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Giorgio Galli, Il matto di Leningrado

10 lunedì Gen 2022

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Daniil Charms, Gattomerlino, Giorgio Galli, Il matto di Leningrado, letture, prosa, recensioni, romanzi

Giorgio Galli, Il matto di Leningrado. Tre passeggiate con Daniil Charms, Gattomerlino 2021

Le tre passeggiate con Daniil Charms – questo è il sottotitolo del volume Il matto di Leningrado,  che Giorgio Galli ha pubblicato nell’aprile 2021 con la casa editrice Gattomerlino – hanno una scansione temporale che colloca la narrazione in una cornice storica drammatica: 21 marzo 1941, 21 giugno 1941, 21 agosto 1941, giorno della sparizione, quest’ultimo, di Daniil Ivanovič Juvačëv, in arte Daniil Charms.
Le investigazioni a proposito dello scrittore che appare, nelle pagine avvincenti scritte da Giorgio Galli, come «un tale che fumava una pipa ricurva e portava un cappello alla Sherlock Holmes», sono tributi d’amore e di una certa ‘affinità elettiva’ da parte di un viaggiatore nel tempo che per tutto il libro viene indicato, talvolta apostrofato, con il pronome personale alla seconda persona singolare.
Il testimone raccoglie gli indizi, sparsi e scarni, sugli ultimi mesi di vita di un autore del quale sono giunte a noi pochissime opere, per vie fortunose, da una misteriosa valigia, attraverso samizdat.
Nella Nota dell’autore Giorgio Galli precisa: «Questa è un’opera narrativa e non di rigore storico». Tuttavia, essa sprona all’indagine letteraria in un contesto storico, un’indagine che sia sottratta e abbia il coraggio di sottrarsi non solo a mistificazioni, bensì anche alla tentazione di sovrapposizioni e di parallelismi con epoche successive.
Una lettura attenta, infatti, permette di individuare alcune piste di ricerca, feconde e degne di interesse:

  • L’esemplarità della vicenda di Charms nonostante la sua eccentricità ovvero, al contrario, proprio in virtù di questa – si pensi alle pagine che Felicitas Hoppe dedica a Charms nelle pagine iniziali di Sieben Schätze. Augsburger Vorlesungen (“Sette tesori. Lezioni di Augusta”).
  • Il filo conduttore della geniale follia, della incomparabilità e della unicità della letteratura russa che è raccolto anche qui, da Giorgio Galli, e che ha una ragguardevole storia della ricezione in Italia – si pensi alle parole di Giorgio Manganelli che aprono il volume di Paolo Nori, dal titolo oltremodo significativo, Repertorio dei matti della letteratura russa. Un altro titolo che appartiene chiaramente a questa linea è sempre di Paolo Nori: I russi sono matti.
  • La produzione letteraria in lingua russa vicina a quella di Daniil Charms, sia per prossimità di scelte, come è avvenuto per Aleksandr Ivanovič Vvedenskij in particolare e per il gruppo “Oberju” (nomignolo con il quale è nota la “Accademia dell’Arte Reale”, fondata da Charms nel 1928) in senso più ampio, sia per legami di parentela: mi riferisco in questo caso alla figura del padre di Daniil, Ivan Pavolvič Juvačëv, la cui opera letteraria era molto apprezzata da Lev Tolstoj.
  • La comicità come slancio alla sovversione e allo svelamento, molto più vicina al tragico di quanto una percezione soporifera purtroppo diffusa – che nega e annega in un brodo indistinto entrambe le istanze. Tratto, questo, distintivo di Charms, che lo accomuna a due scrittori che, come lui, sfuggono a classificazioni riduttive: Jean Paul e, in particolare per il romanzo Fame, Knut Hamsun.

Che si vogliano esplorare o meno le piste di ricerca suggerite, anche soltanto tra le righe, da Giorgio Galli con Il matto di Leningrado, la lettura dell’opera trasmette il desiderio di leggere, e tornare a leggere, tutte le opere di Charms, a partire dalle sue poesie e dai suoi racconti per l’infanzia.

© Anna Maria Curci

Hai letto da qualche parte che a Daniil piacciono i libri sul buddhismo. Sai che campa scrivendo storie per bambini. Ma forse è più giusto dire campava, perché da un paio d’anni non gli fanno più pubblicare. Daniil scrive storie un po’ assurde, e in Unione Sovietica nel 1941 il governo preferisce che i bambini leggano storie edificanti sulla patria e sul socialismo. Uno come Daniil è un po’ sospetto. Quello che scrive fa ridere. Vorrà farsi gioco della patria e del socialismo? Secondo alcuni fa parte di una setta segreta. Secondo altri di un’organizzazione clandestina. Altri ribadiscono: è un matto.
Eppure è difficile sottrarsi alla sua suggestione. Daniil ha charme. Anche quelli che lo considerano un matto un fallito o una spia, subiscono quello charme, e se non gli rivolgono la parola è perché preferiscono ignorarlo piuttosto che guardarlo negli occhi. Dicono che sia un illusionista e che i bambini fanno tutto quello che lui dice.*

*Giorgio Galli, Il matto di Leningrado. Tre passeggiate con Daniil Charms, Gattomerlino 2021, p. 11

Letture a due voci, 1: Patrizia Rinaldi, Rosso caldo

15 martedì Set 2015

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Anna Maria Curci, edizioni e/o, letture, Patrizia Rinaldi, recensioni, romanzi, rubriche

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Patrizia Rinaldi,  Rosso caldo, edizioni e/o, 2014

Leggendo Rosso caldo di Patrizia Rinaldi si respira Napoli. Una Napoli autentica, abbracciata dal suo mare e accarezzata dal suo vento carico di profumi quotidiani, quello del pane, quello dei fiori, quello della pioggia.
Si è raggiunti con naturale semplicità da un girotondo di personaggi di varia umanità, dipinti a tinte allegre e vivide come pure più fosche, a formare un quadro di realtà. Con loro si ride e si piange.
Il mistero della trama, avvincente e fluida, conduce tra le strade, tra i palazzi, dentro le case, illustrato da piccoli eppure indimenticabili cenni descrittivi di luoghi dall’atmosfera particolare, come il “pezzo di passato, sopravvissuto non si sa perché” che ospitava il basso della casa delle cugine Rosselli.
L’introspezione dei personaggi, più delineata nei capitoli monologo ad essi dedicati, prosegue per tutta l’opera con pensieri intimi e osservazioni che rendono familiari quei volti solo immaginati. I fatti del commissariato di Pozzuoli e degli altri che ruotano intorno alla vicenda coinvolgono per la veridicità e si seguono con ansia.
Una menzione particolare, certamente, va alla contraddittoria e difficile relazione tra Blanca, la sovrintendente, e l’ispettore Liguori. Si amano ma si fuggono. Si cercano ma si evitano in un’alternanza di paura, sentimento profondo, vigliaccheria e attrazione. Blanca, ipovedente, soffre perché lui le sussurra parole stupende e poi sparisce. Vorrebbe troncare ma lo sente fortemente in tutto il suo essere. Sente il suo amore scombinato e incoerente, ne ha bisogno ma non può permettersi il dolore che prova. «Mi levi forza, Liguori, mi fai molla di carne viva, senza pelle».
E poi c’è Ninì, figlia adottiva di Blanca. Sembra di vederla, chiusa nel ripostiglio della scuola, sola con la sua vita tormentata, lontana anni luce dai compagni e dai professori, pieni di atteggiamenti e idee che non la toccano. Anche Ninì ama Blanca in modo contraddittorio, di un sentimento spaccato a metà ma vero.
Come non affezionarsi a loro?
Servendosi di un linguaggio immediato e spontaneo, l’autrice dissemina le pagine del romanzo di brevi frasi di una saggezza universale e antica che, dalle labbra dei personaggi, vanno dritte all’anima del lettore per restarvi.
«Evitare il dolore equivale a evitare la vita».
«Ospedali, carceri e roba simile… mi sembrano meno finti di tutto il resto».
Questo libro possiede un requisito essenziale: dispiace quando si arriva all’ultima pagina.
Da leggere.

©Laura Vazzana

*

Con Blanca e la sua percezione ‘altra’, superiore e dolorosa, tornano il commissario Martusciello e la sua saggezza mal conciata dalla vita, l’ispettore Liguori,  che pratica l’arte dell’investigazione come i nobili avi coltivavano l’otium, ma che qui vacilla tra crisi latente e palese,  l’agente scelto Carità con le sue teorie irresistibili, tornano splendori e miserie di Napoli e Pozzuoli, veri personaggi di primo piano.  Misteri e delitti corrono affiancati e paralleli, le mura di palazzi storici gemono, uditi solo da chi è in grado di sentirli, con un talento nato, forse, proprio dall’esclusione.  L’amore, «lasciato lì con le zampe che si muovono ancora», reclama la sua parte sin dai versi di Raboni in epigrafe.

©Anna Maria Curci

Ottavio Olita, Anime rubate

05 mercoledì Ago 2015

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Anna Maria Curci, anonima sarda, Città del Sole edizioni, Costantino Nivola, Dante Maffia, giornalismo, Novità editoriali, Ottavio Olita, Poetarum Silva, recensione, recensioni, romanzo, romanzo and tagged Anna Maria Curci, Sardegna, sequestri

In questo mese di agosto 2015 i lettori di “Lettere migranti” troveranno qui una scelta di “inviti alla lettura”.  Il terzo appuntamento è con Anime rubate, il nuovo romanzo di Ottavio Olita.

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Ottavio Olita, Anime rubate, Città del sole edizioni 2015. Prefazione di Dante Maffia

“Al di là di colpa ed espiazione” è la traduzione letterale del titolo di un libro di Jean Améry (pseudonimo di Hans Mayer), che in Italia è stato tradotto come Intellettuale ad Auschwitz.
Anime rubate, il romanzo più recente di Ottavio Olita, narra di colpa, di espiazione e di ciò che si trova al di là della colpa e dell’espiazione, oltre e accanto, ciò su cui solitamente preferiamo calare il velo della dimenticanza. Non sembri azzardato affiancare la devastazione provocata sui sopravvissuti ai campi di sterminio quella sofferta dai sopravvissuti ai sequestri di persona (questo è infatti, tra i temi affrontati in Anime rubate, quello dominante). A confermare il collegamento proposto c’è uno scambio di battute tra due personaggi femminili, di grande rilevanza nel romanzo: Maddalena Calvi, avvocato, e la sua assistita Alice Maltese, insegnante, già vittima, poco più che ventenne, di un rapimento che squassa la sua esistenza per sempre. Ebbene, questo passaggio mi sembra centrale e niente affatto trascinato per il verso dell’esagerazione:

”L’altra cosa importante è che è la prima volta che questo magistrato si occupa di un sequestro di persona, quindi è bene che lei gli racconti anche le angosce, le paure, la violenza di un reato di cui nessuno parla più e che è stata una vera piaga sociale ed economica per tutta l’isola”.

“Beh, allora avrà modo di fare un rapido apprendistato sulla capacità che ha l’uomo di diventare peggio delle bestie quando mette via umanità e sensibilità per farsi rubare l’anima dal richiamo del denaro, anche di quello sporco di fango e sangue”.

In una narrazione che prende lo spunto da una storia vera, così come è avvenuto per i romanzi precedenti, e che menziona un fatto di cronaca del 2013, il ritrovamento in un muretto a secco delle sculture dell’artista Costantino Nivola, rubate nel 1999 dal museo di Orani, chi legge ha modo di seguire diversi percorsi, di colpa e di espiazione, appunto, di confessioni (dalle ‘confessioni di un ottuagenario’, nel caso narrato dalle confessioni di Antonio Peddis alla nipote Elisabetta, che delle ultime volontà del nonno e del suo desiderio di espiazione si farà poi paladina, partono tutti i fili, numerosi, della vicenda), di miti e coscienza di quella che una volta veniva chiamata “anonima sarda” (Giorgio Mulas, il nipote adolescente di uno dei tre ‘moschettieri’ che animano le inchieste narrative di Olita, Gino Murgia, vede inizialmente negli autori dei sequestri quasi degli eroici Robin Hood, addirittura un’affascinante versione dellabalentìa; lo zio, con dolce determinazione e con l’aiuto del giovane Ignazio, ospite della comunità di don Achille, e di altri testimoni, favorirà un processo di progressiva chiarificazione), di svelamento di verità, di indagini condotte pur nella consapevolezza del pericolo pianificato nel dettaglio da reti complesse del crimine organizzato, con basisti, talpe, killer e colletti bianchi, di lenta e meditata riappropriazione di luoghi (in Sardegna, soprattutto) e di sentimenti. Chi legge, segue con coinvolgimento e convinzione il ritmo e il cambio di passo delle indagini e prova riconoscenza per una via, costruita con concretezza e lastricata di risposte all’interrogativo che mai si dovrebbe mettere a tacere: a che cosa serve la memoria? In tal senso, la vicenda di Giorgio, romanzo nel romanzo, è esemplare e consolida la fiducia, davvero maltrattata in questi tempi di serie televisive e ricostruzioni lacunose, fallaci e manipolate, che lo studio della nostra storia recente, così come lo studio della storia tout court, possa farsi elemento fondamentale della formazione umana. In tutto questo sta, e non è poco, l’andare “al di là di colpa ed espiazione”, senza dimenticare il crimine, senza vanificare, con cancellazioni e prescrizioni, il significato della parola “giustizia”.

© Anna Maria Curci

La nota di lettura è stata pubblicata il 18 luglio 2015 su Poetarum Silva, qui

Giovanni Ricciardi, La canzone del sangue

03 lunedì Ago 2015

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Anna Maria Curci, Arthur Schnitzler, autori siciliani, Doppio sogno, fazi editore, Gialli, Giovanni Ricciardi, letture, musica, Poetarum Silva, recensioni, romanzo and tagged Anna Maria Curci, Vitti na crozza

In questo mese di agosto 2015 i lettori di “Lettere migranti” troveranno qui una scelta di “inviti alla lettura”.  Il secondo appuntamento è con La canzone del sangue di Giovanni Ricciardi.

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Giovanni Ricciardi, La canzone del sangue, Fazi editore 2015
Nota di lettura di Anna Maria Curci

Quanto è vera la vita di carta? Quanto dolore deborda dalle righe di un pentagramma, magari oltre le intenzioni di chi ha trascritto, trasposto e consegnato all’interprete, al lettore, all’ascoltatore, all’esecutore? Quanti significati, ancora, serba, nasconde e svela ai cercatori, aruspici e minatori, il  verbo latino tradere?
Sono domande, queste, che Giovanni Ricciardi sa far emergere, istigando la ricerca di risposte, nella sesta indagine del commissario Ottavio Ponzetti, La canzone del sangue. Punto di partenza sono testo e melodia di una canzone, le cui strofe dell’originale sono riportate nell’esergo della prima parte, e che è nota come canzone popolare siciliana per eccellenza: Vitti na crozza. Ottavio Ponzetti si trova a fronteggiare richieste di aiuto, segreti, antiche e nuove storie, enigmi e rancori, quasi suo malgrado, perché in Sicilia, teatro delle vicende, si trova in ferie con la famiglia al completo. Allora, si chiederanno i lettori affezionati a Ponzetti, dove è finita Roma, dove le sue vie e i suoi colori, la sua afa e il caldo umido? Roma ci sarà, in un ponte reale e ideale, ci saranno perfino l’avvocato Galloni e il suo cane Socrate. Ci sarà, eccome, il fido Iannotta, con il suo romanesco misto di saggezza e di ovvietà; interverrà perfino, come scopriranno i lettori, il commissario Montalbano.
Il mondo plurale, di lingue, idioletti, etnie, radici, gerghi e strati sociali, al quale Giovanni Ricciardi ci ha introdotto, si arricchisce qui ulteriormente, e lascia prevedere sviluppi futuri, nuovi ingressi nel mondo degli affetti.
Torna a schiudere l’accesso ai suoi misteri il potere della musica; il basso continuo della poesia si manifesta con voci che spaziano da Omero ai cantautori italiani, passando per Dante e Dylan Thomas.
Terminata la lettura del libro, dal quale, anche stavolta, non ci si stacca, dopo aver mollato gli ormeggi, se non quando si approda alla meta stabilita dall’autore-nocchiero, torna la domanda sostanziale, che Ottavio Ponzetti e Mario Iannotta ‘fomentano’ tra il serio e il faceto nel corso del romanzo: quanto è vera la vita di carta? E, ancora, quanto è vera la vita del sogno? A questa domanda ha dato risposta, nella letteratura, un altro ‘personaggio di carta’, Albertine di Doppio sogno di Arthur Schnitzler. Un’altra significativa risposta, insieme a un tascapane con ulteriori domande, si trova ne La canzone del sangue di Giovanni Ricciardi. Dunque, con la “bisaccia del cercatore”, buon viaggio e buona lettura.

Anna Maria Curci

La nota di lettura è stata pubblicata il 16 luglio 2015 su Poetarum Silva, qui

Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno

01 sabato Ago 2015

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Anna Maria, Curci, edizioni e/o, Elio Pagliarani, foibe, Napoli, Nisida, Patrizia Rinaldi, Poetarum Silva, recensioni, romanzo, Spalato, storia, Villaggio Cultura - Pentatonic, Villaggio Giuliano-Dalmata

In questo mese di agosto 2015 i lettori di “Lettere migranti” troveranno qui una scelta di “inviti alla lettura”. Il primo appuntamento è con il romanzo di Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno.

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Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno, edizioni e/o 2015

Inventario di un incontro
di Anna Maria Curci

«Ma già prima del termine di giugno/ la mia palinodia divenne sorte:/ nessun antagonista alla mia morte» (Elio Pagliarani, da Inventario privato; versi riportati in esergo da Patrizia Rinaldi). Al termine del nostro incontro nel settembre scorso ho ricevuto da Patrizia Rinaldi una promessa. O meglio, con l’orgoglio pudico di chi legge e, lontano dalla vista altrui, pensa che tutto ciò che è scritto sia rivolto a lei,  a lui, ho accolto quell’annuncio – ché annuncio era – come una promessa. A fine settembre 2014, dunque, alla domanda circa i suoi progetti futuri che le ho rivolto mentre eravamo al Villaggio Giuliano-Dalmata, Patrizia Rinaldi ha risposto che le vicende narrate avrebbero menzionato anche una sorte non dissimile da quella toccata a molti dei primi abitanti del quartiere romano nel quale ci trovavamo a parlare. Un sobbalzo, difficile da spiegare con meri dati autobiografici, ha inaugurato allora la mia attesa, che si è conclusa «prima del termine di giugno», allorché il libro è stato pubblicato. Un’attesa che è stata premiata, perché, sì, confesso di aver provato amore per gli scontri, fieri e dignitosissimi, con gli «scostumatelli dal falso sdegno» di Maria Antonia, la madre, narrata da giovane, e di Ena, la sua terzogenita, da vecchia, che a quella narrazione alterna il racconto in prima persona. Ho indugiato, con lo sguardo che riconosce parenti molto più stretti dei consanguinei, su gonne plissettate, su stoffe da arredi sacri, «cascioni» e ricicli vari, su guanti, sottovesti, pois e cappellini, su scarpe amorevolmente curate e, di necessità,  virtuosamente «pittate».

Mi guardo le mani.
«Se vorrai mentire sull’età, non dimenticare di metterti i guanti» mi diceva mia madre, dimenticando che l’era dei guanti fosse già finita da un pezzo.
Nel reparto laterale dell’armadio riposano in pace guanti di filo, di lana, di pelle. Quelli di pelle avrebbero dovuto essere conservati meglio, magari con della carta all’interno, invece l’incuria li ha costretti in un ammasso di dita e di polsi.
Il loculo dei guanti è un solido geometrico con l’odore di mia madre. Un misto di lavanda immortale, di retrogusto di tuberose, olezzo di rossetto stantio. (p. 39)

Ho attraversato l’odore acre della fuga per la sopravvivenza,  il pozzo della fame che nasconde il fondo e tende nicchie come trappole, “il sole nero della malinconia” compagna e musa, perfino l’Agro Pontino, la terra piatta e la malaria fatale dei racconti che qui dove vivo ho ascoltato da più voci.

Sono tornata a fissare l’occhio sulla sagoma di Nisida: anche quella non manca mai di far spiccare balzi al cuore e accennare piroette alla testa, perché ci sono orizzonti che si abbracciano come propri, anche quando non si sono ‘realmente’ palesati nella nostra infanzia.
Ho tuffato il naso nel glicine, ho percorso su e giù lo scalone della «villa a mare», ho abitato «la casa vicino ai binari del tram», ho ascoltato quieta e ho studiato con Lucia, la primogenita di Maria Antonia, ho cucinato la pizza di zucchine con Giuseppina, l’amica di Ena, ho tremato a Dachau con i fratelli di Maria Antonia, Renato, Tore e Arturo, ho scoperto la fatica paziente e buona del riaggiustare.

Renato e Tore furono assegnati alla pressa e alla pazzia.
Arturo fu impiegato per la riparazione delle macchine. L’ebete fissazione per Zoccolì lo conservò quasi indenne.
Aveva una capacità rara di stare al pezzo per ore e ore, non mollava un ingranaggio finché non l’aveva riparato. Ricostruiva parti mancanti o lesionate con ogni genere d’invenzioni meccaniche.
Le sue mani avevano l’intelligenza che a lui mancava.
Per questo prigionieri e sorveglianti gli permettevano di restare da solo; presto diventò per tutti una macchina che aggiustava macchine. E basta. (pp. 69-70)

Per colpa della guerra, dopo la guerra e nella guerra perpetua che si dilata, serpe smisurata, nella Storia: non è litania blasfema o «arrovogliata», è filo conduttore, è legenda della mappa di questo libro e dell’esistenza, della danza, con le scarpe pittate, i piedi scalzi o l’acetabolo rotto, con la signora che ha tra le braccia un fascio di spighe e miete, miete, senza alcun antagonista.

© Anna Maria Curci

La nota di lettura è apparsa il 13 luglio 2015 su Poetarum Silva, qui

«Solo chi pensa può portare la pace»: Leonhard Frank, L’uomo è buono.

19 domenica Ott 2014

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Anna Maria Curci, Del Vecchio editore, La Grande Guerra, Leonhard Frank, Marcia per la pace Perugia-Assisi, Paola Del Zoppo

Leonhard-Frank-Luomo-è-buono

 

Leonhard Frank pubblicò nel 1917 Der Mensch ist gut.  Novellen. Paola Del Zoppo ha curato l’edizione italiana, L’uomo è buono, dei racconti di Frank, che ha tradotto per la casa editrice Del Vecchio. Un racconto lungo – Die Ursache / L’origine del male, pubblicato da Frank per la prima volta nel 1915 – e le cinque “novelle” de L’uomo è buono compongono il volume, che ha accompagnato, nella sua articolazione e nella mia lettura, un viaggio e cinque albe. Oggi, 19 ottobre 2014, nel giorno della Marcia per la Pace Perugia-Assisi, cammino e penso, penso e cammino, porto con me questo libro potentissimo, chiaro e profondo, che attraversa il dolore, non lo ignora, lo raccoglie e chiama, con la voce di chi ha conosciuto lo strazio e la perdita, di chi ha smascherato la menzogna delle parole di propaganda, a una rivoluzione che ripudia le armi e invita a pensare, sempre: «Solo chi pensa può portare la pace». Ringrazio Paola Del Zoppo e la casa editrice Del Vecchio per questo estratto da La vedova di guerra, una delle cinque Novellen della raccolta L’uomo è buono.

Anna Maria Curci, 19 ottobre 2014

Solo chi pensa può portare la pace

Il tram non poteva più passare. I vetturini erano in piedi, i passeggeri sporgevano la parte superiore del corpo fuori dalle vetture come gargoyle. La folla aumentava rapidamente. Anche le viuzze che conducevano alla piazza erano già nere di gente.

La guardia prese per il braccio la vedova di guerra: – Adesso vada a casa.

– A casa? Perché, ho una casa? – La sua risata era il ruggito di una belva e strappò risate di scherno da parte di mille bocche femminili. Con uno strattone si liberò dalla presa della guardia.

Un volto di donna, beffardo e pericoloso, puntò la guardia agli occhi: – Provi un po’ lei a stare sempre in una casa dove non c’è più nessuno. […] La vedova dell’agente faceva con le mani piccoli movimenti corrispondenti agli spasmi sul suo volto, e si sforzava di spiegare agli altri che tormento fosse, per lei, quando le capitavano sotto gli occhi un vecchio vestito, una maglia di lana, un paio di pantaloni lisi del marito. […] Allora il cameriere fece appello al profondo dei desideri e gridò: – Vogliamo la pace!

Subito i volti della gente si distesero. Una nuvola di calda passione si addensò e scoppiò. La parola “pace” echeggiò forte tuonando per alcuni minuti intorno al cameriere che, in piedi sul vagone, urlò nell’improvviso gelido silenzio: – Ma possiamo aiutare la pace, solo se sappiamo e ammettiamo che anche noi siamo corresponsabili dello scoppio della guerra.

– Che sta dicendo quello? Cosa? – La vedova dell’agente era come paralizzata dall’indignazione e dallo stupore.

– Solo chi pensa può portare la pace… Noi non pensiamo. Noi pensiamo solo a noi stessi.

I volti mutarono, si velarono. Si aprì un vuoto tra la folla e il cameriere.

Stava dicendo: – Già prima della guerra non pensavamo. Eravamo macchine senza pensiero, senza opinione. Perciò ognuno di noi è corresponsabile della guerra.

– Corresponsabile? Non abbiamo voluto noi la guerra. Il popolo no…! Noi no! – Un’onda di rabbia scosse la folla.

– Dobbiamo prima tornare alla verità. L’abbiamo dimenticata. Lasciatevelo dire. Dovete lasciarvelo dire. Noi non abbiamo per niente riflettuto su cosa fosse buono e giusto, non abbiamo per niente pensato, e nel corso della nostra vita abbiamo lasciato crescere in noi il male finché non si è fatto abitudine, finché non abbiamo creduto che il male: ovvero egoismo, violenza, potere, successo e denaro fossero le aspirazioni più alte dell’essere umano. E questo principio freddo e micidiale, reso ovvio, comune a tutti gli europei, di voler sopraffare i propri simili, avrebbe portato gli esseri umani a uccidersi gli uni con gli altri… E poi si parla di onore, eroismo, morte da eroe, si parla di campo dell’onore.

Allora lì la vedova dell’agente di assicurazioni, fendendo la corrente di urla di approvazione, attraversò la folla, che si apriva davanti ai suoi pugni stretti, fino al vagone. – Corresponsabili della guerra? Noi? Mio marito? Mio marito voleva solo vivere, – urlava fuori di sé. Si arrampicò, venne tirata giù, si arrampicò di nuovo fino alla metà.

E ancor prima che potesse essere di nuovo trascinata giù dal vagone, il cameriere si piegò e le toccò dolcemente con la mano la testa scapigliata.

– Non parlare così, – minacciò un uomo. Urlando, dei ragazzi non ancora cresciuti e non ancora pronti per le armi si arrampicarono sul muro.

– Noi tutti, senza pensare alle conseguenze, non abbiamo puntato ad altro che a riportare il maggior successo possibile, incuranti della possibilità di distruggere l’immagine della nostra anima, incuranti della possibilità di procurare dolore e miseria a un altro essere umano come noi. Noi tutti abbiamo riconosciuto e ammirato come autorità i violenti che più di tutti accumulavano potere, possesso e autorità nelle proprie mani… Noi tutti ci sentivamo fieri quando i nostri malconsigliati figli intonavano canzoni di battaglia e assassinio. E quando le autorità al potere facevano marciare le truppe, noi lanciavamo grida di giubilo e ci entusiasmavamo. Giubilo quando giungevano le prime notizie di vittoria. Giubilo. E non ci preoccupavamo se, nell’assalto di una fortezza, cinquantamila uomini venivano spappolati, dovevano essere spappolati affinché, in quell’atto assassino di mostruosa violenza, i potenti potessero accrescere la loro potenza e i possidenti il loro possesso. Non ce ne preoccupavamo perché noi stessi non avevamo altro in noi che il desiderio di successo, possesso e potere. E questo desiderio lo chiamavamo, con una menzogna, patriottismo. Dobbiamo portare la pace. Siamo corresponsabili della guerra. Siamo assassini. Dobbiamo purificarci.

[…] Lui aveva l’audacia di chi, dopo aver sofferto eccessivo dolore personale, non teme più per sé alcun pericolo.

– Abbiamo il diritto di invocare la pace solo se non adempiamo a falsi doveri, come abbiamo fatto fino a ora senza pensare e senza avere un’opinione. E possiamo davvero far sì che ci sia pace sulla terra solo se smettiamo di mettere al centro della vita le grandi nullità, se cominciamo a essere non automi senz’anima che agiscono solo per abitudine, bensì uomini che sanno che l’espressione: «Nel momento in cui hai intenzione di danneggiare un’altra persona, stai danneggiando te stesso» è una legge inconfutabile. Siamo impoveriti. L’abituale sfruttamento e l’abituale accumulazione di proprietà per la quale gli europei oggi si uccidono gli uni con gli altri, ci hanno resi poveri. La cattedrale dell’umanità è crollata, nell’uomo europeo. Per questo diventa ufficiale o agente di borsa; per questo è avido e brutale, per questo ingrassa, fa la guerra, fa lavorare per sé chi non ha successo, lavorare così duramente da non lasciare, alla maggior parte del nostro popolo, neanche un minuto per prendere coscienza di sé, tanto che i poveracci caduti nell’inganno non possono più credere alla fratellanza dell’uomo.

La folla, scossa dalle parole del cameriere, si era fatta esitante; nacquero sentimenti mai provati, cominciarono a vibrare, risuonarono e si addensarono in esclamazioni di approvazione.

Lì la vedova dell’agente di assicurazioni urlò una frase che colpì nel centro dell’animo chi ascoltava, e che, con progressive aggiunte passò di bocca in bocca, così che il cameriere all’improvviso si sentì avvolto da migliaia di urla: – Tutto il popolo precipitato nel dolore…! Milioni di morti…! Fame! Vittorie in guerra! Farabutti!

Il cameriere disse: – Le nostre autorità hanno potuto farci marciare, impiegare ciascuno di noi per macellare uomini, trasformare tutta l’Europa in un mattatoio umano, perché noi abbiamo sempre pronunciato solo le parole e pensato i pensieri che ci sono stati forniti dalle autorità. Dalle autorità che, con la stessa bocca con la quale danno l’ordine di sparare sugli uomini, ci parlano di cultura e civilizzazione. Dieci milioni di uomini sono morti. Perché? Per che cosa sono morti, questi dieci milioni di uomini? Uno solo di voi ha pensato al perché gli europei macellano i loro giovani? Perché si è scatenata questa guerra? La verità è che il nostro popolo senza opinione, senza capacità critica, ingannato con raffinatezza, non può neanche saperlo. Lo sanno solo gli sfruttatori della guerra.

La vedova dell’agente di assicurazioni era impietrita. Anche la folla era impietrita.

La robusta vedova di guerra del cui marito non si erano ritrovati né la testa, né il segno di riconoscimento, mise il suo bidoncino di petrolio sul vagone, ai piedi del cameriere. Tutte le finestre sulla piazza erano nere di uomini.

Il cameriere sapendo che la verità è dura, parlò incisivamente verso il basso, al volto cupo della folla:

– Abbiamo permesso che venissero costruiti cannoni, navi da guerra, macchine di morte. Li abbiamo pagati e ammirati. Anche se avremmo dovuto sapere che quelle macchine di morte da noi pagate, un giorno, si sarebbero rivoltate contro l’umanità e anche contro i nostri mariti, figli e padri. Era inevitabile… Poi viene detto e creduto, creduto dal nostro popolo che non ha opinione né pensieri, che dobbiamo difendere la patria. Si parla di eroismo e di campo dell’onore. Ma l’onore non era forse del tutto già morto ancor prima che cominciasse la guerra? È forse un onore uccidere degli esseri umani per il possesso e il potere? Se questo è onore, allora vogliamo essere senza onore, per poter vivere di nuovo con onore. Se questo è eroismo, allora vogliamo essere vigliacchi, così che il coraggio non muoia a questo mondo. Se questa è la ragione vogliamo essere irragionevoli, così che la ragione possa sopravvivere. Non volete tutto questo? Avete il coraggio di uccidere degli uomini e non avete il coraggio di essere umani?

Lo sguardo della folla muta ripeteva la domanda. Due cavalli da tiro, stretti tra la folla, si dimenavano. La vedova dell’agente di assicurazioni ebbe la sensazione fisica che l’oscurità in lei si facesse di un bianco accecante. La sua faccia era improvvisamente bagnata di lacrime.

Il cameriere tese la mano in avanti: – Dieci milioni di cadaveri! Dieci milioni di persone adesso sono morte. Il sangue che scorre da quei dieci milioni di assassinati (quaranta milioni di litri di sangue umano fumante) potrebbe sostituire per un’ora l’enorme getto d’acqua delle cascate del Niagara. Tutto il materiale rotabile delle ferrovie di tutta la Prussia non basterebbe a trasportare in una volta sola le teste troncate di quei dieci milioni di uomini. Civiltà! Immaginate un lungo treno della ferrovia: l’ultimo vagone è ancora a Monaco mentre il primo è già in stazione a Berlino e tutti sono pieni di teste umane sanguinanti. Civiltà! Si mettano i dieci milioni testa a testa, piede a piede! Ne viene una linea di cadaveri lunga 16.000 chilometri senza alcuno spiraglio, che corre intorno a tutta la Germania. Sedicimila chilometri di cadaveri! Civiltà!

Un singhiozzo risuonò come l’abbaiare di un cane. Volti disfatti si guardavano l’un l’altro. Occhi sbarrati. Domande senza parole. La vedova dell’agente di assicurazioni vedeva girare davanti agli occhi i colori e crollò sul petto del vicino.

– Io vi dico: di questa epoca del potere, della violenza, della menzogna e dell’autorità non rimarrà nulla eccetto l’orrore, e per le future generazioni una risata.

E lì aprì le braccia, così che dietro a lui il campanile della chiesa, illuminato di rosa dal sole crepuscolare, apparve come un gigantesco crocifisso:

– Vogliamo finalmente prendere coscienza, vogliamo pensare, ricordarci, che l’uomo è buono, e che è nostro fratello. Vogliamo finalmente strappare dai nostri cuori l’abitudine, la menzogna, l’avidità, l’ammirazione per la violenza, così che neanche il seme dell’umanità non ancora nata porti con sé il germoglio di nuovi assassinii… Ogni giorno vengono uccise diecimila persone, che tanto volentieri, ah!, così volentieri avrebbero ancora voluto vivere. E invece il ciabattino siede come sempre nella sua bottega e risuola stivali, il falegname fa i mobili, l’operaio sta davanti alla macchina, il commerciante è dietro il bancone; l’impiegato è lì che riempie fogli di carta e il ragioniere conteggia, il cameriere serve, mentre ogni giorno cadono e muoiono diecimila persone, che a loro volta hanno dovuto uccidere persone. Che follia! Se non vogliamo perdere il diritto a chiamarci uomini dobbiamo mollare martelli, pialle, scrivanie e macchine e correre per strada, afferrare il primo venuto per il braccio, e la nostra voce deve trapassargli il cuore: «Ogni giorno vengono uccise diecimila persone. Ma come possiamo lavorare, cercare il guadagno, dormire, mangiare, mentre ogni giorno vengono uccise diecimila persone? Non è possibile…». Vi dico: chi oggi, mentre diecimila persone al giorno muoiono orribilmente, alza la sua mano per lavorare è inumano. Perché lui lascia che le persone vengano uccise e non chiede: che devo fare, perché non vengano uccise?

Allora la vedova robusta, agitando il bidoncino di petrolio, scoppiò in una risata selvaggia. E le frasi: – Bisognerà pur vivere, che altro ci rimane? Dobbiamo guadagnare, mangiare, – dapprima da lei, poi urlate da mille bocche, salirono verso l’oratore ammutolito. Gridavano: – Cosa dobbiamo fare, quindi? Cosa? Cosa dobbiamo fare?

[…] Il cameriere disse: – Il mio giovane figlio è caduto. Il suo sangue sarebbe stato sparso inutilmente se in questo mare rosso bollente non si sciogliessero cupidigia e violenza. Se l’omicidio di massa non si mutasse in umanità e fratellanza.

L’uomo con la barba era sconvolto: – Farabutto! E la patria? La nostra sacra patria? I nostri beni più sacri? La nostra patria?

[…] Il cameriere disse: – La patria è una viuzza nella quale abbiamo giocato da bambini la sera, è un tavolo rotondo illuminato da una fioca lampada a petrolio, è la vetrina del negozio di coloniali nell’edificio accanto; la patria è, nel giardino, il noce, di cui abbiamo atteso il frutto, è la valle di un fiume, l’angolo della valle di un fiume; la patria è una vecchia porta grigia nel retro del giardino, il profumo delle mele che arrostiscono sulla stufa, è l’odore del caffè e dei dolci che si scaldano nella casa dei genitori, è uno stretto sentiero che, attraverso dei prati, riconduce in città, o va fuori, è una passeggiata su quel sentiero, l’affievolirsi di un canto infantile, la campana della sera di un giorno preciso della nostra infanzia… non è lo Stato (le organizzazioni del denaro, della menzogna, della violenza e dell’autorità) la patria dell’umanità, bensì il ricordo di istanti piacevoli dell’infanzia, il ricordo della prospettiva della vita abbellita dalle speranze.

In quel momento guardò il volto della folla e riconobbe chiaramente che nella grande maggioranza quei ricordi delle incessanti lotte per la vita, dei dolori della guerra, dell’odio contro chi l’aveva sprigionata, erano stati interiorizzati, e comprese che la sua parola non poteva ancora penetrare fino a quei cuori di vedova disgraziati, contratti. Solo in pochi si era risvegliato lo sguardo infantile che permette di guardare indietro alla vita passata.

Quando l’uomo con la barba volle risvegliare i sentimenti non più presenti per la patria con la parola “nazionale”, per la disperazione, nel cameriere esplose un’ira improvvisa, e lui si rivolse alla folla con queste parole: – Internazionale è ciò che è grande: l’arte, la scienza, la vita e la morte. […]

– Non potete arrestarci, metterci in prigione. Non si possono arrestare milioni di vedove di guerra!

Un fiotto di petrolio schizzò nell’aria privo di ogni colore. Cavalli impennarono. La carrozza ardeva vivida e fu trascinata rapida in corsa attraverso la piazza, seguita dalla folla.

[…]

 Il cameriere sentì la lontana eco di diversi spari. Il tumulto in lontananza si fece di nuovo udibile. “Rivoluzione è sulla fronte della gente, e quello che è sulla fronte della gente, succederà”.

La piazza, svuotata dalla folla, appariva logora. Il crepuscolo, l’aria, l’essere gli fornirono un istante di luce.

(pp. 170-183)

____________________________

Leonhard Frank, L’uomo è buono,  Del Vecchio Editore, 2014. ISBN: 9788861101067 | Pagine: 336 Traduzione e cura di Paola Del Zoppo

L’origine del male e L’uomo è buono vengono scritti ed elaborati nel primo anno della Grande Guerra. Leonhard Frank non cede alla mitizzazione del progresso, della potenza, dell’organizzazione e della necessità della guerra e decostruisce, nelle sue novelle, i percorsi che hanno portato alla tragedia: la tendenza alla sopraffazione e la propensione all’adattamento, alla conservazione dello stato delle cose per timore della sofferenza, il pessimismo. In L’origine del male Anton Seiler, un poeta messo a dura prova dagli eventi della vita eppure ancora fedele ai propri ideali, sente la necessità enigmatica di tornare nella sua città natale dove incontra per caso il suo sadico maestro di scuola. Un tentativo di riconciliazione si trasforma in delitto, e il poeta viene arrestato. Rischia la pena di morte. Sarà lo svolgimento del processo a farci conoscere la vera origine del crimine e le sue conseguenze. L’uomo è buono è un ciclo di cinque novelle: in ognuna un protagonista ci trasporta nella sua visione della guerra e della sofferenza. La sciagura e il dolore, mascherati da onore e sacrificio, vengono qui svelati in tutta la loro indigesta oggettività. La narrazione scoperchia il vaso di Pandora per affrontare la realtà dei mali uno a uno, in un energico slancio verso la reazione, verso l’ottimismo e la presa di coscienza della forza del singolo, perché “l’uomo potrà essere e sarà umano quando non sarà più costretto all’inumanità”.

Leonhard Frank nasce a Würzburg nel 1882 da una famiglia umile. Frequenta la severissima scuola evangelica, in una regione e una città di storia e cultura radicalmente cattoliche, e dopo il diploma di artigiano si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Monaco per diventare pittore. Nel 1910 interrompe la propria formazione per recarsi a Berlino. Frank è una presenza costante nei caffè e nei circoli artistici, ma non vuole essere parte di nessuna cerchia: ritiene che ogni sistema sia finalizzato al mantenimento del potere e che in ogni cerchia si rischino dinamiche di sopraffazione. Riconosciuta la propria vocazione, dopo alcuni brevi racconti, dà alle stampe il suo primo romanzo, che vince subito il Premio Fontane. “Pacifista della prima ora”, si rifugia in Svizzera durante la Prima Guerra Mondiale, dove stringe amicizia con Alvarez del Vayo e frequenta gli artisti del Dada e gli scrittori engagé. Tornato in Germania, è controllato dal regime nazionalsocialista e costretto di nuovo all’esilio. Nel 1933 si sposta in Inghilterra, poi in Francia, dove viene internato nei campi di lavoro, poi finalmente riesce a fuggire in America nel 1940. Si stabilisce a Hollywood, scrive per la Warner Bros e frequenta Thomas Mann, Franz Werfel e gli intellettuali tedeschi ormai di casa in California. Infine si sposta a New York e poi torna in Germania, nel 1950. Ma l’accoglienza non è gloriosa quanto meriterebbe, e decide di spostarsi a Berlino Est, dove può contare sull’apprezzamento dell’amico Johannes Becher. Muore a Monaco nel 1961.

da: Sibylle Lewitscharoff, Blumenberg

14 sabato Set 2013

Posted by letteremigranti in Arte, Narrativa, Pittura, Romanzi

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Antonello da Messina, Blumenberg, Paola Del Zoppo, San Girolamo, Sibylle Lewitscharoff

Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, da qui

Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, da qui

Anche se non c’era nulla che si potesse criticare nel suo studio, Blumenberg si rammaricò di non avere a disposizione una stanza magnifica come quella dipinta da Antonello da Messina. Il quadro, eseguito dal maestro italiano in forti chiaroscuri alla maniera fiamminga, sbloccò la memoria di Blumenberg, adesso di nuovo perfettamente funzionante: lo sguardo penetra da una finestra, sul parapetto un pavone, una ciotola di rame, una quaglia. Nel sontuoso interno una piccola scala: uno, due, tre, per tre scalini si sale su un palco. Il santo sapiente nel suo fluente manto di velluto rosso e con il copricapo di velluto rosso, con le braccia distese, sfoglia un libro posato obliquamente su una sorta di leggio con poltrona. A sinistra una meravigliosa vista si apre attraverso una finestra. Un paesaggio collinare con isolati cipressi. E a destra, dietro il palco del sapiente, si affaccia dall’oscurità un misero leone. No, niente proporzioni leonine ed enormi zampe, ma provvisto di sottili arti scattanti, come un levriero. Probabilmente Antonello da Messina non aveva mai visto un leone di persona.

da: Silylle Lewitscharoff, Blumenberg. Traduzione di Paola del Zoppo, Del Vecchio editore 2013, pp. 18-19

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