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Terra natia e linguaggio: il plurilinguismo di visioni, volti, voci nella scrittura di Herta Müller
Ho visto penzoloni bestiacuore
logora e fiacca, pulsa e poi espelle.
La lingua raspa e razzola tra i resti,
a divinare scambia fondo e cima.
(Anna Maria Curci)
Heimat, terra natia, è un concetto al quale la Storia ha donato, tra uso e manipolazioni, molteplici sfaccettature. «Heimat ist nicht die Sprache, sondern das Gesprochene», la terra natia non è la lingua, ma il linguaggio, ciò che viene parlato, replicava Herta Müller nel 2001 alla famosa affermazione di Thomas Mann, secondo la quale è la lingua la patria di ogni scrittore. Herta Müller, appartenente a una minoranza di lingua tedesca nel Banato, nella regione di Timisoara in Romania, si è confrontata, fin da piccola, con tre lingue, il rumeno, il dialetto degli “svevi del Banato” e il tedesco.
Una frase in Herztier, a p. 36 dell’edizione italiana (Cuoreanimale, traduzione di Margherita Carbonaro, Feltrinelli Editore 2021), è a tal proposito rivelatoria: «Il vento non sapeva fermarsi in piedi. Nella lingua della culla il vento si coricava sempre».
Proprio dall’espressione relativa al vento che si posa partono le considerazioni che Herta Müller ha affidato al saggio Wenn sich der Wind legt, bleibt er stehen oder Wie fremd wird die eigene Sprache beim Erlernen einer Fremdsprache[1](“Quando il vento si posa, resta fermo ovvero Quanto estranea/straniera diventa la propria lingua quando si apprende una lingua straniera”).
Ne riporto alcuni passaggi nella mia traduzione: «Nel dialetto del villaggio degli svevi del Banato, dove sono cresciuta, si diceva: Il vento va. (Der Wind geht). Nel tedesco standard, che si parlava a scuola, si diceva: Il vento spira (Der Wind weht). E questo per me che avevo allora sette anni mi suonava come se si facesse male. Nel rumeno, che allora cominciavo a imparare a scuola, si diceva: Il vento batte, vintul bate. Allora mi suonava come se facesse male ad altri. Altrettanto diverso quanto il soffiare del vento è il suo placarsi. In tedesco si dice: Der Wind hat sich gelegt, il vento si è posato, il vento si è coricato. In rumeno, invece: Il vento si è fermato in piedi, vintul a stat. Questo esempio del vento è soltanto una delle immagini costantemente diverse che tra due lingue si trovano ad esprimere lo stesso dato di fatto. Fra tutte le lingue si aprono immagini. Ogni frase è uno sguardo sulle cose modellato dai suoi parlanti, in un determinato modo e non in un’altra maniera.
Ogni lingua vede il mondo in maniera diversa, ha trovato tutto il suo vocabolario in maniera diversa attraverso questa visione differente – lo ha perfino intessuto in maniera diversa nella rete della propria grammatica. In ogni lingua siedono occhi diversi nei vocaboli.
[…] Ma oggi so che questo procedere un po’ alla volta, questo esitare[2] che mi obbligava a scendere sotto il livello del mio pensare, mi diede anche il tempo di guardare con stupore la trasformazione degli oggetti attraverso la lingua rumena. So che devo parlare di fortuna perché questo si è verificato. Quale sguardo diverso alla rondine, in tedesco Schwalbe, in rumeno rindunica, “che siede in fila. Quanto di più c’è rispetto alla parola tedesca: nel nome dell’oggetto si dice anche che le rondini siedono su file nere, una vicinissima all’altra sul filo. Quando ancora non conoscevo la parola in rumeno, le avevo viste così ogni estate al villaggio. Mi lasciava senza parole che la rondine potesse essere chiamata in un modo così bello. Capitò sempre più spesso che la lingua rumena avesse le parole più sensuali, più adatte al mio sentire rispetto alla mia lingua materna. [..] Nei miei libri non ho ancora scritto una sola frase in rumeno. Ovviamente, però, a scrivere insieme a me è sempre anche il rumeno, perché esso mi è cresciuto nello sguardo.
Non fa male a nessuna lingua, se le sue aleatorietà diventano visibili rispetto ad altre lingue. Al contrario, tenere la propria lingua dinanzi agli occhi di un’altra conduce a una relazione resa autentica fino in fondo, a un amore privo di tensioni. Non ho mai amato la mia lingua materna, perché è la migliore, ma perché è quella a me più familiare.
[…]
Anche nelle democrazie la lingua è un territorio politico tanto quanto nelle dittature. Qui come lì essa non dimora al di fuori della vita, qui come lì bisogna ascoltarla attentamente, per cogliere ciò che essa fa con le persone. Questo tuttavia è difficile da rendere in corsi di lingua, perché il cosiddetto “tedesco corretto” ostacola, più di quanto non chiarisca, il suo cambiare nella poesia. Vedo pertanto con dispiacere che i corsi di lingua al Goethe-Institut si siano nel frattempo allontanati moltissimo dalla letteratura»[3].
Si tratta a mio parere di un brano che illumina l’intreccio originale di elementi testuali ed elementi visivi nella scrittura di Herta Müller, anche in Herztier. Questo titolo che crea una parola prima non esistente nel vocabolario tedesco ha, a ben guardare, un’origine rumena, lingua nella quale “cuore” è inima e “animale” animal. Molto probabilmente questa parola fondamentale nel romanzo, concetto e presenza allo stesso tempo, visione alla quale Herta Müller dà voce, questa parola che in tedesco è diventata Herztier, “bestiacuore”, potrebbe essersi palesata alla percezione dell’autrice come “inimal”, fusione di cuore, inima, e animale, animal, tutta proveniente dalla lingua rumena.
Capacità di stupirsi, ma non idillio, né tantomeno vagheggiamento di una lingua perduta, di uno stato di innocenza. Piuttosto assunzione di responsabilità nei confronti del linguaggio, di ciò che viene detto così come di ciò che si tace, e consapevolezza che la lingua è “ladra”:
«Non mi fido della lingua. So bene, per esperienza personale, che essa, per farsi precisa, deve prendere sempre qualcosa che non le appartiene. Non so perché le immagini evocate dalla lingua siano così ladre, perché la similitudine più riuscita si appropri, con il furto, di qualità che non le spettano. La sorpresa nasce solo con l’invenzione e abbiamo continue prove che la vicinanza alla realtà inizia solo con la sorpresa inventata. Solo quando una percezione deruba l’altra, quando un oggetto si impossessa del materiale di un altro, per poi utilizzarlo – solo quando ciò che nel reale si esclude è diventato plausibile nella frase, la frase si può imporre alla realtà come realtà autonoma, come realtà in un certo modo fattasi parola, ma valida in quanto parola»[4].
Quello di Herta Müller è un plurilinguismo complesso e pensoso, allo stesso tempo molto espressivo e poetico nel senso di una creazione ricca e originale di visioni, volti, voci.
Anna Maria Curci
[1] In: Murnau, Manila, Minsk – 50 Jahre Goethe–Institut. München: C. H. Beck 2001, S. 111 – 114
[2] Herta Müller si riferisce all’esitazione nella scelta dei vocaboli in rumeno per lei che era arrivata in città dal villaggio dove parlavo il dialetto degli svevi del Banato e dove aveva appreso a scuola il tedesco standard (N.d.T.).
[3] Traduzione di Anna Maria Curci
[4] Herta Müller, dalla prima delle lezioni di letteratura tenute a Zurigo nel 2007, traduzione di Anna Maria Curci
Il romanzo Cuoreanimale di Herta Müller è stato presentato il 17 marzo 2024 da Cristina Polli e Anna Maria Curci nell’ambito dell’iniziativa Aperitivo con libro.