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Lettere migranti

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Salvatore Statello, Ines de Castro (nota di Norma Stramucci)

30 martedì Ago 2022

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balletto pantomimico, Di Nicolò edizioni, Ines de Castro, letture, Norma Stramucci, recensioni, Salvatore Statello

Annotazioni a proposito di: Salvatore Statello, Ines de Castro eroina del balletto pantomimico italiano tra Settecento e Ottocento, Di Nicolò Edizioni, Messina 2021

Salvatore Statello pubblica un libro che, se non fossi stata consigliata a farlo, non avrei letto, credendolo esulare non tanto dai miei interessi quanto dalle mie competenze. Non solo infatti è dedicato all’eroina di melodrammi famosi (tra cui quello del compositore recanatese Giuseppe Persiani, 1835), cioè Ines de Castro, ma nella fattispecie se ne indaga la figura in un settore ben particolare, come specifica il sottotitolo: eroina del balletto pantomimico italiano tra Settecento e Ottocento. Ines de Castro è davvero vissuta a metà del XIV secolo, amata da don Pedro del Portogallo erede al trono, ma avversata dal padre re Alfonso IV, che la fece uccidere a Coimbra il 7 gennaio 1357. Una tragica storia di amore e morte che ha ispirato fondamentali lavori della letteratura portoghese ed europea (Garcia de Resende, António Ferreira, Luís de Camões, Luís Vélez de Guevara, solo per citare alcuni autori), circa una quarantina di melodrammi tra il secondo Settecento e la fine del secolo scorso e numerosi coreodrammi. Un mondo, quello del balletto italiano ottocentesco, tanto affascinante quanto semisconosciuto, che questo interessante volume (il terzo dedicato da Statello al soggetto Ines de Castro) ha il merito di disvelarci.
Giuseppe Canziani, nel 1775 a Venezia -e che successivamente portò il soggetto a Pietroburgo con la sua Inessa de Castro -, Giuseppe Herdlitzka, Domenico Le Fèvre, Antonio Muzzarelli e più tardi Antonio Cortesi e Salvatore Taglioni sono stati i maggiori coreografi che hanno offerto al pubblico la loro versione della storia di Ines. Statello, oltre a dedicare loro una sezione del libro con schede biografiche, ne analizza nel dettaglio i lavori ed è interessantissimo notare quali sono le varianti tra l’una e l’altra versione e scoprirne, insieme all’autore, le motivazioni. Ad esempio, Canziani si ripromette, secondo le teorie illuministiche, di osservare le virtù borghesi, e dunque non presenta Ines nel ruolo di amante ma in quello di sposa segreta; nella rappresentazione romantica di Cortesi Ines non morirà a causa del veleno, ma sulla scena ci sarà un cruento spargimento di sangue, secondo, appunto, il gusto dell’epoca.
A parte il rigore scrupoloso della ricerca, quel che più si apprezza del volume è il suo avere salvato dalla dimenticanza un importante tassello di storia culturale, come pure sottolinea, alla fine della sua Introduzione, dove ci istruisce sul ballo teatrale in Italia tra il XVIII e il XIX secolo, Paola Ciarlantini.

Norma Stramucci

Cristina Polli, Quando fioriscono le tamerici (nota di Agostina Pagliaroli)

14 martedì Giu 2022

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Agostina Pagliaroli, Cristina Polli, FusibiliaLibri, letture, Poesia, Quando fioriscono le tamerici, recensioni

Cristina Polli, Quando fioriscono le tamerici (nota di Agostina Pagliaroli)

Questa seconda raccolta, 20 poesie, di Cristina Polli dal titolo suggestivo Quando fioriscono le tamerici ci introduce da subito nell’incanto di un mondo che trae la sua forza dall’umile, spontanea magnificenza della vegetazione delle nostre coste. La Natura che l’autrice ama con passione, senza ambiguità, riecheggia instancabilmente nei componimenti. Eco di marosi, sparsi elementi di paesaggio sfilacci di posidonia sulla sabbia conchiglie leggerezza dell’aria movimento impetuoso di vortice che scuote squassa di onde e di spuma la superficie liquida. Natura protagonista. In tinte di delicato acquerello essa apre la silloge.
Nel componimento un unico verso, un climax Suono onda spuma _ azzurra velatura (p.14) nella sequenza dei tre sostantivi da campi semantici diversi, interviene a creare una tensione crescente che sembra sciogliersi sospesa nella delicata velatura azzurrina a pelo d’acqua. Pennellata veloce che abbozza un’immagine di grande impatto emotivo per l’analogia con le vicende umane.
Presenza sonora palpitante potente la Natura oppone in controcanto la sua voce al muto silenzio dell’altra comprimaria, l’anima. Lei che Ha composto l’arte dell’ascolto nella partitura del silenzio (43) entra in scena nel secondo componimento.
E nel tempo più dolce in cui la vita rinasce, il mondo si fa accogliente, ne saluta il ritorno. Il suono del vento libera voci e sfiora con delicata carezza e mentre l’eco dei marosi si placa Lei passa avanti e canta (p. 15).
Senso di tenerezza materna nell’invito che l’autrice finalmente rivolge al suo doppio Vieni quando le tamerici sono in fiore, quando le pendule infiorescenze tacciono i bisbigli (p.17) che diventano voci sonore quando parla il bianco col bianco della spuma e del ritorno (p.17).
Tamerici voci sussurri, umili piccole cose, il riferimento è al mondo incantato del Pascoli delle Myricae che ritorna nell’ultimo componimento e chiude in perfetta circolarità il viaggio esistenziale dell’anima.
Ogni componimento nella brevità di una strofa quasi delicato “haiku” si presenta sotto una veste doppia. In un’atmosfera rarefatta e raffinata i primi versi accarezzano svelando una ben radicata passione per la vita che inaspettatamente si trasforma in altro. Non c’è spazio per l’abbandono. La luminosa leggerezza delle immagini si dissolve e improvviso irrompe un sentimento che destabilizza, provoca un déplacement.  Al lirismo iniziale si sovrappone si sostituisce l’inquietudine di una coscienza in cerca. Dirompe squassa pietra scoglio frase.   (p. 19). Sinestesia metamorfosi semantica e la sofferenza emerge dal profondo per placarsi solo alla fine di un lungo cammino di silenzio.
Poesia di immagini splendenti nella loro bellezza che nulla concedono se non al lampo di una percezione che si dissolve nell’immediatezza dell’istante.
Poesia che si definisce per negazione.
Non è “appaisante”, non promette né regala facile consolazione né attraverso di essa l’autrice la ricerca.
Non mira a descrivere.  Non narra. Si scioglie dal vincolo dei significati concreti per tradursi in sequenze sonore evocative, rimandi originali a un tempo e a un luogo altri. Il suo approdo: la spiaggia del puro simbolismo, consapevolmente coniugato con un originale moderno ermetismo.
L’attraversa fortissimo il senso di nostalgia per un passato che non si svela mai. Infanzia perduta? Luoghi remoti dell’adolescenza? Una sofferenza che ben si rispecchia nell’Heimweh. Dolore per la ‘dimora’, per i luoghi di un tempo, per un’innocenza antica. ‘Dimora’ dei sentimenti ancestrali dalle profondità inattingibili. Dimora, giardino di pietra della pianta silente (p.23) da custodire tuttavia perché l’anima possa ritrovarlo.
La nostalgia allora si colora di accenti paradossali, guarda all’incompiuto nel suo aprirsi ad un futuro mai realizzato. Non solo desiderio ardente del ritorno, amore struggente per l’impossibile recupero del tempo.
Diventa anelito, brama, accoglie in sé l’assurdo. Rinnovata Sehnsucht dei romantici tedeschi, è aspirazione appassionata a qualcosa di mai accaduto, a un nuovo mondo possibile. È sete mai sazia di ri-scrittura della vita alla luce di uno sguardo rinnovato. Ed ecco allora il ritorno tanto agognato perché Nell’ossimoro della fuga (p. 33) ogni fuga è un ritorno (p.21). E nel tempo più dolce, quando le tamerici sono in fiore, l’anima può finalmente acquietarsi. Torna! Vieni, è l’invito che l’autrice riprende nei versi finali di questo viaggio. Desiderio di ritorno mai dichiarato, sempre celato, chiuso semmai in un verbo, in un sostantivo.
La parola-scrigno diventa custode fedele di preziosi non detti. Attenta, quasi ossessiva la sua ricerca. Scelta lessicale che benedice la sottrazione l’insegnamento della leggerezza (p. 33) Originali, inediti gli accostamenti che l’ampio ricorso all’analogia e alla sinestesia, di ermetica matrice, assicura superando nessi logici e semantici.
Libere, le “parole” si rincorrono rinviano alludono danno voce a una straordinaria ricchezza interiore che mai si manifesta interamente.
Radicate fortemente nella esperienza umana dell’autrice, ad essa attingono senza tuttavia mai esplicitarla, quasi a significare un pudore che teme di rivelarsi.
Spoglia di ogni autobiografismo, la poesia di Cristina Polli chiama in causa la vicenda di ognuno, parla al lettore trascinandolo nel profondo della propria interiorità in un dinamismo che assurge a universalità.
Nessuna certezza nell’avventura della vita, Ci accostiamo imperfetti allo spartito alla coloritura di fraseggi e nel difficile viaggio Cerchiamo tracce antiche nelle voci (p.27). Gli esseri, quasi frammenti di pietra, silice che Graffio e luce tagliano (p.29), appaiono Sgretolati. Occultati dal moto sinuoso bianca spuma che sabbia li riduce e sabbia sperde (p.29)
Unisce l’universalità. E l’autrice si consegna, si affida alla libertà di ognuno di colmare il vuoto nella ri-costruzione del mondo. Accetta il rischio. Perché ogni lettura è ri-scrittura, creazione di nuovo inedito significato
Ne nasce un dialogo che squarcia la superficie ghiacciata, penetra la profondità, trascina ‘dentro’ chi si avventura in quel mondo, chi vuole svelarne il segreto che i versi riescono solo a evocare.
Dialogo fecondo in cerca di tracce antiche come luci nella notte.

©Agostina Pagliaroli

Cristina Polli, Quando fioriscono le tamerici. Poemetto. Prefazione di Alessandro De Santis, FusibiliaLibri 2020

 

 

 

 

 

 

Giorgio Galli, Il matto di Leningrado

10 lunedì Gen 2022

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Daniil Charms, Gattomerlino, Giorgio Galli, Il matto di Leningrado, letture, prosa, recensioni, romanzi

Giorgio Galli, Il matto di Leningrado. Tre passeggiate con Daniil Charms, Gattomerlino 2021

Le tre passeggiate con Daniil Charms – questo è il sottotitolo del volume Il matto di Leningrado,  che Giorgio Galli ha pubblicato nell’aprile 2021 con la casa editrice Gattomerlino – hanno una scansione temporale che colloca la narrazione in una cornice storica drammatica: 21 marzo 1941, 21 giugno 1941, 21 agosto 1941, giorno della sparizione, quest’ultimo, di Daniil Ivanovič Juvačëv, in arte Daniil Charms.
Le investigazioni a proposito dello scrittore che appare, nelle pagine avvincenti scritte da Giorgio Galli, come «un tale che fumava una pipa ricurva e portava un cappello alla Sherlock Holmes», sono tributi d’amore e di una certa ‘affinità elettiva’ da parte di un viaggiatore nel tempo che per tutto il libro viene indicato, talvolta apostrofato, con il pronome personale alla seconda persona singolare.
Il testimone raccoglie gli indizi, sparsi e scarni, sugli ultimi mesi di vita di un autore del quale sono giunte a noi pochissime opere, per vie fortunose, da una misteriosa valigia, attraverso samizdat.
Nella Nota dell’autore Giorgio Galli precisa: «Questa è un’opera narrativa e non di rigore storico». Tuttavia, essa sprona all’indagine letteraria in un contesto storico, un’indagine che sia sottratta e abbia il coraggio di sottrarsi non solo a mistificazioni, bensì anche alla tentazione di sovrapposizioni e di parallelismi con epoche successive.
Una lettura attenta, infatti, permette di individuare alcune piste di ricerca, feconde e degne di interesse:

  • L’esemplarità della vicenda di Charms nonostante la sua eccentricità ovvero, al contrario, proprio in virtù di questa – si pensi alle pagine che Felicitas Hoppe dedica a Charms nelle pagine iniziali di Sieben Schätze. Augsburger Vorlesungen (“Sette tesori. Lezioni di Augusta”).
  • Il filo conduttore della geniale follia, della incomparabilità e della unicità della letteratura russa che è raccolto anche qui, da Giorgio Galli, e che ha una ragguardevole storia della ricezione in Italia – si pensi alle parole di Giorgio Manganelli che aprono il volume di Paolo Nori, dal titolo oltremodo significativo, Repertorio dei matti della letteratura russa. Un altro titolo che appartiene chiaramente a questa linea è sempre di Paolo Nori: I russi sono matti.
  • La produzione letteraria in lingua russa vicina a quella di Daniil Charms, sia per prossimità di scelte, come è avvenuto per Aleksandr Ivanovič Vvedenskij in particolare e per il gruppo “Oberju” (nomignolo con il quale è nota la “Accademia dell’Arte Reale”, fondata da Charms nel 1928) in senso più ampio, sia per legami di parentela: mi riferisco in questo caso alla figura del padre di Daniil, Ivan Pavolvič Juvačëv, la cui opera letteraria era molto apprezzata da Lev Tolstoj.
  • La comicità come slancio alla sovversione e allo svelamento, molto più vicina al tragico di quanto una percezione soporifera purtroppo diffusa – che nega e annega in un brodo indistinto entrambe le istanze. Tratto, questo, distintivo di Charms, che lo accomuna a due scrittori che, come lui, sfuggono a classificazioni riduttive: Jean Paul e, in particolare per il romanzo Fame, Knut Hamsun.

Che si vogliano esplorare o meno le piste di ricerca suggerite, anche soltanto tra le righe, da Giorgio Galli con Il matto di Leningrado, la lettura dell’opera trasmette il desiderio di leggere, e tornare a leggere, tutte le opere di Charms, a partire dalle sue poesie e dai suoi racconti per l’infanzia.

© Anna Maria Curci

Hai letto da qualche parte che a Daniil piacciono i libri sul buddhismo. Sai che campa scrivendo storie per bambini. Ma forse è più giusto dire campava, perché da un paio d’anni non gli fanno più pubblicare. Daniil scrive storie un po’ assurde, e in Unione Sovietica nel 1941 il governo preferisce che i bambini leggano storie edificanti sulla patria e sul socialismo. Uno come Daniil è un po’ sospetto. Quello che scrive fa ridere. Vorrà farsi gioco della patria e del socialismo? Secondo alcuni fa parte di una setta segreta. Secondo altri di un’organizzazione clandestina. Altri ribadiscono: è un matto.
Eppure è difficile sottrarsi alla sua suggestione. Daniil ha charme. Anche quelli che lo considerano un matto un fallito o una spia, subiscono quello charme, e se non gli rivolgono la parola è perché preferiscono ignorarlo piuttosto che guardarlo negli occhi. Dicono che sia un illusionista e che i bambini fanno tutto quello che lui dice.*

*Giorgio Galli, Il matto di Leningrado. Tre passeggiate con Daniil Charms, Gattomerlino 2021, p. 11

Rosa Luxemburg, nel tempo, oggi

15 martedì Gen 2019

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Anna Maria Curci, Karl Liebknecht, letture, Maxie Wander, memoria, Rosa Luxemburg, storia, traduzioni

«La libertà solo per i sostenitori del governo, solo per i membri di un partito – per quanto numerosi possano essere – non è libertà. La libertà è sempre libertà di chi pensa diversamente». (Rosa Luxemburg:”Freiheit nur für die Anhänger der Regierung, nur für die Mitglieder einer Partei – mögen sie noch so zahlreich sein – ist keine Freiheit. Freiheit ist immer Freiheit des Andersdenkenden.”)

Questo è vero, e lo è con un discreto grado di esattezza, per ciò che riguarda le debolezze della società. Di ogni società. Questa storia dell’io e del suo giocare a fare effetto – perché non è cresciuto! Questa brama cieca di fare colpo sempre e dappertutto, di pretendere lodi e di parlare sempre degli stessi successi. Solo se ci confrontiamo quotidianamente con le contraddizioni della vita le nostre forze possono crescere, la società può rimanere viva. Ed ecco qui la frase che ho trovato in Rosa Luxemburg, che porto con me e che mando a tutti i nostri amici: «Solo una vita non repressa e spumeggiante perviene a mille forme nuove, a improvvisazioni, ottiene forza creatrice, corregge da sola tutti i propri sbagli. Per questo la vita pubblica degli stati a libertà limitata è così misera, così disagiata, così schematica, così arida, perché escludendo la democrazia si preclude le fonti viventi di ogni ricchezza, di ogni progresso spirituale!»
(da: Maxie Wander, Ein Leben ist nicht genug. Tagebuchaufzeichnungen und Briefe – “Una vita non è abbastanza. Diari e lettere” – a cura e con una premessa di Fred Wander, Frankfurt 1990; la traduzione del brano è di Anna Maria Curci)

100 anni fa, il 15 gennaio 1919, Rosa Luxemburg fu rapita e, insieme a Karl Liebknecht, uccisa da ufficiali della Garde-Kavallerie-Schützen-Division. Dal carcere di Berlino nella Barnimstraße aveva scritto a Sonja Liebknecht il 5 agosto 1916: «Bleiben Sie tapfer und lassen Sie sich nicht niederdrücken», «Rimanga coraggiosa e non si faccia buttar giù». Raccolgo oggi, per tutti i giorni, l’invito di Rosa Luxemburg.

Silvano Tessicini, Battito d’ali (recensione di Brunella Bassetti)

31 mercoledì Gen 2018

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Brunella Bassetti, La Caravella editrice, letture, recensioni, romanzi, Silvano Tessicini

Silvano Tessicini, Battito d’ali, La Caravella editrice, Roma, 2017, pp.106

“Il tuo progetto è scritto nel palmo delle mie mani” (cfr. Isaia, 46, 15-16)

Bisogna diffidare di quelle persone che sostengono che un “grande” dolore (di qualsiasi natura esso sia) si possa superare. Ci si può convivere, ma è cosa ben diversa. È al pari di una modificazione genetica. Crea “disabilità” e si diventa “diversamente abili” nell’affrontare la vita. Si perde il senso della vita perché è la vita a non avere più senso, o almeno così sembra.
Il protagonista di questo romanzo – Sergio – ci narra la sua personalissima esperienza, il suo travaglio interiore, la sua lotta quotidiana, le sue emozioni e sensazioni legate al superamento, all’accettazione della morte improvvisa, per un tragico incidente, della sua piccola figlia Andrea.
Un tema su cui si è scritto molto e si continuerà a scrivere, negli ultimi anni anche su basi scientifiche, grazie all’evolversi di metodiche specialistiche quali la “Narrative Based Medicine”.
L’Autore di questo breve ma intenso romanzo lo fa alla sua maniera attingendo dalla sua vita privata e professionale mezzi e strumenti di narrazione che gli appartengono. Arte cinematografica, pittura, poesia sono le quinte di questa vicenda umana, fanno da sfondo al lutto di Sergio ma, nello stesso tempo, accompagnano il lettore – o meglio fanno da eco – a quelle domande universali legate al senso della vita e, quindi, inevitabilmente anche al senso della morte. Anche i momenti più tragici e drammatici di questo percorso sono descritti con una delicatezza rara e con rispetto umano. È un tunnel che si deve attraversare, percorrere se si vuole ritornare a vedere la luce. Il dolore va accolto, va amato nelle sue mille sfaccettature, non bisogna farsi sconti anche quando l’estrema decisione appare, esclusivamente, come l’unica soluzione salvifica.
A una prima lettura si è catturati dalla storia di Sergio, dai suoi pensieri, dalla sua disperazione; rileggendolo, tuttavia, si può notare come alla fine sia – anche – un romanzo corale dove tutti i protagonisti (o co-protagonisti) stiano attraversando un loro particolare momento della vita.
Molto interessante, dal punto di vista narrativo e descrittivo, l’escamotage di citare alcuni quadri famosi per fissare, come in un piano sequenza, la sensazione del momento. Tre quadri per rappresentare altrettanti stati d’animo del protagonista: “La città che sale” del futurista Boccioni per l’estremo senso di solitudine e di vuoto; il “Cristo morto” del Mantegna che, forse, insieme al “Cristo velato” della Cappella Sansevero di Napoli, è la rappresentazione più bella e vera della deposizione. Una prospettiva diversa nel “vedere” il corpo esamine della figlioletta all’obitorio. Ma, come si sa, la tragicità del sudario è uguale a se stessa in ogni epoca e in ogni dove. Infine, “L’urlo” di Munch: la disperazione.
Scenograficamente parlando due sono i momenti che hanno catturato di più la mia attenzione e immaginazione. Il primo, nelle prime pagine ambientate a San Candido, quando viene descritta la messa in scena della sacra rappresentazione della Pasqua. Mi è tornato in mente il film “La Passione” di Mazzacurati. Sono pagine molto forti e anche molto intense: l’eterno dilemma di conciliazione tra la nostra e la volontà di Dio. Ma quale volontà di Dio? Giuda è stato funzionale al piano della Salvezza ma sarà stato “salvato” in un gesto estremo di misericordia dal Padre? “Perché Dio lo aveva risparmiato mentre Giuda aveva consumato nel suicidio la sua disperazione?” (cfr. pag. 32). Continua a leggere →

Martina Cecilia Salza, Verde muschio, recensione di Brunella Bassetti

30 sabato Set 2017

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Brunella Bassetti, Ghaleb Editore, letture, Martina Cecilia Salza, recensioni, romanzi

Martina Cecilia Salza, Verde muschio
Latitudini 22, Davide Ghaleb Editore, Vetralla 2017, pp. 248

Verde muschio non è un romanzo biografico o autobiografico nel senso classico che la critica attribuisce a tale termine. È un romanzo, una storia – direi più storie – che s’intrecciano e si dipanano attraverso il racconto e i “sogni” di una delle due protagoniste – Matilde – per approdare ad “altro”. L’idea di fondo prende sviluppo da vicende e avvenimenti familiari della scrittrice, che s’innestano e si fondono simbioticamente con la storia locale del territorio e la storia universale, in generale.
Volendo semplificare, ma soltanto per illustrare meglio ciò che questo romanzo è realmente, si potrebbe affermare che grazie alla sua struttura narrativa, al modo come la vicenda si sviluppa, può senz’altro essere definito un romanzo di “iniziazione” e/o “psicologico”. Per altri versi, invece, rispetta le regole classiche del romanzo “storico” e del romanzo “giallo”. Potrebbe essere considerato, anche, un romanzo “doppio” (una macrostoria nella microstoria e viceversa): nel senso che le due vicende, quella di Matilde e quella di Angela (ecco l’altra protagonista) potrebbero leggersi l’una indipendentemente dall’altra. Ma, sicuramente, è anche altro.
L’intera vicenda si svolge, prevalentemente, tra Parigi e l’Antichissima Città di Sutri (che, peraltro, insieme al suo aggettivo relativo, viene citata pochissime volte nelle quasi 250 pagine del testo), per “ritrovare” e dare un senso alle proprie radici. La potremmo definire anche una “letteratura migrante”, un ritorno – forzato e inconscio – nel ventre caldo e fecondo del proprio paese natio e dei suoi misteri.
In alcune guide turistiche, ormai datate (primi anni ’50), di Sutri troviamo scritto: “Quello che oggi resta della grande Città non è che la Cittadella ossia la fortezza. I cinque borghi che la componevano, spazzati via dal tempo ineffabile si sono persi ormai fra i canneti delle vallate” e “Poche rovine, disperse dovunque nel vasto territorio, testimoniano ancora l’antica grandezza che il muschio e l’edera nasconde e custodisce tra il verde”. Uno dei tanti meriti che riconosciamo alla scrittura evocativa di Martina Salza è senz’altro quello di averci riportato e fatto conoscere parte di “questi borghi” in un particolare momento storico – il Medioevo – che ancora tanto ha da insegnarci. La descrizione minuziosa e dettagliata della vita quotidiana, la caratterizzazione dei vari personaggi, la verosimiglianza (frutto di una ricerca storiografica durata vari anni) delle situazioni ci accompagnano verso la conoscenza ma anche verso la risoluzione del “mistero”. Continua a leggere →

Sandra Rebecchi, I libri mi parlano?

23 venerdì Set 2016

Posted by letteremigranti in letture, Sandra L. Rebecchi

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Jean-Paul Sartre, letture, libri, Patrizia Rinaldi, Sandra Luigia Rebecchi

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Libreria a Lisbona. Foto di Sandra L. Rebecchi

               I libri mi parlano?

Sono una lettrice compulsiva. Da sempre. Lo so. A casa mi aspetta una intera libreria stracolma di libri da leggere assolutamente, per i quali ancora non ho trovato il tempo (o il momento giusto?). E solo occasionalmente leggo e-book, eppure l’ingombro sarebbe minore.
Spesso mi prendo in giro da sola. I libri costano e se entro in una libreria non riesco ad uscirne senza acquistarne almeno uno:  prima o poi, al momento di pagare, il POS mi straccerà il cartoncino del Bancomat …
Scherzo, ma poi mica tanto. E non è solo un fatto economico. Entrare e uscire dai mondi di cui parlano i libri che leggo non mi farà male prima o poi? Le mie entrate e uscite sono frequenti: a volte dopo tre giorni di immersione in un thriller, inizio a leggere una saga, oppure un saggio di psicologia.
Perché sono anche una lettrice onnivora, non mi tiro indietro davanti a niente.
Però non può essere solo mia la responsabilità … Non sarà un po’ anche colpa dei libri?
Beh, in un giorno del luglio scorso, ne ho avuto la riprova: non sono io quella esagerata, sono i libri che mi parlano, che mi chiedono di leggerli.
Ora ve lo racconto se promettete di non prendermi per matta.
In luglio, appunto, entro in una libreria sconosciuta, abbastanza grande, di quelle con le scaffalature alle pareti, ma anche gli espositori staccati dal muro stracolmi delle ultime novità. Comincio a camminare in mezzo ai libri e dopo poco trovo quello per il quale sono entrata: un romanzo di Murakami. Accanto ci sono ovviamente altri autori e, senza pensare, prendo dallo scaffale altri volumi e ormai le mie mani sono colme. Mi siedo su una pedana di legno che sporge da sotto uno scaffale. Dopo averli poggiati accanto a me, comincio a guardare meglio i libri. Leggo le notizie sugli autori e la quarta di copertina. Poi inizio a sfogliarli: sì, il carattere, i capitoli (in genere mi piacciono quelli divisi in capitoli;  i discorsi senza soluzione di continuità mi turbano), il numero di pagine. Poi inizio a leggere qualche riga di ognuno, passando compulsivamente dall’uno all’altro.
Mi si avvicina la commessa. Gentile e sorridente, mi saluta. Ha altri libri in mano e me li porge:  «Signora, sono usciti da poco, forse possono interessarle!»  Ringrazio e lei mi porge altri quattro volumi. Li ammucchio con delicatezza accanto a me e comincio ad esaminarli. Allo stesso modo in cui lo fanno tutti. La stranezza forse è che sono completamente dimentica di essere seduta quasi a terra e di sfogliare, alternandoli, volumi su volumi.
Quanto tempo sono rimasta lì? Non lo so. So che stavo bene contornata da migliaia di pagine stampate e comunque ero completamente assorta.
Quando mi sono riavuta avevo scelto; sono andata in cassa col romanzo per il quale ero entrata più altri quattro. Come al solito. Continua a leggere →

Fanny Lewald, da “Italienisches Bilderbuch”

24 giovedì Mar 2016

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Album italiano, Anna Maria Curci, edizioni La Vita Felice, Fanny Lewald, George Sand, letture, Luciana Tufani editrice, Rita Calabrese, traduzioni

Fanny Lewald nel 1848

Il 24 marzo 1811, 205 anni fa, nasceva a Königsberg Fanny Lewald  (il padre, David Marcus,  commerciante ebreo, cambiò il cognome di famiglia in Lewald nel 1831). All’epoca dello Junges Deutschland (Giovane Germania), movimento letterario che si sviluppa in particolare tra il 1833 e il 1848, si comincia a scrivere di emancipazione femminile. Fanny Lewald precorre con molti suoi testi il movimento di emancipazione femminile così come lo conosciamo dai primi del Novecento. Scrittrice coraggiosa, sovente definita, con le semplificazioni sbrigative delle etichette, “la George Sand tedesca”, a lei Rita Calabrese, che ha curato l’edizione italiana del suo Italienisches Bilderbuch, Album italiano (La Vita Felice, 2015), ha dedicato un intero capitolo della bella raccolta di saggi Sconfinare. Percorsi femminili nella letteratura tedesca (Luciana Tufani editrice 2003). Fanny Lewald soggiorna in Italia per tredici mesi, dall’agosto 1845 al settembre 1846. Dal viaggio nasce appunto il libro Italienisches Bilderbuch, pubblicato nel 1847, che continua, rinnovandola profondamente, la tradizione del resoconto di viaggi. Nell’epoca di passaggio dalla Bildungsreise, viaggio di formazione, a ciò che sarebbe divenuto il turismo di massa, Fanny Lewald imprime al suo resoconto del viaggio in Italia un valore di “testimonianza del tempo”. Lo sguardo è attento sui luoghi visitati, sulle persone e le culture ‘altre’ incontrate. Lo spirito di osservazione, finissimo, si affianca così alla manifestazione di una lucida visione del mondo. Questo avviene anche nel breve brano riportato qui di seguito. Tratto da Italienisches Bilderbuch, introduce il resoconto relativo alla “Grotta di Egeria” a Roma. Potete leggerlo qui nella mia traduzione e nell’originale in tedesco. (Anna Maria Curci)

Ai nostri giorni si parla sempre dello sviluppo progressivo dell’idea pura di genere umano e di spirito umanitario, di giusto apprezzamento di ciò che è buono e nobile! Eppure a me sembra che per molti versi non siamo andati particolarmente avanti e che gli antichi nel loro umanesimo pagano fossero spesso molto più miti e molto più giusti di noi. (Fanny Lewald, traduzione di Anna Maria Curci)

Man spricht immer von der fortschreitenden Entwicklung der reinen Idee der Menschheit und Menschlichkeit in unseren Tagen, von gerechter Würdigung des Guten und Edlen! Mich dünkt jedoch, daß wir in vielen Beziehungen nicht sonderlich weitergekommen sind und daß die Alten in ihrem heidnischen Humanismus oft viel milder und viel gerechter waren als wir. (Fanny Lewald, da: Italienisches Bilderbuch)

Christoph Ransmayr, Il mondo estremo

20 domenica Mar 2016

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Anna Maria Curci, Christoph Ransmayr, Il mondo estremo, letture, Metamorfosi, Ovidio, romanzo

dieletztewelt

Buon compleanno, Christoph Ransmayr, con la riconoscenza di chi ha letto e ritorna spesso sulle pagine del tuo romanzo Die letzte Welt, Il mondo estremo, sui passi di Cotta alla ricerca di Ovidio in esilio a Tomi, “il mondo estremo”, appunto. Buon compleanno e grazie per il tuo repertorio ovidiano, per i personaggi delle Metamorfosi messi a fronte in uno specchio che esalta come sonoro schiaffo somiglianze e differenze tra mondo antico e mondo estremo, l’ultimo mondo ovvero delle novissime atroci cose.  (Anna Maria Curci)

Un uragano, era uno stormo d’uccelli alto nella notte; uno stormo bianco, che si avvicinava frusciante e d’improvviso si abbreviava nella cresta di un’onda immane, ormai a ridosso della nave. Un uragano, erano le grida e i singhiozzi nel buio sottocoperta e l’acre odore del vomito. Era un cane, reso folle dai cavalloni, che dilaniò i tendini di un marinaio. Sopra la ferita si rimarginò la spuma. Un uragano, era il viaggio verso Tomi.
Sebbene anche durante il giorno e in molti punti della nave, sempre più discosti, tentasse di scampare al suo affanno rifugiandosi nello stordimento o almeno in un sogno, sull’Egeo Cotta non riuscì a prendere sonno, e neppure in seguito sul Mar Nero. Ogniqualvolta la spossatezza lo induceva a sperare si calcava la cera nelle orecchie, si avvolgeva una sciarpa di lana azzurra davanti agli occhi, si metteva sdraiato e contava i suoi respiri. Ma la risacca lo sollevava, sollevava la nave, sollevava il mondo intero oltre la schiuma salata della scia, ancora più in alto, teneva per un attimo tutto in equilibrio e faceva poi precipitare il mondo, la nave e quell’uomo sfinito in una valle di flutti, nella veglia e nella paura. Nessuno dormiva. (da: Christoph Ransmayr, Il mondo estremo. Traduzione di Claudio Groff. Nuova edizione riveduta, Feltrinelli 2003, 9)

Ein Orkan, das war ein Vogelschwarm hoch oben in der Nacht; ein weißer Schwarm, der rauschend näher kam und plötzlich nur noch die Krone einer ungeheuren Welle war, die auf das Schiff zusprang. Ein Orkan, das war das Schreien und das Weinen im Dunkel unter Deck und der saure Gestank des Erbrochenen. Das war ein Hund, der in den Sturzseen toll wurde und einem Matrosen die Sehnen zerriß. Über der Wunde schloß sich die Gischt. Ein Orkan, das war die Reise nach Tomi.
Obwohl er auch tagsüber und an so vielen, immer entlegeneren Orten des Schiffes aus seinem Elend in die Bewußtlosigkeit oder wenigstens in einen Traum zu flüchten versuchte, fand Cotta auf dem Ägäischen und dann auch auf dem Schwarzen Meer keinen Schlaf. Wann immer seine Erschöpfung ihn hoffen ließ, drückte er sich Wachs in die Ohren, band sich einen blauen Wollschal vor die Augen, sank zurück und zählte seine Atemzüge. Aber die Dünung hob ihn, hob das Schiff, hob die ganze Welt hoch über den salzigen Schaum der Route hinaus, hielt alles einen Herzschlag lang in der Schwebe und ließ dann die Welt, das Schiff und den Erschöpften wieder zurückfallen in ein Wellental, in die Wachheit und die Angst. Niemand schlief. (Christoph Ransmayr, Die letzte Welt, Fischer 1991, 7-8; la prima edizione, con Gremo Verlagsgesellschaft, è del 1988)

Qui per ascoltare la lettura dell’incipit dell’originale in tedesco

Letture a due voci, 1: Patrizia Rinaldi, Rosso caldo

15 martedì Set 2015

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Letture a due voci, Narrativa, Recensioni, Romanzi

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Anna Maria Curci, edizioni e/o, letture, Patrizia Rinaldi, recensioni, romanzi, rubriche

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Patrizia Rinaldi,  Rosso caldo, edizioni e/o, 2014

Leggendo Rosso caldo di Patrizia Rinaldi si respira Napoli. Una Napoli autentica, abbracciata dal suo mare e accarezzata dal suo vento carico di profumi quotidiani, quello del pane, quello dei fiori, quello della pioggia.
Si è raggiunti con naturale semplicità da un girotondo di personaggi di varia umanità, dipinti a tinte allegre e vivide come pure più fosche, a formare un quadro di realtà. Con loro si ride e si piange.
Il mistero della trama, avvincente e fluida, conduce tra le strade, tra i palazzi, dentro le case, illustrato da piccoli eppure indimenticabili cenni descrittivi di luoghi dall’atmosfera particolare, come il “pezzo di passato, sopravvissuto non si sa perché” che ospitava il basso della casa delle cugine Rosselli.
L’introspezione dei personaggi, più delineata nei capitoli monologo ad essi dedicati, prosegue per tutta l’opera con pensieri intimi e osservazioni che rendono familiari quei volti solo immaginati. I fatti del commissariato di Pozzuoli e degli altri che ruotano intorno alla vicenda coinvolgono per la veridicità e si seguono con ansia.
Una menzione particolare, certamente, va alla contraddittoria e difficile relazione tra Blanca, la sovrintendente, e l’ispettore Liguori. Si amano ma si fuggono. Si cercano ma si evitano in un’alternanza di paura, sentimento profondo, vigliaccheria e attrazione. Blanca, ipovedente, soffre perché lui le sussurra parole stupende e poi sparisce. Vorrebbe troncare ma lo sente fortemente in tutto il suo essere. Sente il suo amore scombinato e incoerente, ne ha bisogno ma non può permettersi il dolore che prova. «Mi levi forza, Liguori, mi fai molla di carne viva, senza pelle».
E poi c’è Ninì, figlia adottiva di Blanca. Sembra di vederla, chiusa nel ripostiglio della scuola, sola con la sua vita tormentata, lontana anni luce dai compagni e dai professori, pieni di atteggiamenti e idee che non la toccano. Anche Ninì ama Blanca in modo contraddittorio, di un sentimento spaccato a metà ma vero.
Come non affezionarsi a loro?
Servendosi di un linguaggio immediato e spontaneo, l’autrice dissemina le pagine del romanzo di brevi frasi di una saggezza universale e antica che, dalle labbra dei personaggi, vanno dritte all’anima del lettore per restarvi.
«Evitare il dolore equivale a evitare la vita».
«Ospedali, carceri e roba simile… mi sembrano meno finti di tutto il resto».
Questo libro possiede un requisito essenziale: dispiace quando si arriva all’ultima pagina.
Da leggere.

©Laura Vazzana

*

Con Blanca e la sua percezione ‘altra’, superiore e dolorosa, tornano il commissario Martusciello e la sua saggezza mal conciata dalla vita, l’ispettore Liguori,  che pratica l’arte dell’investigazione come i nobili avi coltivavano l’otium, ma che qui vacilla tra crisi latente e palese,  l’agente scelto Carità con le sue teorie irresistibili, tornano splendori e miserie di Napoli e Pozzuoli, veri personaggi di primo piano.  Misteri e delitti corrono affiancati e paralleli, le mura di palazzi storici gemono, uditi solo da chi è in grado di sentirli, con un talento nato, forse, proprio dall’esclusione.  L’amore, «lasciato lì con le zampe che si muovono ancora», reclama la sua parte sin dai versi di Raboni in epigrafe.

©Anna Maria Curci

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