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Christoph Ransmayr, Il mondo estremo

20 domenica Mar 2016

Posted by letteremigranti in letture, Romanzi

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Anna Maria Curci, Christoph Ransmayr, Il mondo estremo, letture, Metamorfosi, Ovidio, romanzo

dieletztewelt

Buon compleanno, Christoph Ransmayr, con la riconoscenza di chi ha letto e ritorna spesso sulle pagine del tuo romanzo Die letzte Welt, Il mondo estremo, sui passi di Cotta alla ricerca di Ovidio in esilio a Tomi, “il mondo estremo”, appunto. Buon compleanno e grazie per il tuo repertorio ovidiano, per i personaggi delle Metamorfosi messi a fronte in uno specchio che esalta come sonoro schiaffo somiglianze e differenze tra mondo antico e mondo estremo, l’ultimo mondo ovvero delle novissime atroci cose.  (Anna Maria Curci)

Un uragano, era uno stormo d’uccelli alto nella notte; uno stormo bianco, che si avvicinava frusciante e d’improvviso si abbreviava nella cresta di un’onda immane, ormai a ridosso della nave. Un uragano, erano le grida e i singhiozzi nel buio sottocoperta e l’acre odore del vomito. Era un cane, reso folle dai cavalloni, che dilaniò i tendini di un marinaio. Sopra la ferita si rimarginò la spuma. Un uragano, era il viaggio verso Tomi.
Sebbene anche durante il giorno e in molti punti della nave, sempre più discosti, tentasse di scampare al suo affanno rifugiandosi nello stordimento o almeno in un sogno, sull’Egeo Cotta non riuscì a prendere sonno, e neppure in seguito sul Mar Nero. Ogniqualvolta la spossatezza lo induceva a sperare si calcava la cera nelle orecchie, si avvolgeva una sciarpa di lana azzurra davanti agli occhi, si metteva sdraiato e contava i suoi respiri. Ma la risacca lo sollevava, sollevava la nave, sollevava il mondo intero oltre la schiuma salata della scia, ancora più in alto, teneva per un attimo tutto in equilibrio e faceva poi precipitare il mondo, la nave e quell’uomo sfinito in una valle di flutti, nella veglia e nella paura. Nessuno dormiva. (da: Christoph Ransmayr, Il mondo estremo. Traduzione di Claudio Groff. Nuova edizione riveduta, Feltrinelli 2003, 9)

Ein Orkan, das war ein Vogelschwarm hoch oben in der Nacht; ein weißer Schwarm, der rauschend näher kam und plötzlich nur noch die Krone einer ungeheuren Welle war, die auf das Schiff zusprang. Ein Orkan, das war das Schreien und das Weinen im Dunkel unter Deck und der saure Gestank des Erbrochenen. Das war ein Hund, der in den Sturzseen toll wurde und einem Matrosen die Sehnen zerriß. Über der Wunde schloß sich die Gischt. Ein Orkan, das war die Reise nach Tomi.
Obwohl er auch tagsüber und an so vielen, immer entlegeneren Orten des Schiffes aus seinem Elend in die Bewußtlosigkeit oder wenigstens in einen Traum zu flüchten versuchte, fand Cotta auf dem Ägäischen und dann auch auf dem Schwarzen Meer keinen Schlaf. Wann immer seine Erschöpfung ihn hoffen ließ, drückte er sich Wachs in die Ohren, band sich einen blauen Wollschal vor die Augen, sank zurück und zählte seine Atemzüge. Aber die Dünung hob ihn, hob das Schiff, hob die ganze Welt hoch über den salzigen Schaum der Route hinaus, hielt alles einen Herzschlag lang in der Schwebe und ließ dann die Welt, das Schiff und den Erschöpften wieder zurückfallen in ein Wellental, in die Wachheit und die Angst. Niemand schlief. (Christoph Ransmayr, Die letzte Welt, Fischer 1991, 7-8; la prima edizione, con Gremo Verlagsgesellschaft, è del 1988)

Qui per ascoltare la lettura dell’incipit dell’originale in tedesco

Letture a due voci, 3: Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno

28 giovedì Gen 2016

Posted by letteremigranti in Recensioni, Romanzi, Rubriche

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edizioni e/o, Laura Vazzana, Letture a due voci, Patrizia Rinaldi, recensioni, romanzo, rubriche, Sandra Luigia Rebecchi

Rinaldi_Prima_di_giugno

 

Patrizia Rinaldi, MA GIA’ PRIMA DI GIUGNO, edizioni e/o, 2015

Alla lettura del romanzo Ma già prima di giugno, di Patrizia Rinaldi, non si può restare indifferenti.

La cosa che colpisce fin dalle prime pagine è il linguaggio: una prosa secca, asciutta, ma capace di staffilate improvvise, un linguaggio letterario sapiente, che trasmette l’ansia delle due protagoniste di raccontarsi, di far sentire ad altri il proprio dolore, ma, allo stesso tempo, di gridare la testarda tenacia nel voler vivere appieno tutto ciò che il destino ha in serbo per loro.

Patrizia Rinaldi sceglie di raccontare la vita di due donne, una madre e sua figlia. Ci spiega lei stessa in una nota la struttura del romanzo: si tratta di due percorsi paralleli che si troveranno a convergere e a raccordarsi solo nelle ultime pagine.

Le storie narrate sono diverse:  Maria Antonia, la madre, ha vissuto sulla sua pelle gli orrori della guerra, è fuggita da Spalato, ha perso il marito nelle foibe, ha visto partire i suoi fratelli per i campi di lavoro. Quello che la tiene in vita, che la spinge a combattere è la voglia di riscatto, il desiderio di prendersi quello che la vita le ha negato. Bella e sfacciata, dà scandalo, mentre sfida la miseria. Si conquisterà in età avanzata l’amore di un giovane studente e dal loro rapporto nascerà Ena, la seconda protagonista del romanzo.

Mentre la storia di Maria Antonia viene raccontata in terza persona, è Ena stessa ormai anziana a descrivere la sua realtà.È confinata in un letto e il suo mondo è limitato alla stanza dove è immobilizzata. La assiste una giovane slava, che Ena chiama sprezzantemente Abbadessa. Il rapporto delle due donne è un difficile continuo scontro. La sfrontatezza di Ena sfida la morte,  la sfida parlando di sesso, del suo corpo che si disfa giorno dopo giorno; Ena rifiuta gli atteggiamenti più comuni in una anziana per scegliere di sbeffeggiare tutti, compresa se stessa e il suo destino. Le fa da contrappunto il silenzio ostinato della ragazza, che tenta di mantenere un rapporto distaccato con la malattia, pronunciando il minimo indispensabile di parole, generando regole di vita e chiudendosi in un guscio protettivo.

Ci sono molte altre figure femminili nel racconto. Oltre Maria Antonia, Ena e l’Abbadessa compaiono una Monaca, la portinaia e altre; in particolare Giuseppina, amica di infanzia di Ena, che ormai parla a malapena: proprio lei assisterà alla sua fine e la vivrà come un tradimento.

Nell’ombra, appena tratteggiate, le figure maschili, che, una volta chiuso il libro, si dimenticano.

Il romanzo di Patrizia Rinaldi è storia di donne. Sono donne forti e decise, che hanno il coraggio di tradire i ruoli che la vita ha loro assegnato e guardano in faccia il destino, quando non lo conoscono e lo sfidano e quando lo conoscono e lo sfidano ugualmente. Il femminile che c’è in queste pagine è vario, ma pieno di forza e di speranza per il futuro, è un femminile che non si arrende, che combatte quando vince e quando perde, non facendosi inutili domande, vivendo giornata dopo giornata senza ripensamenti, con una decisione che nulla scalfisce. Perché “vivere vale la pena!”

Un bel romanzo, da leggere e rileggere per afferrare veramente tutto quanto, scritto o sotteso, ci racconta Patrizia Rinaldi.

© Sandra L. Rebecchi

Ma già prima di giugno è un altro esempio della scrittura calda, avvolgente, appassionata e passionale di Patrizia Rinaldi.

Nel delineare i tratti delle due protagoniste, la madre Maria Antonia da giovane e la figlia Ena da vecchia, l’autrice crea due personalità diametralmente opposte, dotate entrambe di realismo,  ma in modo diverso.

Le storie proseguono parallelamente, una nel passato e l’altra nel presente, una in terza persona, l’altra in prima. La figlia è sempre stata un po’ vecchia in fondo, mentre la madre non invecchierà nello spirito mai. Eppure si è dovuta confrontare con gli orrori e la miseria della guerra, ma forse proprio per questo è tenacemente attaccata alla vita, anche se con la vita è arrabbiata. “Troppo selvatica per morire” la definisce il marito Augusto, che non tornerà più dal fronte.

Nell’attesa sfibrante di sue notizie certe, Maria Antonia è preda di sentimenti oscillanti, vorrebbe credere in un ritorno, ma la ragione le suggerisce di non coltivare speranze impossibili. Lo sogna vivo sapendo, in cuor suo, che è morto.

Con poche nitide parole, l’autrice ci fa vedere Maria Antonia di fronte alla crudele verità: “un altro pezzo di lei era diventato pietra”. Nonostante tutto, rimasta sola, si rialza, lotta e raggiunge i suoi obiettivi.

La figura di Ena, alla vivacità della madre, contrappone il cinismo di chi non si aspetta nulla. Forzata a letto da una seria frattura, ha un immaginario appuntamento con la morte per giugno e intanto ricorda e commenta aspra, provocatoria e disincantata.

Tuttavia, qua e là, la vediamo cedere alla tenerezza, ma è una tenerezza che preferisce tenere per sé. Verso il figlio, ad esempio: “vorrei dirgli che lo amo perdutamente, nel modo sbagliato di una qualsiasi Filomena”. Verso l’amica di una vita, Giuseppina. E verso la sorella che non c’è più.

La storia di Maria Antonia si chiude con la nascita di Ena, quella di Ena con la propria morte.

Mirabile quadratura del cerchio.

© Laura Vazzana

Qui la mia lettura di Ma già prima di giugno.

Ottavio Olita, Anime rubate

05 mercoledì Ago 2015

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Lettere migranti, Narrativa, Recensioni, Romanzi

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Anna Maria Curci, anonima sarda, Città del Sole edizioni, Costantino Nivola, Dante Maffia, giornalismo, Novità editoriali, Ottavio Olita, Poetarum Silva, recensione, recensioni, romanzo, romanzo and tagged Anna Maria Curci, Sardegna, sequestri

In questo mese di agosto 2015 i lettori di “Lettere migranti” troveranno qui una scelta di “inviti alla lettura”.  Il terzo appuntamento è con Anime rubate, il nuovo romanzo di Ottavio Olita.

copertina_anime_rubate

Ottavio Olita, Anime rubate, Città del sole edizioni 2015. Prefazione di Dante Maffia

“Al di là di colpa ed espiazione” è la traduzione letterale del titolo di un libro di Jean Améry (pseudonimo di Hans Mayer), che in Italia è stato tradotto come Intellettuale ad Auschwitz.
Anime rubate, il romanzo più recente di Ottavio Olita, narra di colpa, di espiazione e di ciò che si trova al di là della colpa e dell’espiazione, oltre e accanto, ciò su cui solitamente preferiamo calare il velo della dimenticanza. Non sembri azzardato affiancare la devastazione provocata sui sopravvissuti ai campi di sterminio quella sofferta dai sopravvissuti ai sequestri di persona (questo è infatti, tra i temi affrontati in Anime rubate, quello dominante). A confermare il collegamento proposto c’è uno scambio di battute tra due personaggi femminili, di grande rilevanza nel romanzo: Maddalena Calvi, avvocato, e la sua assistita Alice Maltese, insegnante, già vittima, poco più che ventenne, di un rapimento che squassa la sua esistenza per sempre. Ebbene, questo passaggio mi sembra centrale e niente affatto trascinato per il verso dell’esagerazione:

”L’altra cosa importante è che è la prima volta che questo magistrato si occupa di un sequestro di persona, quindi è bene che lei gli racconti anche le angosce, le paure, la violenza di un reato di cui nessuno parla più e che è stata una vera piaga sociale ed economica per tutta l’isola”.

“Beh, allora avrà modo di fare un rapido apprendistato sulla capacità che ha l’uomo di diventare peggio delle bestie quando mette via umanità e sensibilità per farsi rubare l’anima dal richiamo del denaro, anche di quello sporco di fango e sangue”.

In una narrazione che prende lo spunto da una storia vera, così come è avvenuto per i romanzi precedenti, e che menziona un fatto di cronaca del 2013, il ritrovamento in un muretto a secco delle sculture dell’artista Costantino Nivola, rubate nel 1999 dal museo di Orani, chi legge ha modo di seguire diversi percorsi, di colpa e di espiazione, appunto, di confessioni (dalle ‘confessioni di un ottuagenario’, nel caso narrato dalle confessioni di Antonio Peddis alla nipote Elisabetta, che delle ultime volontà del nonno e del suo desiderio di espiazione si farà poi paladina, partono tutti i fili, numerosi, della vicenda), di miti e coscienza di quella che una volta veniva chiamata “anonima sarda” (Giorgio Mulas, il nipote adolescente di uno dei tre ‘moschettieri’ che animano le inchieste narrative di Olita, Gino Murgia, vede inizialmente negli autori dei sequestri quasi degli eroici Robin Hood, addirittura un’affascinante versione dellabalentìa; lo zio, con dolce determinazione e con l’aiuto del giovane Ignazio, ospite della comunità di don Achille, e di altri testimoni, favorirà un processo di progressiva chiarificazione), di svelamento di verità, di indagini condotte pur nella consapevolezza del pericolo pianificato nel dettaglio da reti complesse del crimine organizzato, con basisti, talpe, killer e colletti bianchi, di lenta e meditata riappropriazione di luoghi (in Sardegna, soprattutto) e di sentimenti. Chi legge, segue con coinvolgimento e convinzione il ritmo e il cambio di passo delle indagini e prova riconoscenza per una via, costruita con concretezza e lastricata di risposte all’interrogativo che mai si dovrebbe mettere a tacere: a che cosa serve la memoria? In tal senso, la vicenda di Giorgio, romanzo nel romanzo, è esemplare e consolida la fiducia, davvero maltrattata in questi tempi di serie televisive e ricostruzioni lacunose, fallaci e manipolate, che lo studio della nostra storia recente, così come lo studio della storia tout court, possa farsi elemento fondamentale della formazione umana. In tutto questo sta, e non è poco, l’andare “al di là di colpa ed espiazione”, senza dimenticare il crimine, senza vanificare, con cancellazioni e prescrizioni, il significato della parola “giustizia”.

© Anna Maria Curci

La nota di lettura è stata pubblicata il 18 luglio 2015 su Poetarum Silva, qui

Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno

01 sabato Ago 2015

Posted by letteremigranti in Anna Maria Curci, Lettere migranti, Narrativa, Recensioni, Romanzi

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Anna Maria, Curci, edizioni e/o, Elio Pagliarani, foibe, Napoli, Nisida, Patrizia Rinaldi, Poetarum Silva, recensioni, romanzo, Spalato, storia, Villaggio Cultura - Pentatonic, Villaggio Giuliano-Dalmata

In questo mese di agosto 2015 i lettori di “Lettere migranti” troveranno qui una scelta di “inviti alla lettura”. Il primo appuntamento è con il romanzo di Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno.

Rinaldi_Prima_di_giugno

 

Patrizia Rinaldi, Ma già prima di giugno, edizioni e/o 2015

Inventario di un incontro
di Anna Maria Curci

«Ma già prima del termine di giugno/ la mia palinodia divenne sorte:/ nessun antagonista alla mia morte» (Elio Pagliarani, da Inventario privato; versi riportati in esergo da Patrizia Rinaldi). Al termine del nostro incontro nel settembre scorso ho ricevuto da Patrizia Rinaldi una promessa. O meglio, con l’orgoglio pudico di chi legge e, lontano dalla vista altrui, pensa che tutto ciò che è scritto sia rivolto a lei,  a lui, ho accolto quell’annuncio – ché annuncio era – come una promessa. A fine settembre 2014, dunque, alla domanda circa i suoi progetti futuri che le ho rivolto mentre eravamo al Villaggio Giuliano-Dalmata, Patrizia Rinaldi ha risposto che le vicende narrate avrebbero menzionato anche una sorte non dissimile da quella toccata a molti dei primi abitanti del quartiere romano nel quale ci trovavamo a parlare. Un sobbalzo, difficile da spiegare con meri dati autobiografici, ha inaugurato allora la mia attesa, che si è conclusa «prima del termine di giugno», allorché il libro è stato pubblicato. Un’attesa che è stata premiata, perché, sì, confesso di aver provato amore per gli scontri, fieri e dignitosissimi, con gli «scostumatelli dal falso sdegno» di Maria Antonia, la madre, narrata da giovane, e di Ena, la sua terzogenita, da vecchia, che a quella narrazione alterna il racconto in prima persona. Ho indugiato, con lo sguardo che riconosce parenti molto più stretti dei consanguinei, su gonne plissettate, su stoffe da arredi sacri, «cascioni» e ricicli vari, su guanti, sottovesti, pois e cappellini, su scarpe amorevolmente curate e, di necessità,  virtuosamente «pittate».

Mi guardo le mani.
«Se vorrai mentire sull’età, non dimenticare di metterti i guanti» mi diceva mia madre, dimenticando che l’era dei guanti fosse già finita da un pezzo.
Nel reparto laterale dell’armadio riposano in pace guanti di filo, di lana, di pelle. Quelli di pelle avrebbero dovuto essere conservati meglio, magari con della carta all’interno, invece l’incuria li ha costretti in un ammasso di dita e di polsi.
Il loculo dei guanti è un solido geometrico con l’odore di mia madre. Un misto di lavanda immortale, di retrogusto di tuberose, olezzo di rossetto stantio. (p. 39)

Ho attraversato l’odore acre della fuga per la sopravvivenza,  il pozzo della fame che nasconde il fondo e tende nicchie come trappole, “il sole nero della malinconia” compagna e musa, perfino l’Agro Pontino, la terra piatta e la malaria fatale dei racconti che qui dove vivo ho ascoltato da più voci.

Sono tornata a fissare l’occhio sulla sagoma di Nisida: anche quella non manca mai di far spiccare balzi al cuore e accennare piroette alla testa, perché ci sono orizzonti che si abbracciano come propri, anche quando non si sono ‘realmente’ palesati nella nostra infanzia.
Ho tuffato il naso nel glicine, ho percorso su e giù lo scalone della «villa a mare», ho abitato «la casa vicino ai binari del tram», ho ascoltato quieta e ho studiato con Lucia, la primogenita di Maria Antonia, ho cucinato la pizza di zucchine con Giuseppina, l’amica di Ena, ho tremato a Dachau con i fratelli di Maria Antonia, Renato, Tore e Arturo, ho scoperto la fatica paziente e buona del riaggiustare.

Renato e Tore furono assegnati alla pressa e alla pazzia.
Arturo fu impiegato per la riparazione delle macchine. L’ebete fissazione per Zoccolì lo conservò quasi indenne.
Aveva una capacità rara di stare al pezzo per ore e ore, non mollava un ingranaggio finché non l’aveva riparato. Ricostruiva parti mancanti o lesionate con ogni genere d’invenzioni meccaniche.
Le sue mani avevano l’intelligenza che a lui mancava.
Per questo prigionieri e sorveglianti gli permettevano di restare da solo; presto diventò per tutti una macchina che aggiustava macchine. E basta. (pp. 69-70)

Per colpa della guerra, dopo la guerra e nella guerra perpetua che si dilata, serpe smisurata, nella Storia: non è litania blasfema o «arrovogliata», è filo conduttore, è legenda della mappa di questo libro e dell’esistenza, della danza, con le scarpe pittate, i piedi scalzi o l’acetabolo rotto, con la signora che ha tra le braccia un fascio di spighe e miete, miete, senza alcun antagonista.

© Anna Maria Curci

La nota di lettura è apparsa il 13 luglio 2015 su Poetarum Silva, qui

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