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Rosaria Di Donato, Preghiera in gennaio (recensione di Antonietta Tiberia)

25 lunedì Lug 2022

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Antonietta Tiberia, Macabor, Marzia Alunni, Poesia, Preghiera in gennaio, recensione, Rosaria Di Donato

Rosaria Di Donato, Preghiera in gennaio, Macabor Editore 2021

Sull’onda di un verseggiare ben ritmato, Rosaria Di Donato ha scritto la sua nuova raccolta di poesie: 36 liriche, alcune molto brevi, altre di poche decine di versi sciolti, divisi in strofe di varia estensione, che esprimono verità profonde e invitano alla riflessione sulla vita; quasi una meditazione sulla Morte, sul Tempo e sul nostro effimero. Poche ma intense pagine, nelle quali l’autrice ci fa intravedere la parte più intima della sua anima. Uno sguardo attento al tempo interiore. Circola in questa raccolta una segreta, misurata armonia, quasi che l’autrice, pudica, volesse far intendere oltre i brevi versi, sempre limpidi e salmodianti, l’essenza e la purezza del sentimento.
Marzia Alunni nella sua prefazione, che denota compartecipazione ed entusiasmo per le sensazioni e i sentimenti sprigionati da questa poesia e per le emozioni che essa può suscitare nel lettore attento, capace di discernere tra un verseggiare comune e uno ben qualificato, scrive: «Non c’è fede in Dio senza testimonianza. Chi parla di Lui è stato scelto, anche se non ne è consapevole».
Se l’elemento centrale della poesia, in un momento complesso e convulso come questo, deve tornare a essere quello dell’intensa riflessione e profondità del messaggio, non si può dunque non rimanere colpiti dal lavoro di Rosaria Di Donato, che fa di questi due aspetti il cardine del proprio percorso poetico. I moti dell’animo riposano, come la quiete dopo la tempesta, nella riscoperta della luce della verità, che vive negli occhi di coloro che hanno il coraggio di cercarla e di esprimerla.
Da donna del suo tempo nel suo tempo, la poeta cerca se stessa nella musica dei versi, con queste poesie che si stagliano come preghiere, come celebrazione di tutto quello che non può ricevere risposta. Accosta i versi uno all’altro per dare quel senso di commozione; va alla ricerca di piccole sfumature per trarne una sensazione di pace interiore, adottando un lessico che si distingue per la sua pregnanza semantica, cioè per la sua capacità di oggettiva definizione della realtà interiore: versi essenziali e ruvidi, brevi, affilati, ripuliti da ogni orpello, che mirano all’essenza delle cose, riducendo tutto all’osso, al nocciolo duro che non si può comprimere.
Nella maggior parte delle composizioni sono presenti una forte percezione del continuo divenire di tutte le cose e la consapevolezza della fragilità della vita; inoltre, in svariate, l’intensità dell’inquietudine esistenziale non riesce a essere mascherata e coinvolge nel suo vortice anche l’emotività del lettore.
Questa raccolta, riuscita, si presenta come una compiuta espressione dell’interiorità della sua autrice e dei procedimenti dell’arte sua, permeata di riflessione filosofica, che spazia dai temi più semplici a quelli più profondi e spirituali, che non esprimono solo gioia e piacere, ma soprattutto sofferenza, ad evocare una spiritualità tutta umana.

©Antonietta Tiberia

 

prima che sia notte
ancora vorrei qualcosa
qualcosa di mio
qualcosa che irrompa
nel tempo mostrando
un seme nuovo
un germoglio
e non disamore

*

germinazione

ah se dato mi fosse
d’incontrare i santi
mi aggrapperei
alle loro mani
e stringendole forte
lascerei cadere
sulla terra
quella luce
che sola trapassa
il corpo
e poi in gocce
di calore
ricade
diffondendo amore

terra promessa
iridati pensieri
duraturi orizzonti

il bene

*

quanto errasti maddalena

audace maddalena
sciogliesti i tuoi capelli
a carezzarmi i piedi
mai seta fu più fine
e profumata
mai lacrime più calde
fruscio d’oriente
quasi geisha
soave fu il perdono
che scivolò nel cuore
che ti (nacque) dentro
a ri-trovare il mare di spuma
e sale (sole) di onde a contenere
i giorni a scan-dire il passo
rinnovato del tuo andare
alla sequela ormai
del redentore
ché quelli che si perdono
trovano dio

*

il padre-il figlio

ti chiama il padre
e tu rispondi abbà
non riesco a farcela
troppo pesante
vivere morire
amare sopportare
piangere lottare

dov’è la festa
che sognavo
il mondo
in cui credevo
la vita
che aspettavo
io chi sono

dove sto andando
a chi appartengo
è un sogno-finzione
oppure è vero
il nulla impera
il mondo è vano
sono solo

no tu sei con me
risponde il padre
sempre ti ho avuto
in grembo
all’alba dei giorni
ti ho pensato
di Spirito nutrito

non temere il buio
non prevarrà

*

maria bambina giocava con l’agnello

giocava maria bambina con l’agnello
che ancor non si teneva sulle zampe
ritto stringendolo al suo petto

di baci copriva il muso
e con le dita intrecciava riccioli nel vello
belava l’agnellino confuso
per tanta soavità fatta persona

luce circonfondeva i due festosi
di gioia ricolmi e Santo Spirito
aleggiava intorno profetizzando
che l’agnello uomo sarebbe divenuto
nel grembo della vergine-fanciulla
al tempo stabilito

giocava maria nella sua infanzia
e l’innocenza tingeva d’entusiasmo
le gote e il vivo sguardo s’accendea
di consapevolezza che dio l’aveva scelta
per dimora

Ottavio Olita, Anime rubate

05 mercoledì Ago 2015

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Lettere migranti, Narrativa, Recensioni, Romanzi

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Anna Maria Curci, anonima sarda, Città del Sole edizioni, Costantino Nivola, Dante Maffia, giornalismo, Novità editoriali, Ottavio Olita, Poetarum Silva, recensione, recensioni, romanzo, romanzo and tagged Anna Maria Curci, Sardegna, sequestri

In questo mese di agosto 2015 i lettori di “Lettere migranti” troveranno qui una scelta di “inviti alla lettura”.  Il terzo appuntamento è con Anime rubate, il nuovo romanzo di Ottavio Olita.

copertina_anime_rubate

Ottavio Olita, Anime rubate, Città del sole edizioni 2015. Prefazione di Dante Maffia

“Al di là di colpa ed espiazione” è la traduzione letterale del titolo di un libro di Jean Améry (pseudonimo di Hans Mayer), che in Italia è stato tradotto come Intellettuale ad Auschwitz.
Anime rubate, il romanzo più recente di Ottavio Olita, narra di colpa, di espiazione e di ciò che si trova al di là della colpa e dell’espiazione, oltre e accanto, ciò su cui solitamente preferiamo calare il velo della dimenticanza. Non sembri azzardato affiancare la devastazione provocata sui sopravvissuti ai campi di sterminio quella sofferta dai sopravvissuti ai sequestri di persona (questo è infatti, tra i temi affrontati in Anime rubate, quello dominante). A confermare il collegamento proposto c’è uno scambio di battute tra due personaggi femminili, di grande rilevanza nel romanzo: Maddalena Calvi, avvocato, e la sua assistita Alice Maltese, insegnante, già vittima, poco più che ventenne, di un rapimento che squassa la sua esistenza per sempre. Ebbene, questo passaggio mi sembra centrale e niente affatto trascinato per il verso dell’esagerazione:

”L’altra cosa importante è che è la prima volta che questo magistrato si occupa di un sequestro di persona, quindi è bene che lei gli racconti anche le angosce, le paure, la violenza di un reato di cui nessuno parla più e che è stata una vera piaga sociale ed economica per tutta l’isola”.

“Beh, allora avrà modo di fare un rapido apprendistato sulla capacità che ha l’uomo di diventare peggio delle bestie quando mette via umanità e sensibilità per farsi rubare l’anima dal richiamo del denaro, anche di quello sporco di fango e sangue”.

In una narrazione che prende lo spunto da una storia vera, così come è avvenuto per i romanzi precedenti, e che menziona un fatto di cronaca del 2013, il ritrovamento in un muretto a secco delle sculture dell’artista Costantino Nivola, rubate nel 1999 dal museo di Orani, chi legge ha modo di seguire diversi percorsi, di colpa e di espiazione, appunto, di confessioni (dalle ‘confessioni di un ottuagenario’, nel caso narrato dalle confessioni di Antonio Peddis alla nipote Elisabetta, che delle ultime volontà del nonno e del suo desiderio di espiazione si farà poi paladina, partono tutti i fili, numerosi, della vicenda), di miti e coscienza di quella che una volta veniva chiamata “anonima sarda” (Giorgio Mulas, il nipote adolescente di uno dei tre ‘moschettieri’ che animano le inchieste narrative di Olita, Gino Murgia, vede inizialmente negli autori dei sequestri quasi degli eroici Robin Hood, addirittura un’affascinante versione dellabalentìa; lo zio, con dolce determinazione e con l’aiuto del giovane Ignazio, ospite della comunità di don Achille, e di altri testimoni, favorirà un processo di progressiva chiarificazione), di svelamento di verità, di indagini condotte pur nella consapevolezza del pericolo pianificato nel dettaglio da reti complesse del crimine organizzato, con basisti, talpe, killer e colletti bianchi, di lenta e meditata riappropriazione di luoghi (in Sardegna, soprattutto) e di sentimenti. Chi legge, segue con coinvolgimento e convinzione il ritmo e il cambio di passo delle indagini e prova riconoscenza per una via, costruita con concretezza e lastricata di risposte all’interrogativo che mai si dovrebbe mettere a tacere: a che cosa serve la memoria? In tal senso, la vicenda di Giorgio, romanzo nel romanzo, è esemplare e consolida la fiducia, davvero maltrattata in questi tempi di serie televisive e ricostruzioni lacunose, fallaci e manipolate, che lo studio della nostra storia recente, così come lo studio della storia tout court, possa farsi elemento fondamentale della formazione umana. In tutto questo sta, e non è poco, l’andare “al di là di colpa ed espiazione”, senza dimenticare il crimine, senza vanificare, con cancellazioni e prescrizioni, il significato della parola “giustizia”.

© Anna Maria Curci

La nota di lettura è stata pubblicata il 18 luglio 2015 su Poetarum Silva, qui

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