la condividesse con me, nonostante la stanchezza e la preoccupazione circa quello che di lì a pochi giorni avremmo vissuto anche a Roma. Questa pièce è il Monologo della Buona Madre, testo di Lea Barletti, che ne è interprete sulla scena, produzione e regia di Lea Barletti e Werner Waas, musiche originali e Sound Design di Luca Canciello. Ho conosciuto Lea Barletti e Werner Waas nella scuola in cui insegno, l’Istituto Statale “Vincenzo Arangio Ruiz” di Roma. Lea e Werner hanno seguito per due anni di seguito miei studenti di quinta liceo linguistico per un laboratorio teatrale (un’opportunità straordinaria che abbiamo ricevuto come scuola che fa parte della rete internazionale Partnerschulen der Zukunft) che è rimasto vivo nella memoria della nostra scuola per la bellezza degli spunti e per l’impulso vivissimo dato alla “theatralische Sendung” (vocazione teatrale) dei partecipanti al laboratorio. Ho poi letto con passione e recensito per Poetarum Silva il bellissimo Libro dei dispersi e dei ritornati di Lea Barletti.
Con batticuore e la mia solita testardaggine vado dunque a teatro, da sola, attraversando la città, acquisto il biglietto, ignara che sarà l’ultimo della serie innumerevoli dei biglietti teatrali antecedenti l’era COVID-19, incontro la collega Marianna – con la quale sto condividendo ricerca-azione e formazione – e insieme ci sediamo in seconda fila, decise a non perderci un solo dettaglio del monologo che reciterà Lea.
Le luci si accendono su lei, seduta in cima a un alto soppalco, il volto reso bianchissimo dal trucco, una mimica facciale che muterà, assecondando, anticipando, facendo persino da contraltare – “controcanto terza o quinta sotto” – a ciò che la voce trasporta ed esplicita. Prima il silenzio scandito dalle lancette di un orologio, poi l’inizio, quell’inizio che ogni madre, soprattutto una Rabenmutter come me, ha inciso nella carne, nella pelle, nei nervi, nelle rughe, negli scatti: il senso di colpa-inadeguatezza-affanno. Come lo chiamo? Kafka, per il “padre di famiglia”, lo chiamava “Sorge“: cura-cruccio-assillo. E per le madri, come lo chiamiamo? In tedesco lo chiamerei Unzulänglichkeitsgefühl, il sentimento dell’inadeguatezza, il basso continuo dell’esistenza della “Buona Madre”. [Non ci arrivo, non ci arriverò mai. Se studio, non so cucinare, se svolgo coscienziosamente la mia professione, non saprò cucire un bottone, se faccio volontariato, trascuro il mio focolare domestico, se scrivo, rubo tempo alla famiglia, il mio consorte, lui sì che sa cucinare e che sta a casa quando arrivano le telefonate di mia zia che lo rimprovera, perché mi permette di stare sempre in giro (ipsa dixit) e quando, quando, dimmi quando passerò l’aspirapolvere per casa?]. Continua a leggere →

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