Herta Müller, Cuoreanimale. Lettura di Cristina Polli

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Herta Müller, Cuoreanimale. Lettura di Cristina Polli

Il dovere della memoria. La scena frantumata.

Cuoreanimale di Herta Müller, letto nell’edizione Feltrinelli nella traduzione di Margherita Carbonaro, è, in estrema sintesi, una storia di resistenza al regime violento e degradante della dittatura di Ceausescu. L’io narrante, che condivide molti tratti con la biografia dell’autrice, è una studentessa proveniente da un villaggio del Banato abitato dalla minoranza sveva. Prima chiave di lettura del romanzo, e suo incipit, è la consapevolezza che sia parlare che tacere tradiscono il ricordo e la memoria quando la paura toglie ogni possibilità di sopravvivere al pensiero e alla persona. Riporto alcuni stralci dell’incipit:

Quando stiamo zitti diventiamo sgradevoli, disse Edgar, quando parliamo diventiamo ridicoli. […]
Con le parole in bocca calpestiamo un sacco di cose, come coi piedi nell’erba. Ma anche col silenzio. […]
E se ci penso, ho l’impressione che ogni morto si lasci dietro un sacco di parole.
L’erba sta dentro la testa. Quando parliamo, viene falciata. Ma anche quando stiamo zitti. E la seconda, la terza erba ricresce come le pare. Eppure siamo fortunati.

Che valore ha quindi la parola? Perché narrare, se non per una restituzione? Perché narrare, se non per il dovere umanissimo della memoria? Ma la memoria è così difficile e dolorosa che la scena si frantuma e la voce narrante non può che parlare attraverso continue ferite, attraverso percezioni parziali, distorte e angoscianti:

Volevo avere a che fare con le ruote e poco prima che arrivassero balzavo sulla strada. Lasciavo che fosse il caso a decidere se sarei riuscita a raggiungere l’altro lato. Lasciavo decidere le ruote. La polvere mi inghiottiva per un po’, i miei capelli volavano tra la fortuna e la morte. Raggiungevo l’altro lato della strada, ridevo e avevo vinto. Ma mi sentivo ridere da fuori, da lontano. (p.41)

L’accento posto subito sulla parola, sul pensiero che si intreccia al ricordo e si fa immagine, apre però la via al vero poetico, alle cose trasfigurate nella filigrana della loro autenticità (p. 14):

Nei cortili con i gelsi l’ombra cadeva come quiete sopra visi anziani seduti sulle sedie. Come quiete, perché entravo inaspettatamente anche per me stessa in quei cortili e solo di rado ci tornavo. E quelle rare volte un filo di luce, cadendo dalla cima dell’albero su un viso anziano, mostrava una regione lontana. Il mio sguardo saliva e scendeva lungo il filo. Sentivo i brividi corrermi lungo la schiena, perché quella quiete non veniva dai gelsi ma dalla solitudine degli occhi in quel viso.

Il titolo…

Per parlare, brevemente, della vicenda inizierei dal titolo: nel 2008 viene pubblicato in Italia dalla casa editrice Keller con il titolo Il paese delle prugne verdi. Le prugne verdi costituiscono un simbolo di controllo e oppressione, un richiamo all’arbitrarietà arrogante dei guardiani,  gente proveniente da regioni povere e poi resa tracotante dal misero e meschino incarico, ma anche un richiamo dell’esperienza infantile del controllo esercitato da un padre egoista e violento:

La zappa getta sull’aiuola un’ombra, che invece non zappa. L’ombra resta immobile e guarda il viottolo nell’orto. Là una bambina si riempie le tasche di prugne verdi.
In mezzo alle piante più stupide che ha tagliato, il padre dice: le prugne verdi non si devono mangiare, il nocciolo è ancora morbido, e si morde la morte. Nessuno può aiutarti e muori. La febbre devastante ti distrugge il cuore dall’interno.
Gli occhi del padre sono torbidi, e la bambina vede che l’amore di suo padre è una smania. Che nel suo amore non sa trattenersi. E lui che ha fatto cimiteri augura la morte alla bambina.
Per questo la bambina divora poi tutte le prugne di cui si era riempita le tasche. Tutti i giorni, quando il padre non la vede, nasconde mezzi alberi nella pancia. La bambina mangia e pensa: è per morire. (pp. 24 e 25)

Questo titolo sembra quindi dar conto di una duplice oppressione, di un duplice intrappolamento reso nei  flashback che spesso partono dall’evocazione creata da una parola, dal vissuto di un momento per cercare ragioni di sentimenti, esperienze e stati d’animo (p. 40):

Nella paura erano di casa [gli avventori della bodegă]. La fabbrica, la bodegă, i negozi e i quartieri dormitorio, le stazioni e i viaggi in treno con i campi di grano, di girasole e di granoturco li tenevano d’occhio. I tram, gli ospedali, i cimiteri. Le pareti e i soffitti e il cielo aperto. E se tuttavia, come spesso succedeva, il bere in posti menzogneri diventava avventato, l’errore andava ascritto più che altro alle pareti e ai soffitti o al cielo aperto e non all’intenzione del cervello di un essere umano.

E quando la madre lega la bambina alla sedia con la cintura dei vestiti, quando il parrucchiere taglia i capelli al nonno, quando il padre dice alla bambina che non bisogna mangiare le prugne verdi, per tutti questi anni una nonna sta nell’angolo della stanza. Guarda assente l’andirivieni e i discorsi in casa, come se già al mattino il vento fuori si fosse coricato, come se il giorno si fosse addormentato nel cielo. Durante tutti questi anni, la nonna canticchia nella mente una canzone.

Cuoreanimale è un concetto più complesso. La parola occorre più volte nel romanzo.  Come scrive la traduttrice, Margherita Carbonaro, nella nota Il cuore e l’animale, è una parola ambigua e il suo significato è legato al contesto.  Per districarsi tra i passaggi plurilinguistici attraversati da questo doppio vocabolo consiglio di leggere l’articolo che Anna Maria Curci scrive con sensibilità e competenza sul plurilinguismo di Herta Müller[1].  In merito alla sua apparizione in diversi contesti e con diverse connotazioni, mi sembra che si possa cogliere il riferimento a un nucleo intimo e rivelatore ma anche alla capacità di ribellione e violenza, a qualcosa di sporco. Forse nessuno è libero dal suo cuoreanimale, e forse al cuoreanimale si contrappone il “qualcuno” intrappolato anche nel pensiero e nel sentimento dalla rigidità del regime. Continua a leggere

Terra natia e linguaggio: il plurilinguismo di visioni, volti, voci nella scrittura di Herta Müller – di Anna Maria Curci

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Terra natia e linguaggio: il plurilinguismo di visioni, volti, voci nella scrittura di Herta Müller

 

 

 

Ho visto penzoloni bestiacuore
logora e fiacca, pulsa e poi espelle.
La lingua raspa e razzola tra i resti,
a divinare scambia fondo e cima.
(Anna Maria Curci)

 

Heimat, terra natia, è un concetto al quale la Storia ha donato, tra uso e manipolazioni, molteplici sfaccettature. «Heimat ist nicht die Sprache, sondern das Gesprochene», la terra natia non è la lingua, ma il linguaggio, ciò che viene parlato, replicava Herta Müller nel 2001 alla famosa affermazione di Thomas Mann, secondo la quale è la lingua la patria di ogni scrittore. Herta Müller, appartenente a una minoranza di lingua tedesca nel Banato, nella regione di Timisoara in Romania, si è confrontata, fin da piccola, con tre lingue, il rumeno, il dialetto degli “svevi del Banato” e il tedesco.
Una frase in Herztier, a p. 36 dell’edizione italiana (Cuoreanimale, traduzione di Margherita Carbonaro, Feltrinelli Editore 2021), è a tal proposito rivelatoria: «Il vento non sapeva fermarsi in piedi. Nella lingua della culla il vento si coricava sempre».
Proprio dall’espressione relativa al vento che si posa partono le considerazioni che Herta Müller ha affidato al saggio Wenn sich der Wind legt, bleibt er stehen oder Wie fremd wird die eigene Sprache beim Erlernen einer Fremdsprache[1](“Quando il vento si posa, resta fermo ovvero Quanto estranea/straniera diventa la propria lingua quando si apprende una lingua straniera”).
Ne riporto alcuni passaggi nella mia traduzione: «Nel dialetto del villaggio degli svevi del Banato, dove sono cresciuta, si diceva: Il vento va. (Der Wind geht). Nel tedesco standard, che si parlava a scuola, si diceva: Il vento spira (Der Wind weht). E questo per me che avevo allora sette anni mi suonava come se si facesse male. Nel rumeno, che allora cominciavo a imparare a scuola, si diceva: Il vento batte, vintul bate. Allora mi suonava come se facesse male ad altri. Altrettanto diverso quanto il soffiare del vento è il suo placarsi. In tedesco si dice: Der Wind hat sich gelegt, il vento si è posato, il vento si è coricato. In rumeno, invece: Il vento si è fermato in piedi, vintul a stat. Questo esempio del vento è soltanto una delle immagini costantemente diverse che tra due lingue si trovano ad esprimere lo stesso dato di fatto. Fra tutte le lingue si aprono immagini. Ogni frase è uno sguardo sulle cose modellato dai suoi parlanti, in un determinato modo e non in un’altra maniera.
Ogni lingua vede il mondo in maniera diversa, ha trovato tutto il suo vocabolario in maniera diversa attraverso questa visione differente – lo ha perfino intessuto in maniera diversa nella rete della propria grammatica. In ogni lingua siedono occhi diversi nei vocaboli.
[…] Ma oggi so che questo procedere un po’ alla volta, questo esitare[2] che mi obbligava a scendere sotto il livello del mio pensare, mi diede anche il tempo di guardare con stupore la trasformazione degli oggetti attraverso la lingua rumena. So che devo parlare di fortuna perché questo si è verificato. Quale sguardo diverso alla rondine, in tedesco Schwalbe, in rumeno rindunica, “che siede in fila. Quanto di più c’è rispetto alla parola tedesca: nel nome dell’oggetto si dice anche che le rondini siedono su file nere, una vicinissima all’altra sul filo. Quando ancora non conoscevo la parola in rumeno, le avevo viste così ogni estate al villaggio. Mi lasciava senza parole che la rondine potesse essere chiamata in un modo così bello. Capitò sempre più spesso che la lingua rumena avesse le parole più sensuali, più adatte al mio sentire rispetto alla mia lingua materna. [..] Nei miei libri non ho ancora scritto una sola frase in rumeno. Ovviamente, però, a scrivere insieme a me è sempre anche il rumeno, perché esso mi è cresciuto nello sguardo.
Non fa male a nessuna lingua, se le sue aleatorietà diventano visibili rispetto ad altre lingue. Al contrario, tenere la propria lingua dinanzi agli occhi di un’altra conduce a una relazione resa autentica fino in fondo, a un amore privo di tensioni. Non ho mai amato la mia lingua materna, perché è la migliore, ma perché è quella a me più familiare.
[…]
Anche nelle democrazie la lingua è un territorio politico tanto quanto nelle dittature. Qui come lì essa non dimora al di fuori della vita, qui come lì bisogna ascoltarla attentamente, per cogliere ciò che essa fa con le persone. Questo tuttavia è difficile da rendere in corsi di lingua, perché il cosiddetto “tedesco corretto” ostacola, più di quanto non chiarisca, il suo cambiare nella poesia. Vedo pertanto con dispiacere che i corsi di lingua al Goethe-Institut si siano nel frattempo allontanati moltissimo dalla letteratura»[3].

Si tratta a mio parere di un brano che illumina l’intreccio originale di elementi testuali ed elementi visivi nella scrittura di Herta Müller, anche in Herztier. Questo titolo che crea una parola prima non esistente nel vocabolario tedesco ha, a ben guardare, un’origine rumena, lingua nella quale “cuore” è inima e “animale” animal. Molto probabilmente questa parola fondamentale nel romanzo, concetto e presenza allo stesso tempo, visione alla quale Herta Müller dà voce, questa parola che in tedesco è diventata Herztier, “bestiacuore”, potrebbe essersi palesata alla percezione dell’autrice come “inimal”, fusione di cuore, inima, e animale, animal, tutta proveniente dalla lingua rumena.
Capacità di stupirsi, ma non idillio, né tantomeno vagheggiamento di una lingua perduta, di uno stato di innocenza. Piuttosto assunzione di responsabilità nei confronti del linguaggio, di ciò che viene detto così come di ciò che si tace, e consapevolezza che la lingua è “ladra”:

«Non mi fido della lingua. So bene, per esperienza personale, che essa, per farsi precisa, deve prendere sempre qualcosa che non le appartiene. Non so perché le immagini evocate dalla lingua siano così ladre, perché la similitudine più riuscita si appropri, con il furto, di qualità che non le spettano. La sorpresa nasce solo con l’invenzione e abbiamo continue prove che la vicinanza alla realtà inizia solo con la sorpresa inventata. Solo quando una percezione deruba l’altra, quando un oggetto si impossessa del materiale di un altro, per poi utilizzarlo – solo quando ciò che nel reale si esclude è diventato plausibile nella frase, la frase si può imporre alla realtà come realtà autonoma, come realtà in un certo modo fattasi parola, ma valida in quanto parola»[4].

Quello di Herta Müller è un plurilinguismo complesso e pensoso, allo stesso tempo molto espressivo e poetico nel senso di una creazione ricca e originale di visioni, volti, voci.

Anna Maria Curci

[1] In: Murnau, Manila, Minsk – 50 Jahre GoetheInstitut. München: C. H. Beck 2001, S. 111 – 114
[2] Herta Müller si riferisce all’esitazione nella scelta dei vocaboli in rumeno per lei che era arrivata in città dal villaggio dove parlavo il dialetto degli svevi del Banato e dove aveva appreso a scuola il tedesco standard (N.d.T.).
[3] Traduzione di Anna Maria Curci
[4] Herta Müller, dalla prima delle lezioni di letteratura tenute a Zurigo nel 2007, traduzione di Anna Maria Curci

Il romanzo Cuoreanimale di Herta Müller è stato presentato il 17 marzo 2024 da Cristina Polli e Anna Maria Curci nell’ambito dell’iniziativa Aperitivo con libro.

Tiziana Colusso, Lengua de striga (nota di Anna Maria Curci)

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Tiziana Colusso, Lengua de striga. Teatro delle voci, Bertoni Editore 2024

Lengua de striga. Teatro delle voci di Tiziana Colusso raccoglie testi scritti e pensati per la drammaturgia, composti in un arco di anni molto ampio, a partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento fino al 2023. Con l’eccezione del primo testo proposto, Casa senza bambole (2023), che è anche l’unico monologo, finora inedito, i testi sono drammaturgie a più voci; alcuni di essi sono stati presentati, anche soltanto come lettura scenica, e in qualche caso hanno avuto più d’una messinscena. Il trittico rappresentato da Ars fulguratoria, Lengua de striga e Irina l’idiota, definito dall’autrice come «testo in cammino», presenta tre partiture diverse su uno stesso tema.
Riuniti ora in un volume dall’editore Bertoni (la prima edizione è di marzo 2024), i sette testi drammaturgici qui raccolti offrono a chi legge la possibilità di seguire, a ritroso e, ripercorrendoli, in avanti nel tempo (Casa senza bambole è del 2023, mentre la serie dei testi si chiude, prima del capitolo Infine. Un dramma in due battute e un assolo, con Leonora, atto quinto, del 1989), un percorso di composizione che intreccia in maniera efficace creazione e testimonianza, inventiva e documentazione.
Nella Nota dell’autrice, Tiziana Colusso ricorre alla definizione “drammaturgie poetiche” e riferisce dettagli importanti circa la propria scrittura, che raccoglie e accoglie narrativa, saggistica e poesia e che nella drammaturgia individua – così giunge alla mia percezione – punti di confluenza ai quali la mente, con il suo tesoro di immagini, percezioni e rappresentazioni, dà voce, articolandolo in una pluralità di voci. Sull’importanza della voce, Tiziana Colusso ebbe a dire qualche anno fa a Roma, in occasione della presentazione del progetto di Giovanna Iorio “Poetry Sound Library”:

Il lavoro con la voce, sulla voce, mi ha salvato la vita. Voglio iniziare da questo, perché bisogna superare la linea d’ombra che separa la cultura come decorazione o distintivo dalla cultura come pharmakon. Sappiamo che pharmakon, nella sua radice, racchiude insieme veleno e cura.

Fonti e spunti nel “teatro delle voci” del volume, teatro tanto più coinvolgente quanto più autentico  e pervasivo è il coinvolgimento dell’autrice, il suo accogliere e affrontare il rischio di porgere l’orecchio anche all’inaudito, sono di provenienza diversa: verbali di processi, interviste, opere di narrativa e di teatro, opere liriche e di poesia, studi geologici ed archeologici, diventano l’humus di pièces che si distinguono per capacità visionaria e per una veridicità che si estende dalla testimonianza alla profezia, come dimostra, ad esempio, Il tempo del vaiolo, che dipinge un universo di contagi, esclusioni, chiusure causate da un’epidemia di vaiolo, e che risale al 2001, vale a dire a quasi venti anni prima di ciò che l’umanità ha vissuto nel 2020 con la pandemia causata dal virus Covid-19.
Le variazioni sui temi altamente drammatici dell’oltraggio, della violenza, della coercizione, del sentimento di estraneità, dell’esclusione e del dileggio del diverso, della manipolazione del vero, della chiusura a mo’ di clan o casta, della difesa dell’indifendibile, si manifestano, di volta in volta, partendo da un nucleo che può assumere carattere incandescente, se non addirittura perturbante, e che sempre ha il pregio di condensare in un determinato luogo-scenario – Casa senza bambole[1], Il Precipizio, la “circonvallazione est” in Mida alla circonvallazione est –, in un nome di persona che si è già affermato in precedenza come nome di personaggio – proveniente dalla letteratura, dalla Storia, dal mito, dalla librettistica d’opera, come avviene per Irina l’idiota, Mida alla circonvallazione est, Sparizione di Giovanna[2], Leonora, atto quinto[3] -, in un morbo – Il tempo del vaiolo -, in un termine dalla duplice accezione – Lengua de striga – il significato profondo e, insieme, il fondamento della pièce, ma anche le coordinate nell’universo mitopoietico di Tiziana Colusso, così come i suoi appigli e i suoi riferimenti a realtà che si sono manifestate nello spazio e nel tempo.
In tal senso, particolarmente toccante è la trama di battute e controrepliche in Il Precipizio. Teatro delle voci per Donatella e Rosaria. Donatella è Donatella Colasanti, Rosaria è Rosaria Lopez, le vittime, una sopravvissuta, l’altra uccisa, del massacro del Circeo.
L’irruzione dell’orrore nella quotidianità, la portata storica in termini di sconvolgente conoscenza dell’abisso del male, che il delitto del Circeo di fine settembre del 1975 presentò alla mia generazione e che continua a presentare, per chi ancora intende sottrarsi alla Grande Rimozione, alle generazioni successive, si palesa, nel testo drammaturgico di Tiziana Colusso, come polifonia, nella quale la Narratrice (la voce adolescente degli anni Settanta, la ‘testimone del tempo’), si alterna a quella di Donatella, sopravvissuta al massacro, a quella di Circe, che, dal Precipizio del Circeo, apostrofa le “puellae”, le fanciulle, le ragazze violate, ricordando loro come avesse tentato, proprio attraverso il crollo millenario del costone roccioso, di metterle in guardia, mentre gli Assassini fanno sentire la propria voce, così come fanno le loro madri-lupe, che difendono e coprono il loro crimine. Nella tessitura, il Coro è rappresentato da un’odiosa eppure persistente Vox populi (“le ragazze se la sono cercata”). A ricordare ulteriori frequentazioni contemporanee del sito intervengono, tra le voci, anche gli Scalatori, che ricordano pendenza e gradi di difficoltà di arrampicata del luogo. Una polifonia che affronta, in termini drammaturgicamente elevati, la complessità di rapporti tra bene, innocenza, banalità del male, male assoluto, esistenza e testimonianza sulla Terra e nella storia.

Anna Maria Curci

[1] In Casa senza bambole la suggestione si estende dal luogo-scenario al richiamo alla celebre opera teatrale di Henrik Ibsen, Casa di bambola.
[2] Per Sparizione di Giovanna, la provenienza è duplice: Giovanna d’Arco dalla Storia e Giovanna Dark da Santa Giovanna dei Macelli di Bertolt Brecht.
[3] Per la precisione, Leonora da La forza del destino, nota come Potenza del fato oppure “opera innominabile” di Giuseppe Verdi a causa di una misteriosa e puntuale serie di incidenti che hanno costellato le sue rappresentazioni.

Diego Zandel, Eredità colpevole (nota di Anna Maria Curci)

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Diego Zandel, Eredità colpevole, Voland 2023

 Il protagonista di Eredità colpevole, Guido Lednaz, i cui tratti autobiografici sono palesi fin dal cognome, quello dell’autore, Zandel, rovesciato, è alle prese con un mistero del quale intende venire a capo. Si tratta dell’omicidio del giudice La Spina, rivendicato da un fantomatico gruppo, che si presenta come “Falange Nera” in un comunicato inviato al quotidiano romano “La Repubblica”.
Luigi La Spina, Gigi per gli amici, è vittima di un agguato. L’omicida, con il volto coperto da un casco integrale, lo fredda dinanzi al portone di casa, a via Meropia nel quartiere Aventino, e riparte poi in sella a una moto da cross.
La Spina era stato – così la trama – giudice al processo all’infoibatore Josip Strčič, che si era concluso con una sentenza di assoluzione per «difetto di giurisdizione». Il processo era stato accompagnato da manifestazioni di gruppi di estrema destra, alle quali Lednaz, figlio di profughi fiumani, aveva assistito sdegnato. Lednaz è convinto infatti che l’estremizzazione delle posizioni abbia dato e continui a dare adito alla versione, falsa e pericolosa, di un esodo di fascisti da un regime comunista.
L’esodo non è stato una scelta ideologica, ma è stato imposto da vessazioni continue di ogni tipo e da veri e propri crimini. Da quel processo, che vedeva Josip Strčič imputato, Guido Lednaz aveva auspicato l’accendersi di una luce di verità su drammi ed eventi tragici dimenticati. Di questo aveva parlato proprio con il giudice La Spina, il suo amico Gigi, in particolare dopo l’estromissione dal processo del pm Lucitti, per «interesse in causa», come richiesto dall’avvocato difensore di Strčič, Gaspare Poltronieri.
Già nel secondo dei trentasei capitoli che compongono il romanzo, Lednaz fa un passo indietro rispetto al presente narrato per rievocare l’incontro a Roma con il giudice La Spina. Le ricostruzioni ricorrono nel libro e si inseriscono nella trama sempre a ragion veduta: è della Storia che si parla, di una eredità di memoria che va affrontata, con viva partecipazione e, nel caso degli esuli e dei figli degli esuli (come Lednaz), con la ferma intenzione e l’operosa ricerca, pur nel dolore. La ferma intenzione riguarda il non lasciarsi né manipolare né strumentalizzare e rappresenta un impegno a dar voce a chi non l’ha mai avuto o non l’ha più; l’operosa ricerca è rivolta alla precisa individuazione di responsabilità.
A un’indagine condotta (e narrata) secondo criteri di limpidezza e di rispetto, ma, nell’evolversi della vicenda, tutt’altro priva di rischi per l’incolumità di chi la conduce, si affianca un viaggio nel passato per molte delle persone coinvolte, anche per Guido Lednaz, dunque, che riflette sulle vicende della propria famiglia, sul proprio rapporto con la figura materna, sulle ragioni biografiche di entrambi, madre e figlio, che li hanno condotti ad avere un rapporto problematico.
Un ritmo narrativo, che non perde colpi e che avvince, con corse, inseguimenti, colpi di scena, riconoscimenti, accompagna le azioni dei personaggi, dei ‘ricercatori’ e dei loro ‘aiutanti’, di vittime e carnefici, di complici con i loro silenzi e di benefici coadiutori negli smascheramenti. Se ci si fermasse solo a questa affermazione, senza menzionare ulteriori qualità, Eredità colpevole sarebbe semplicemente un riuscito giallo «con tinte noir» ambientato tra Roma e Trieste. Ciò che lo rende un romanzo ricco di umanità, che oltrepassa la mera classificazione di genere, è la capacità dello scrittore Diego Zandel di affrontare, con pari lucidità ed empatia, ampiezza informativa e ‘coraggio della mitezza’, la materia incandescente, con il suo carico di eventi sanguinosi e di distacchi strazianti, della Storia, qui della realtà storica, vicina nello spazio e nel tempo eppure da troppi ancora ignorata, dalla Seconda Guerra Mondiale all’immediato dopoguerra e, per le conseguenze, ben oltre, al confine orientale d’Italia. È una storia che riguarda tutti noi, che deve diventare ‘eredità consapevole’.

Anna Maria Curci

Giovanna Amato, Tutto in questo concerto può tutto – Mozart, K491

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Giovanna Amato, Tutto in questo concerto può tutto – Mozart, K491

 

A mia madre, che sa ascoltare (almeno me)
con ineguagliabile pazienza.

L’anno prima, nel 1785, Mozart aveva scritto il concerto 20 in re minore K466. Il mio insegnante di pianoforte diceva, ma di questo non ho fonti e non l’ho più trovato altrove, che il re minore è la tonalità cui le donne sono più sensibili. Sia come sia, l’anno prima Mozart aveva scritto il concerto in re minore K466, probabilmente il più bello e completo dei concerti al mondo, e l’aveva fatto finire con un movimento in maggiore pieno di luce e di allegria. Quando scrive il concerto in do minore numero 24, invece, Mozart fa qualcosa di pazzo: lascia che anche il terzo movimento termini in minore, senza piccarda, in una desolazione tutta onesta e reale, cosa che ha perplesso il pubblico del suo tempo e ha fatto dire a un estasiato Beethoven “noi non faremo mai nulla di simile”. Per entrambi i concerti ascolto le lezioni (e le cadenze) di Mitsuko Uchida, mia inarrivabile interprete mozartiana, cui devo un risveglio alle tre antimeridiane per riuscire a coprire la tratta Perugia-Roma necessaria a passare dal suo abbraccio la sera dopo un concerto al mio essere fresca e pimpante a scuola alle otto del mattino. Sua l’esecuzione a margine di questi appunti dall’incisione Philips 2006 con la English Chamber Orchestra e Jeffery Tate. Sue le dita nelle cuffiette quando scrivo, cammino, copro tratte Perugia-Roma a orari impervi, e questo per una semplice ragione: le sue dita scandiscono ogni nota, e nulla va perduto. E questo, per chi vuole parlare a ruota libera del concerto 24, è condizione essenziale.
Glenn Gould (in L’ala del turbine intelligente, Adelphi) argomenta per una densa pagina sostanzialmente la seguente cosa: il concerto 24 non regge le intenzioni, e dopo una prima apertura manda i buoi (stilema mio) fuori dalla stalla.
Tecnicamente ha ragione: la struttura è in forma sonata, eppure a molti ascolti non si compone, ma monta e si accavalla, in una serie di scale e fischiettii che fanno tessera e tassello. Il “tutti” dell’orchestra non anticipa quello che il “solo” del pianoforte ha da dire. Il tema lancia le sue bordate, con l’orchestra più variegata del repertorio mozartiano, ma non appiglia. Quando il pianoforte attacca, si comprende che questa frammentazione è la meraviglia, nei suoi arpeggi e nelle sue modulazioni in maggiore. Il tema ha sviluppo ma divaga, ricompare, è un già sentito, il ritmo ternario che all’inizio si poneva marziale ora culla. I bassi segnano un perpetuo inizio smorzato dall’insolenza delle scale. Gioca, questo allegro, a farsi sontuoso ma trattenendo al suo interno vene di irriverenza divertita. Fino al minimo intermezzo, verso il minuto otto, di una soluzione melodica di delicata dolcezza, presente solo per porsi a barriera e ritirare i dadi di una continua sterzata. La cadenza asseconda questo montaggio apparentemente disattento, che scarica in una chiusa orchestrale maestosa e piena. Anche in questo caso sovversivo, Mozart aggiunge la presenza di un piano solo, che si intromette e traghetta l’orchestra verso un delicato pianissimo. Continua a leggere

Quali maestri dietro “Il Maestro e Margherita”? – di Anna Maria Curci

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Quali maestri dietro Il Maestro e Margherita? Richiami intertestuali e trasformazioni nel romanzo di Bulgakov

Il breve itinerario toccherà, attraverso riferimenti testuali, strutturali e relativi alla storia della redazione del romanzo, le opere di tre scrittori noti e cari a Bulgakov.
La prima opera e il primo autore sono, come è lecito aspettarsi, Faust e Johann Wolfgang Goethe. Faust è il Lebenswerk, l’opera di una intera vita, di Goethe, che a questa materia lavora per sessanta anni. I riferimenti a Faust. Der Tragödie erster Theil (la prima parte del Faust, quella che si conclude con la “tragedia di Gretchen”) sono numerosi e sparsi per tutto il libro, a partire dalla citazione in esergo, tratta dalla scena che si svolge nello studio di Faust (Studierzimmer) e nella quale Mefistofele risponde alla domanda di Faust su chi egli sia con queste parole:

Ein Teil von jener Kraft,
Die stets das Böse will und stets das Gute schafft.

(«Una parte di quella forza/ che sempre vuole il male e sempre crea il bene.»).

Lo stesso nome di Woland, riferito al diavolo (appare anche nelle varianti Valand, Faland, Wieland) nelle leggende relative a Faust (il Volksbuch “Historia von D. Johann Fausten” risale al 1587), appare se pure con l’iniziale V e non W, dunque “Voland”, nella scena del Faust che porta il titolo Walpurgisnacht (“Notte di Valpurga”), nella quale Mefistofele esclama: «Platz! Junker Voland kommt.» (“Fate largo! Giunge il cavaliere Voland”).
Già all’inizio del romanzo, tra i nomi possibili del “consulente straniero” che, a memoria, vengono snocciolati nella ricostruzione dell’incontro agli stagni Patriaršie, viene menzionato anche quello di Wagner, che nell’opera di Goethe è invece l’assistente di Faust.
Sono sparsi nei diversi capitoli riferimenti a opere (come il Faust di Gounod) o a Lieder (come Aufenthalt, “Sosta”, su testo di Ludwig Rellstab in Schwanengesang di Franz Schubert), che si ispirano all’opera di Goethe.
Il Maestro, che appare solo nel XIII capitolo del romanzo (“L’apparizione dell’eroe”), ha in comune con il Faust all’inizio dell’opera di Goethe il disgusto per la vita, la profonda amarezza per un continuo e perpetrato fallimento. Ma gli esiti sono diversi e significativo è il loro divergere. Il Maestro di Bulgakov non è «der strebende Mensch», l’essere umano che vede lo scopo e la natura della propria esistenza nel tendere con tutte le proprie forze verso uno scopo, come ha messo in evidenza più volte il fondatore e teorico dell’antroposofia Rudolf Steiner; non è il Faust sostenitore del capitalismo nascente, come ebbe a sostenere Max Weber nel saggio del 1904-1905 L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.
Il Maestro, come osservò acutamente Jolanda Insana nella Postfazione all’edizione Einaudi del romanzo di Bulgakov, che si può ascoltare dalla sua voce nella registrazione della riduzione del romanzo, letta da Massimo Popolizio per Rai Radio3, ha numerosi tratti in comune con l’autore, il quale, tuttavia, trasmette qualcosa di sé anche a Ivan Nikolaevič Ponyrëv, Bezdomny, una figura di discepolo del protagonista che manca del tutto nel Faust di Goethe.
Margherita è nella scelta del nome indubbiamente ispirata a Gretchen della I parte del Faust di Goethe, ma le analogie sono limitate. Se l’infanticidio commesso da Gretchen è un tratto presente nel romanzo di Bulgakov, esso è attribuito non a Margherita, bensì a Frida. Le vicende e le scelte dei due personaggi femminili divergono inoltre profondamente, giacché la giovane Gretchen appare vittima di una seduzione diabolicamente indotta, mentre la vicenda di Margherita si iscrive nel segno della scelta, consapevole e consapevolmente confermata, dell’amore e, se ci sono tratti di “strebender Mensch” in Il Maestro e Margherita, questi sono attribuiti alla resistenza, all’abnegazione, alla volitività di Margherita, a partire dal primo incontro con Azazello, passando per il volo, per Il Gran ballo di Satana, per le richieste rivolte a Woland, fino alla conclusione. Accanto a questi tratti, Margherita possiede la dote, rarissima nel romanzo e per questo ancor più commovente, della compassione, posseduta principalmente da Margherita, come dimostra la prima richiesta che ella rivolge a Woland dopo il gran ballo, richiesta in favore della liberazione di Frida dalla sua pena eterna, e, in parte, dalla cameriera di Margherita, Nataša. Continua a leggere

L’emicrania del procuratore. Giovanna Amato su “Il Maestro e Margherita” di Michail Bulgakov

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L’EMICRANIA DEL PROCURATORE

Giovanna Amato su Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov

18 febbraio 2024

Qualcuno in questo libro sta scrivendo un romanzo su Pilato, procuratore di Galilea; e di questo romanzo, nel libro, abbiamo frammenti. Del procuratore sappiamo come è vestito, cosa sta facendo in quel mattino di quale giorno. Ha la sua solita emicrania, viene detto quasi di passaggio.
Chi scrive sa l’emicrania cos’è. Quando prende, questa incredibile tiranna inizia a metà mattina, mentre sono al lavoro, un lavoro che prevede sorriso, lungimiranza e nervi saldi, da cui non si può prendere e andar via. Conosco, in quelle ore o in quei giorni, un dolore di forma allucinante, senza ristoro e senza pause, da rendere difficoltosa anche la sola sopravvivenza. L’idea che passerà è un atto di fede. È in preda a questa tortura corporale e terrena che Pilato deve sbrogliare il più assurdo, illogico e forse compromettente dei nodi della sua carriera di procuratore, e ovviamente ciò su cui affonda l’intera soteriologia cristiana.
Il Maestro e Margherita è ambientato, agli occhi di chi lo sa vedere, nella Russia di Stalin, ma qualcuno sta sfondando lo spazio e il tempo per scrivere un romanzo su Pilato, e questo è bene tenerlo a mente.
Bulgakov muore nel 1940. Il Maestro e Margherita viene pubblicato nel 1966. È sopravvissuto, poiché a suo stesso dire i manoscritti non bruciano, anche alla stufa della sua prima stesura a opera dell’autore.
Mi piacerebbe avere gli strumenti critici per affermare e convincere che Il Maestro e Margherita è il più veritiero libro sul genere umano, sicuramente una delle cose più importanti accadute al mondo. Nel ’67 Montale, che pure lo recensirà, lo definisce “un miracolo che tutti dovrebbero salutare con commozione”. Fa parte, se non attualmente a livello geografico almeno a titolo culturale, della letteratura russa. Da quelle parti, gli sta al pari, forse, per eternità di gittata e prodezza di visione, Le anime morte di Gogol’. Libri assai più belli e rigorosi, come I demòni e Anna Karenina, non lo raggiungono neanche da lontano: la loro perfezione non appicca incendi.
L’incredibile postfazione di Igor Sibaldi alle edizioni Mondadori ci informa su cosa pensava di Bulgakov la stampa di regime, quindi la stampa in toto: “bisognerebbe sbattergli ben forte la tempia contro la tazza del cesso, a quel figlio d’un cane”. Bulgakov ha meritato questo composto parere per alcuni racconti e alcune esternazioni, e lettere al governo in cui chiedeva una mutua tregua all’odio con il permesso di espatriare. Stalin, che ha più volte difeso la presenza dei suoi lavori a teatro, all’indomani del suicidio di Majakovskij gli fa una telefonata per sapere se alle volte ha bisogno di qualcosa. Il 28 marzo 1930 Bulgakov aveva scritto una lettera pubblica al governo dell’URSS, anch’essa a margine dell’edizione Mondadori di Il Maestro e Margherita: diceva di essere incapace di esaudire il consiglio degli amici di scrivere una pièce comunista per compiacere il regime, quindi per favore, una sola cosa, lo lascino partire. Stalin non glielo concederà, ma farà di tutto per evitare a sé stesso di spedirlo in Siberia, e nella famosa telefonata gli offrirà un buon lavoro come impresario teatrale. Alessandro Barbero sostiene, quando parla di questo libro, il che per mia gioia accade assai spesso, Alessandro Barbero sostiene che è proprio Stalin quel diavolo che predica male e razzola bene, che arrivando a Mosca distrugge e complica e ammazza senza risparmio ma ha per il Maestro la più sincera delle compassioni. Quel diavolo, quel Woland, la cui iniziale non è altro che la M rovesciata del Maestro.
Protagonista dei primi dodici capitoli, assieme al poeta Iván cui la casa editrice di regime commissiona un libro sull’inconsistenza di Cristo, è una Mosca fatta di menti piccole e discussioni banali, amoretti, vanità e divertimenti spiccioli, “cittadini” delatori e definitive sparizioni di persone. Iván si muove puro e perplesso in un ambiente misero e ostile di gente meschina, in cui comincia a serpeggiare una presenza: quella di un uomo che non ha remore a presentarsi come Satana, accompagnato da Azazello, da un uomo alto e una donna nuda, e dal celeberrimo gatto Behemoth. Il gruppo occupa appartamenti, mette a posto nemici, fa sparire proprietari, deride la buona società moscovita con uno spettacolo teatrale di magia in cui finge di realizzare i desideri modaioli delle donne facendo letteralmente sparire i desiderati vestiti di dosso nottetempo. Le masse informi, nota Montale nella sua recensione del ’67, fanno presto ad andare dietro a un imbonitore, sia esso uno sprovveduto o il demonio in persona. In questo carnevale, conosciamo il Maestro quasi a metà libro, perché (sarò rapida nella disamina e aggiungerò un certo divertimento per la succosità di questi primi capitoli) a fronte di una discussione sull’esistenza di Cristo, e dopo un incontro con Satana e i suoi sodali, il poeta Iván si è trovato in mano la testa mozzata dell’interlocutore ed è stato rinchiuso in manicomio. Lì incontra il Maestro, che in due pagine magistrali gli racconta la storia d’amore con Margherita: quando si conoscono lei lo guarda sorpresa e lui si accorge che per tutta la vita ha amato solo quella donna. Ora sono separati e lei, come sappiamo dal suo incontro con Satana, lo cerca ovunque. Il Maestro è in manicomio per essere stato distrutto dalla stampa di regime per un suo romanzo su Pilato, ritenuto opera di un “credente militante” e tra l’altro già rifiutato e irriso da un direttore editoriale. Aveva deciso, in un attacco psicotico che ricorda il Gogol’ delle Anime morte (ma anche il Bulgakov spaventato dalla sua prima stesura di Il Maestro e Margherita), di bruciare i suoi manoscritti, e solo più in là nel racconto affronteremo la più famosa frase del libro, ripresa in tante e giustissime occasioni: “i manoscritti non bruciano”. Continua a leggere

Pasquale Esposito, Come pagina bianca (nota di Anna Maria Curci)

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Pasquale Esposito, Come pagina bianca, Porto Seguro Editore 2023

Ripubblicato dalla casa editrice Porto Seguro in versione aggiornata rispetto alla prima edizione (Aletti 2004), Come pagina bianca di Pasquale Esposito si presenta come romanzo epistolare, formato da ventuno lettere che seguono un Preludio.  Scorrendole, scopriamo che colui che scrive, ricoverato in un ospedale psichiatrico, indirizza le sue missive a una destinataria di cui, come accade per il mittente, non conosciamo il nome. Altri nomi, non quelli di mittente e destinataria, assumeranno importanza nella narrazione.
Ciò che tuttavia viene messo immediatamente in rilievo è il carattere del contenuto delle lettere, vale a dire l’accesso al mondo interiore dell’io scrivente, la possibilità che le missive offrono di esplorarlo, di percorrere motivazioni, spinte profonde e scelte. Allo stesso tempo, sempre desta e viva è la questione relativa all’atto della scrittura, sia all’atto concreto di riempire righe su una «pagina bianca», sia a quello che comporta l’assunzione di responsabilità circa ogni parola che viene trasmessa, sia, ancora, a quello che illumina la peculiarità – e il suo distinguersi dagli altri – del compito di chi scrive.
Si legge infatti nel Preludio: «Quando ci si prefigge un compito importante c’è sempre il timore dell’attacco, come se si potesse poi giudicare tutto quello che seguirà. La prima nota, quella cellula primordiale, la prima frase come sintesi estrema di tutto ciò che vorrei dire.» (p. 7).
L’impegno dell’io scrivente nei confronti della destinataria è quello di raccontare ciò che pensa, ciò che è «senza alcuna remora, liberamente». D’altro canto, egli si augura che dalla sua attività di redazione delle lettere scaturisca per lui una liberazione dal fardello eccessivamente pesante delle proprie sensazioni, dei propri sentimenti, fardello non condiviso in epoca anteriore a queste lettere, giacché la solitudine è una costante della sua esistenza, anche prima dell’internamento (così viene definito anche nel libro) nella casa di cura.
Nelle ventuno lettere, scritte in altrettante notti che abbracciano l’arco di trentadue settimane, si delineano così motivi conduttori, traumi, passioni, gioie rare e frequenti sofferenze: in breve, la vita di colui che scrive.
Si tratta di una costellazione riccamente popolata, nella quale brillano corpi celesti (per esempio le Sefirot della Cabala, da p. 106 a p. 111, le lacrime trasfigurate, p. 119), vibra la «simpatia cosmica» (conosciuta, tra l’altro, attraverso la curiosità per l’alchimia e la frequentazione degli scritti di Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim e di Johann Tritheim, da p. 44 a p. 46), si spalancano i buchi neri del dolore (causato in gran parte dalla durezza e dalla disistima del padre, dalla sua rigida e coercitiva osservanza delle regole), risuona la ‘musica delle sfere’ nei temi tratti da sinfonie così come da ouverture e arie d’opera, con la terza lettera che si avvale del contrappunto alle annotazioni dell’io scrivente, costituito da citazioni dal Don Giovanni di Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte.
In tale costellazione i testi poetici inseriti in molte lettere irradiano luce propria; tramite questa essi additano ulteriori percorsi del pensiero e rafforzano una delle idee portanti dell’opera di Pasquale Esposito, l’idea che concerne la natura della parola e la condizione di diversità dei poeti: «Con le parole questo non accade. Le usiamo per esprimerci, non per diletto. Pochi di noi hanno la fortuna di percepire fino in fondo la loro musicalità. Forse solo i poeti. Essi sono il retaggio di uno stato evolutivo che non ha trovato sbocchi, una terra di mezzo tra gli oceani dell’evoluzione dell’uomo. Sono sopravvissuti.» (p. 12).
In una narrazione che mantiene un ritmo agile anche nel dispiegarsi delle digressioni, che si evolve verso un esito drammatico e che presenta, tra gli altri, un personaggio, chiamato Girolamo con evidente riferimento al santo, muto ma vivido nella sua descrizione e nel suo agire, emergono altri Leitmotive: il tempo e la memoria, la mnemotecnica, le arti figurative, il tema della marionetta che riporta all’universo di un grande narratore, Heinrich von Kleist.
Molto significativi, nel disegnare anch’essi un itinerario di lettura, sono gli appellativi con i quali il mittente si rivolge via via alla destinataria delle sue missive: «Mia dolce parola» (p. 16), «Parola mia diletta» (p. 27), «Parola cercata» (p. 32), «mia compagna» (p. 36), «Parola mia agognata» (p. 39), «idea figurata dal mio convincimento» (p. 41), «mia parola» (p. 42), «compagna fedele» (p. 53), «mio lapis» (p. 73), «mia immagine prossima» (p. 97), «Binah» (p. 108). La loro successione e il loro collegamento al contenuto delle lettere nella quale appaiono invitano a formulare ipotesi interpretative sul ruolo e sulla valenza della destinataria, oltre che sulla sua identità.

©Anna Maria Curci

 

Seconda notte della VII settimana

Parola mia agognata, ho dato sembianze al tuo nome e questa notte ho sognato di averti accanto, quale uomo comune che divide il letto con l’oggetto del suo amore. Un’immagine costruita a fatica e solo grazie ai ricordi che ho assemblato, come una casa di bambole, per avere una stanza normale. Un luogo usuale ai più, ma così privo di riferimenti ordinari per me, una scena dipinta su tela senza soggetto, alieno alla vista, lastra fotografica impressionata dal buio. Tutto per poter immaginare il momento del risveglio, il più bello del sonno, tanto quanto il peggiore è quello in cui ci si abbandona perdendo la coscienza di ciò che è intorno. Il risveglio arriva e ti ritrovo accanto. E sono di nuovo ricco. Potrai ancora posare i tuoi occhi su di me e ne riceverò vita. Fino a quel momento non c’è stata esistenza che fosse degna di essere tale, dal momento che ero privato di te. Così il sonno è ciò che separa due momenti di vita, una morte momentanea delle sensazioni, un distacco da ciò che ho di più caro, l’immagine di te, il tuo nome, il pensiero di te. Il sonno, dunque, mi è greve a meno che non giunga leggero un sogno con le tue fattezze. Si riaccende dunque lo spirito, sia pure pacato e immobile, accanto al corpo, potendo mantenere viva la ragione di sua vita. Essa scorre lì innanzi, a un passo, quasi da poterla toccare, eppure lontana da poterla invocare, così solo per diletto potendo contare sulla sua venuta. Anche nel sogno mi sento asservito al tuo nome, soggiogato dai tuoi occhi e non posso avere pensieri miei, non posso dedicare la mente ad alcunché, la tua presenza la aliena da tutto. È un senso di pienezza, pur nell’inutilità di questa vita aggettivata meno di un sasso. Così può trascorrere il tempo del sonno e mi sento meno privato. Quando poi matura il tempo, quasi gestante di un’idea cullata tutta una notte, posso lasciare che le mie cellule invochino tutte il tuo nome, un unisono di voci che promana da ogni parte di questo corpo martoriato.
Quanto dura una notte? Al pari del tempo scandito da un uomo che cada dall’alto, un tempo breve eppure così angosciante nella sua fissità di pensiero. Il sonno è suono di sette trombe prima della salvezza.

Apro gli occhi
E ti vedo.
Ruota la clessidra,
tutto ricomincia
insieme al mio respiro.
Di nuovo il chiarore,
di nuovo i colori.
La notte raccatta
le sue masserizie,
ritorna il tuo sguardo
padrone del giorno.

Il tempo si dipana nuovamente se posso scandire il ritmo incessante del tuo nome. La clessidra non smette di girare e di far fluire la sabbia, se posso vederti, idea figurata dal mio convincimento.
(pp. 39-41)

Pasquale Esposito è nato a Napoli e vive a Roma dal 1980. Coltiva, fin da ragazzo, la passione per la poesia e per la scrittura per ricercare libero sfogo alla sua forte creatività che difficilmente riesce ad emergere nella quotidiana attività professionale. È presente in varie antologie di poesie e racconti e ha pubblicato due libri: I pensieri degli altri (2001, L’Autore Libri) e Come pagina bianca (2023, Porto Seguro Editore, in precedenza pubblicato da Aletti)

Irene Sabetta, Errore cronologico (nota di Carlo di Legge)

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Irene Sabetta
Errore cronologico
Il  Convivio Editore, Catania 2023

Leggendo Errore cronologico di Irene Sabetta si respira immediatamente l’aria della grande letteratura anglosassone che, a torto o no, è stata una delle dominanti nelle letterature del mondo, almeno a partire dalle opere di Shakespeare (sempre citato nelle epigrafi alle sezioni del libro e non soltanto), poi nel diciannovesimo secolo (una composizione è titolata al Benito Cereno di H. Melville) ma soprattutto nel ventesimo: T. S. Eliot, T. Beckett, J. Joyce, per dire alcuni nomi esplicitamente presenti. Tuttavia, partendo dalla fine del libro (i quattro monologhi esteriori), il modello joyciano dello stream of consciousness viene alterato, cambiato da interior monologue a “monologo esteriore” (49-53). Il simmetrico opposto, in certo modo: come altrove (da waiting for Godot  qui si trova arrivando Godot – 41). Credo si debba prestar fede a quanto vien detto e che quindi che la cifra della mutazione consista, certo, nel monologare tra sé e “se”, ripetendosi p. e. che “devo smettere di dire/quello che devo dire/non c’è bisogno di dirlo” (49) o anche riportando frammenti sconnessi dei flussi di coscienza. Ma il monologo non è un soli-loquio che resta confinato all’interno, perché, anche, sono portate a vista le tracce della relazione: “vorrei amare di più/essere generosa con tutti…” (50) “intorno alla casa/la tua faccia col sorriso vero e finto/«ho detto qualcosa che ti è andato storto?» sono fatti miei…”, “vorrei parlare con qualcuno…”,  per poi finire “anche se sono illuminata/spegnetemi” (ivi).
Il monologo è “esteriore” perché non solo registra flussi di coscienza dell’ “io-sé” ma si sposta  verso un “tu” e non soltanto perché si suppone un lettore. Cosa si presenta, leggendo “non farmi tornare indietro ti prego/…ora sto bene – mi sento un acrobata in equilibrio/… ti prego di non riportarmi indietro/… scaccia via l’ombra dall’ombra – ti prego…  non so chi tu sia – non ti conosco e non ti vedo/ma ti prego” (51)? Ecco, l’ombra: la fantomatica ombra dei nostri giorni viventi, di cui cercano di dire le psicologie del profondo, che può anche farci tornare – no, ma si sta così bene: non si sta bene così? Forse, contenti “forse” ieri, o un’ora fa o si sarà contenti “domani… di certo”, forse-di certo, ma intanto si può scrivere poesia, tentarla almeno “nei ritagli” (52) e camminare le montagne, è quello che si può fare e di certo piace. Il passato pesa e “il tempo non cambia le cose” (51) ma “tu” ospite e/o ombra parte di me, non riportarmi indietro, e nemmeno troppo avanti, ma lasciami qui, non farmi morire le dita, non i piedi, preferisco questo “inverno” in cui “non ho neanche freddo”, questa pace “desolata ma calda” (ivi).
Nell’ingranaggio della vita “io sono parte del motore” (52) il che non vuol dire che intenda le cose:  a volte il motore è quasi fermo e “continuo a non capire”, non so (come tutti!) “quanto durerà la prova/… e mi rifugio in quello che riesco a vedere/… mi arrendo con dolcezza alla paralisi…” (52). Continua a leggere

Sonia Giovannetti legge “Una remota stazione” di Bruno Bartoletti

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Sonia Giovannetti legge “Una remota stazione” di Bruno Bartoletti

Ogni opera poetica è in sé un viaggio; un viaggio, come ci illumina Ungaretti, verso quel “porto sepolto in fondo al nostro essere” che la poesia cerca di svelare per capire chi siamo. “E per capirlo – aggiunge Milo De Angelis – dobbiamo ritornare, dobbiamo scoprire cosa ha spinto anticamente i nostri passi fino al punto in cui adesso ci troviamo. Per questo il viaggio in avanti verso il nostro porto è nel medesimo tempo un viaggio all’indietro verso ciò che siamo stati e che ora possiamo riconoscere”.
Ecco, dunque, il senso profondo di “Una remota stazione”, la raccolta poetica di Bruno Bartoletti, il cui titolo, assai suggestivo, lascia tuttavia impregiudicata la questione se si tratti di “una stazione di arrivo o un punto di partenza” (p. 5), sebbene il poeta ritenga inessenziale, o forse persino impossibile chiarirlo a se stesso e al lettore, dando così credito ai mirabili versi di Eliot – il celebrato autore dei “Quattro quartetti” – posti all’inizio dell’opera: “Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine/ e finire è incominciare/ la fine è là donde partiamo” (p. 8). Queste, che potrebbero apparire non più che mere chiose preliminari, sono invece una chiave decisiva per collocare “Una remota stazione” nella prospettiva ad essa più adeguata. Che di un viaggio si tratti, e che ad una prima lettura sia un viaggio a ritroso nel tempo, è fuor di dubbio. Un viaggio lungo e travagliato nella memoria del poeta, che prende la mosse sin dai primi componimenti in un’atmosfera crepuscolare, satura di ricordi e di rimpianti – per le persone care ormai scomparse, per i luoghi stravolti dalle ingiurie del tempo e degli uomini, per le scelte mai compiute, per le strade non tentate – e il cui esito, al cospetto di una terza età ormai sopraggiunta, è in un tempo ormai nemico, intriso di solitudine e di silenzio e venato da una malinconica, inerme rassegnazione – ben altra dalla foscoliana “fatal quiete” densa di trepidi umori, “sì cara” al poeta romantico – con cui l’autore di “Una remota stazione” guarda al tratto residuo della propria vita, alla sua “stazione di arrivo”. Fragilità dolente del sentire, rarefazione del senso della vita simboleggiata dai colori autunnali che il poeta adotta a metaforica rappresentazione del proprio stato d’animo (“…attendo nell’autunno inoltrato/ di ritrovare il senso di ogni cosa” (p.184), inimicizia e inesorabilità del tempo sono le note dominanti in molti dei componimenti, declinate in una scrittura suggestiva e ammaliante, ospitale di poesie altrui e ibridata da prose riflessive che contrappuntano i singoli temi del libro.
Se la poesia di Bartoletti parlasse quest’unica lingua, ci troveremmo pur sempre di fronte ad un’opera di squisita fattura – ricca peraltro, nei temi affrontati, di illustri precedenti nella nostra storia letteraria – dalla tonalità dimessa e antiretorica, come si addice ad un’anima piegata a scandagliare i propri più intimi recessi per confessare con totale autenticità i propri tormenti, il peso delle esperienze vissute, l’angoscia del futuro, di quell’oltre misterioso che succede alla vita terrena.
Ma l’indugiare insistito in una postura retrospettiva è lungi dall’esaurire l’ampiezza e la profondità del suo sguardo. Il suo guardarsi indietro, il ricordo accorato delle amicizie perdute e l’acuto rimpianto dei propri cari elevano il suo poetare ad una meditazione speculativa sul pensiero della morte. E proprio alla morte il poeta dedica molte sue pagine. Non sembra qui inutile ricordare che dal timore della morte, la fine di tutte le cose cui l’uomo è destinato, nasce la filosofia, così come la religione. Dal thauma del nulla che inghiotte la vita la civiltà umana invoca da sempre un riparo, una salvezza, che nella storia della civiltà si è chiamata Dio o Essere eterno, ma che per il poeta è invece la poesia. Continua a leggere