
Lea Barletti nel “Monologo della Buona Madre”. Foto di L. Onza
C’è una pièce teatrale, che ho voluto vedere a tutti i costi, la sera del 28 febbraio scorso, a Roma, al Teatro Torlonia. Sentivo che non volevo assolutamente mancare a quella serata, nonostante i dinieghi di più di una persona da me contattata perché la condividesse con me, nonostante la stanchezza e la preoccupazione circa quello che di lì a pochi giorni avremmo vissuto anche a Roma. Questa pièce è il Monologo della Buona Madre, testo di Lea Barletti, che ne è interprete sulla scena, produzione e regia di Lea Barletti e Werner Waas, musiche originali e Sound Design di Luca Canciello. Ho conosciuto Lea Barletti e Werner Waas nella scuola in cui insegno, l’Istituto Statale “Vincenzo Arangio Ruiz” di Roma. Lea e Werner hanno seguito per due anni di seguito miei studenti di quinta liceo linguistico per un laboratorio teatrale (un’opportunità straordinaria che abbiamo ricevuto come scuola che fa parte della rete internazionale Partnerschulen der Zukunft) che è rimasto vivo nella memoria della nostra scuola per la bellezza degli spunti e per l’impulso vivissimo dato alla “theatralische Sendung” (vocazione teatrale) dei partecipanti al laboratorio. Ho poi letto con passione e recensito per Poetarum Silva il bellissimo Libro dei dispersi e dei ritornati di Lea Barletti.
Con batticuore e la mia solita testardaggine vado dunque a teatro, da sola, attraversando la città, acquisto il biglietto, ignara che sarà l’ultimo della serie innumerevoli dei biglietti teatrali antecedenti l’era COVID-19, incontro la collega Marianna – con la quale sto condividendo ricerca-azione e formazione – e insieme ci sediamo in seconda fila, decise a non perderci un solo dettaglio del monologo che reciterà Lea.
Le luci si accendono su lei, seduta in cima a un alto soppalco, il volto reso bianchissimo dal trucco, una mimica facciale che muterà, assecondando, anticipando, facendo persino da contraltare – “controcanto terza o quinta sotto” – a ciò che la voce trasporta ed esplicita. Prima il silenzio scandito dalle lancette di un orologio, poi l’inizio, quell’inizio che ogni madre, soprattutto una Rabenmutter come me, ha inciso nella carne, nella pelle, nei nervi, nelle rughe, negli scatti: il senso di colpa-inadeguatezza-affanno. Come lo chiamo? Kafka, per il “padre di famiglia”, lo chiamava “Sorge“: cura-cruccio-assillo. E per le madri, come lo chiamiamo? In tedesco lo chiamerei Unzulänglichkeitsgefühl, il sentimento dell’inadeguatezza, il basso continuo dell’esistenza della “Buona Madre”. [Non ci arrivo, non ci arriverò mai. Se studio, non so cucinare, se svolgo coscienziosamente la mia professione, non saprò cucire un bottone, se faccio volontariato, trascuro il mio focolare domestico, se scrivo, rubo tempo alla famiglia, il mio consorte, lui sì che sa cucinare e che sta a casa quando arrivano le telefonate di mia zia che lo rimprovera, perché mi permette di stare sempre in giro (ipsa dixit) e quando, quando, dimmi quando passerò l’aspirapolvere per casa?]. Continua a leggere →