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Augusto Benemeglio, Acqua rotta

22 lunedì Ago 2016

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Anna Maria Curci, Anxa, Augusto Benemeglio, Gallipoli, Genazzano, Marie Luise Kaschnitz, Maurizio Nocera, Poesia, prosa, recensioni

acquarotta

Talvolta

Talvolta dorme pure il poeta
Il vecchio guastatore delle feste
Fino all’ultimo scudo ha pagato se stesso
Sprofondato nell’erba della pioggia di stelle
Sogno che cresce rapido gli avvolge come tela di ragno
Gli occhi che scrutano
Sulla sua mano che scrive
Si accoppiano farfalle
I suoi volatili da assalto blaterano come passeri
Il leggiadro Sempre-già-qui.

Marie Luise Kaschnitz
(traduzione di Anna Maria Curci)

Ci sono libri che sanno attendere il momento in cui saranno raccolti, accolti, accarezzati. Restano quieti e pur sempre vigili con il loro carico di domande, carico vissuto e sofferto, alieno dall’indaffarata distrazione quotidiana e grondante familiarità. Sanno che quella familiarità, miele nero e amaro del rimorso, farebbe comodo scansarla per volgersi all’immediato sfavillante. Sono certi, tuttavia, che il pensiero tornerà a loro, sorelle e fratelli non meno prossimi per il fatto di non essere consanguinei. Uno di questi libri è Acqua rotta. Il colore del vuoto di Augusto Benemeglio, edizioni «Anxa» 2015, che si è scelto l’alba insonne di questo 22 agosto 2016, giorno del compleanno del suo autore, per essere percorso e per dispiegare la sua polifonica prossimità. Scaturisce dal dolore di un duplice lutto, dalla perdita, nel giro di pochi mesi, del nipote Alessandro e del padre di lui, Alberto, fratello di Augusto. Prosa e versi si danno il cambio in un canto (composto da 67 parti, come precisa Maurizio Nocera nella bella prefazione, 67 come gli anni vissuti dal fratello Alberto) che nasce dal rimpianto e sparge amore, inciampa su radici, scivola tra i tumuli della necropoli di Cerveteri, si china su un letto d’ospedale, sorregge il corpo fraterno fatalmente fiaccato e anela risa perdute tra vigne e porti, tra Genazzano e Gallipoli, naviga – e ha il coraggio di farlo – su rotte antiche, additando, talvolta inaspettatamente, nuove confluenze. Così, tra la Puglia e il Lazio del nostro comune passato, tra i contadini e i venditori ambulanti, non trionfanti ma operosi antenati che condividiamo, eccola emergere quella solida, durevole confluenza, situata nella campagna di Genazzano: la nonna materna Luigia Maria Pia, detta Elisa, e la poetessa tedesca Marie Luise Kaschnitz. Si sono incontrate le due donne, si sono conosciute? Serbo questa domanda come una delle più preziose del carico di Acqua rotta e proseguo la navigazione, con una saldezza nuova che la lunga conversazione con il nostromo mi infonde.

©Anna Maria Curci
22 agosto 2016

*

Genazzano

Genazzano nella sera invernale
Nello zoccolo vitreo degli asini
Sull’erta della città rupestre
Come la cantò Marie Luise Kaschnitz
La poetessa tedesca che forse conobbe
Mia nonna, la giovane Elisa
Che andava alla fontana.

«Qui lavai la mia camicia di sposa
Qui lavai la mia camicia di morta».
Povera nonna con la faccia bianca
E la lunga treccia di capelli nerissimi
Distesa nell’acqua fredda della sera
Che torna nel vento di foglie dei platani
E le mani come due blocchi di ghiaccio.

Che sventura innamorarsi di un Augusto
sognatore e scioperato guardacaccia,
Proprio nel giorno della risurrezione.
Mia nonna giovinetta bella coi capelli corvini
Con la pelle chiara che respirava la rugiada
Con la mano stesa al frutto del melograno
Con lo splendore di uno sguardo che accendeva
Tutti i fanali di una cupa Genazzano…

E fu quello stesso spirito d’amore che ci salvò
Perché quando ami davvero non è più tua la vita
È un quadro pieno di lacrime tagli squarci ferite
cocci, ciottoli, frantumi, è questa la poesia vera,
Da povero Cristo che sta sempre lì appeso al palo
Infame della tortura, e non ci sarà mai nessuno
che salirà fino a te, per dirti semplicemente “grazie”.

Augusto Benemeglio
da Acqua rotta. Il colore del vuoto, p. 48

Nuova Via Crucis in metropolitana, di Paolo Ricciardi. Lettura di Augusto Benemeglio

22 martedì Mar 2016

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Acilia, Augusto Benemeglio, Carmelo Bene, Colosseo, Dino Campana, Emily Dickinson, Garbatella, Linea B metropolitana, Nanni Moretti, Paolo Ricciardi, Roma, Via Crucis

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Paolo Ricciardi, Nuova Via Crucis in metropolitana

Lettura di Augusto Benemeglio

  1. Emily Dickinson.

È un libretto di 36 pagine, più le 4 di copertina, non di più, note comprese, dove si annidano, come ama dire Fabrizio Centofanti,  sempre delle verità nascoste, o delle vere e proprie perle, come l’«io credo, io spero, io amo» di don Mario Torregrossa, l’omelia sulla Madonna di San Bernardo («seguendo lei non puoi smarrirtiۚ») , o i versi di Emily Dickinson: «Come se il mare separandosi/svelasse un altro mare,/ questo un altro, ed i tre/ solo il presagio fossero/ d’un infinito di mari/ non visitati da riva / – il mare stesso al mare fosse riva – / questo è  l’eternità». A prima vista ti dà l’idea del classico opuscolo “devozionale” che ha preso il posto dei santini di una volta. Lo prendi, lo sfogli, lo leggi, così, un po’ per curiosità, e per passare un po’ di tempo lungo il tragitto, che percorri ogni giorno,  sulla Roma-Lido, una vera e propria Via Crucis. E invece no. Se tu lo leggi sul serio, questo libretto, non trovi magari l’America del Karl Rossman kafkiano, che hanno dirottato (teatralmente) anche su questi itinerari, ma puoi trovare le chiavi per entrare in altri spazi, in altri lidi, in altri cuori, in altri mondi, chissà, magari le “chiavi del tuo paradiso”. Sto parlando della NUOVA VIA CRUCIS IN METROPOLITANA di don Paolo Ricciardi, il parroco di San Carlo da Sezze, fermata Acilia, zona sud di Roma, linea B della metro, che porta al mare, che, mescolato al sole, è forse l’eternità. Lo disse perfino uno come  Rimbaud, quando vide il mare per la prima volta.

  1. Carmelo Bene

Questa Via Crucis Paolo Ricciardi  l’ha dedicata a Papa Francesco, «pellegrino verso le periferie del mondo, nel terzo anniversario della sua elezione», ma anche a tutte le comunità parrocchiali in cui è stato, e – soprattutto –a tutti coloro che viaggiano  sulla linea B. Allora gli ho detto, Don Paolo, andiamoci insieme sulla metro, con un gruppo di ragazzi, e leggiamola questa via Crucis, fermata per fermata, dalla prima stazione (Gesù è condannato a morte, guarda caso proprio al “Colosseo”), fino alla Resurrezione (Stella Polare); sorride , un po’ ironico e un po’ perplesso. Gli dico, a suo tempo l’ha fatto uno come Carmelo Bene, mi risponde, Lo so. Anche quella era una sorta di via Crucis, una processione laica, ma ci si sentiva tutti un po’ cretini noi spettatori. Tutti dietro ad un pifferaio magico, con la voce da. tamburo-flauto , e una fascia sulla fronte, alla McEnroe. Ma noi non recitiamo, dico. Noi leggiamo a voce alta le “tue” stazioni, a partire dal Colosseo: «L’impero di Roma s’intreccia/a quel lembo di terra lontana/in cui visse quel giovane Uomo/ Pilato si trova … a rappresentare il mondo di sempre/ prestato al potere/ e s’incontra con Chi, Onnipotente, scegli di amare/  L’uomo, ogni uomo,   passato, presente, futuro, / condanna il Dio della Vita…alla morte …/ Ma il cuore in rovina si vuole destare/ e ricerca, incosciente,/ una vita che sappia di Eterno».

  1. Dino Campana

Ricordo anch’io, quella volta , i segni del cerone sotto gli occhi bovini  del grande Istrione, e un microfono, con una luce di fosforo addosso. Leggeva i Canti Orfici di Campana, che gli si adattavano benissimo, con la sua visività enfatica, le sue allucinazioni, la fantasia onirica,  che amplifica e trasfigura e, soprattutto, con quella componente fonico-musicale, ossessivamente ripetuta, che si fa voce ingorgo ed eco di flauti. Quei versi erano come il frullare di ali di un uccello tenuto in gabbia per quasi tutta una vita, un uccello incapace di volare…Ora siamo alla Piramide , alla terza stazione, a Gesù che cade per la prima volta. «È un crocevia /di macchine, moto, persone, /povera gente/ di tutte le razze». Forse la parola che ora tu ascolti, al di là delle interferenze, al di là delle distorsioni volute di quella voce eidetica, che assume in sé, oltre ai significati e ai significanti, anche il più vasto repertorio della gestualità,  tu – onestamente – non riesci a capire quasi più niente dei versi o della prosa di Campana, se non un vago suono musicale, un’eco. Quello che ti rimane è un’esitazione tra un suono e un senso.

  1. Nanni Moretti

Siamo alla quarta stazione, alla Garbatella, prediletta da Nanni Moretti, (L’unica cosa  che mi  piace fare è guardare le case e devo dire che il quartiere di Roma che più m’è piaciuto è la Garbatella, perché c’è vita autentica), dove Gesù incontra la Madre. «Mi immagino ancora le mamme/che chiamano i figli dall’alto,/mani dischiuse e finestre, odori di cibo,/ di pane, di pizza, di panni distesi,/ la semplice vita di gente che vuol camminare/ malgrado le prove:/ Atti d’amore minimi o immensi/convivono insieme con atti violenti, /piccoli o infami di vita “malata”/ Garbatella è il nome di ogni paese del mondo. /E in ogni paese del mondo/Gesù incontra sua madre»…. La voce di Carmelo si fa eclisse, s’oscura, poi traccia figure sonore, traiettorie, sponde di biliardo, medium tra il corpo dell’attore e lo sguardo dello spettatore. Il suo teatro accerchia quel punto fosforico che Artaud chiamava la Parola prima delle parole. Ormai nessuno di noi capisce più nulla di ciò che dice l’attore, e ci siamo perfino dimenticati di chi siano i versi che sta recitando. Ma siamo sicuri, poi, che siano versi?

  1. Acilia

Intanto noi andiamo avanti. Siamo a Marconi, dove la Veronica asciuga il Volto di Gesù: «…una donna ./ Emerge , tra tanti, col panno,/ nel gesto d’amore/ d’imprimere un soffio al Signore…//Di togliergli il sangue,/le spine,/ le lacrime, tante, / versate sul viso e sul cuore».  Proseguiamo fino a Tor di Valle, dove Gesù incontra le donne di Gerusalemme.  «La stazione ippica che “ richiama i cavalli, i fantini, /la gente  che ha vinto e perduto le scommesse/ A questo incrocio di corse-rotaia e galoppo – / Gesù va sempre più piano/ Era entrato trionfante,/ma in groppa a un asino lento,/nel segno di un umile regno//…Le donne che sono qui dentro, in questo vagone,/mi sembrano piene di vuoti./Mancanze di tempo, d’amore, di affetti….». Siamo arrivati ad Acilia, undicesima stazione, dove Gesù è Crocifisso: «Acilia, Palocco, Axa, Infernetto/,sono tante realtà diverse ed  uguali,/ cosparse di verde, con strade bucate, vicoli, viali/ realtà popolari e villette con cani guardiani/ E impianti sportivi, industrie, mercati…/Gesù  è crocifisso tra tutto il trambusto/ di questi quartieri svuotati di giorno/ e pieni soltanto di tramonto/ La croce si innalza per dare valore a questo viavai, / dar senso e colore al buio dell’uomo/ e riempirlo di nuovo d’amore».

  1. La parola

Leggere, per Bene,  questo nostalgico dell’impossibile, è un modo per dimenticare, leggere è una forma dell’oblio; in fondo scrivere e leggere sono stretti in un unico gesto di sparizione.È una cosa bella scrivere, diciamo noialtri scriba per vocazione  o dannazione, però sarebbe meraviglioso che ogni tanto qualcuno riuscisse a leggere davvero una nostra pagina , una soltanto di tutte quelle migliaia e migliaia che scrivi, sarebbe bello vedere qualcuno che prende in mano , ad esempio, questo libretto di Paolo Ricciardi  e pronunciasse a voce alta  la parola che coglie a Ostia Antica, dove Gesù muore in croce . Qui s’aggirava Agostino, «vicino a sua madre, discorreva di cose di Dio / E mentre parlava il discorso portava a passare / dai sensi terreni alla gioia dell’Essere stesso, / il Creatore del cielo, del sole, le stelle//…Quello sguardo di madre e di figlio mi tornano ora, / in questo momento in cui guardo la croce/ e lì sotto Maria».  L’istante in cui tu la pronunci la parola diventa viva, ma è come una fiamma che arde, che brucia; non puoi trattenere la pagina in cui è scritta, il foglio rapidamente si dissolve, sparisce, e tu non ricordi  più quello che c’era scritto, quello che tu stesso avevi scritto col tuo sangue. Ma in fondo era solo una vaga traccia sulla sabbia, un’ impressione, un’ombra, una scia di un ricordo, la sensazione  di scrivere  una poesia, o almeno un verso degno di questo nome.

  1. Poesia è rifare il mondo.

Siamo arrivati alla quattordicesima stazione, in cui Gesù è posto nel sepolcro. «Il viaggio, che  è quasi finito, /mi trova ferito da tanto silenzio/ Quante volte ho veduto morire persone,/ richiudere bare, veder lacrimare/ E sapere Gesù nel sepolcro, e così non vederlo, / è il dramma di chi, sconsolato,/ pensa soltanto che tutto è finito». Siamo alla  Stella Polare, alla Resurrezione. «Eccomi, sono arrivato. /Scendo alla “Stella Polare”, /ripieno di volti, di storie, persone/ Ogni giorno la via della Croce/ incrocia la via dolorosa dell’uomo. / E a ognuno vorrei dare coraggio, / infondere forza, / perché non c’è croce/ che non porti alla Vita/ come la foce si apre nel Mare».E ci rimane la sua voce, pacata, umile, modesta, (ringrazio mio fratello, scrittore, che mi ha rivisto e corretto il testo in alcuni punti) , ma non priva di ironia, ricca di sentimento e calore umano («ringrazio chi mi ha insegnato a viaggiare osservando fuori dal finestrino e dentro il cuore degli uomini») , la sua è una voce diversa, un suono che accade, un sussurro che grida e diventa il tutto, il resto è niente. È una scia , un’onda di risacca, un’eco, il mistero delle piccole cose che si fanno poesia, bellezza, rinascita.  «Manda signore ancora profeti,  uomini certi di Dio,  uomini  dal cuore in fiamme / E tu a parlare dai loro roveti sulle macerie delle nostre parole/  A dire ai poveri di sperare ancora / Anche le cose sono parole, scrigni di sillabe divine, dimora dell’essere / E voi, scribi del mistero, poeti di cui un solo verso fessura sull’infinito come il costato aperto di Cristo/ ci ricordate ad ogni istante che / Poesia è rifare il mondo».

Mentre ci accingiamo a scendere dalla metro percepiamo lo sguardo dei passeggeri volto su di noi, e vi scorgiamo qualcosa di  «benevolmente pietoso».

Roma, 17 marzo 2016

© Augusto Benemeglio

Augusto Benemeglio, La barba d’oro di Godot

02 lunedì Giu 2014

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Abele Longo, Annamaria Ferramosca, Augusto Benemeglio, Doris Emilia Bragagnini, Edizioni Divinafollia, Ivano Mugnaini, La barba d'oro di Godot, Villaggio Cultura - Pentatonic

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Augusto Benemeglio, La barba d’oro di Godot (Edizioni Divinafollia 2014)

Quando penso ad Augusto Benemeglio la prima associazione che mi viene alla mente è una scena dal teatro nel film Chiedimi se sono felice. I tre amici Aldo, Giovanni e Giacomo, tra battute, disavventure, comici malintesi e ‘trentini’ notturni a basket, tentano di allestire una versione propria, senz’altro originalissima, di Cyrano de Bergerac. Ecco, la scena del saluto iniziale tra Cristiano e Cyrano nella messinscena ben rende l’atmosfera – talvolta guascona, sempre piena di vita e attenta al dettaglio che ad altri sfugge – di serissimo gioco del teatro, ché dietro l’apparente caos, l’allegra o torva confusione, c’è un pensiero che tende al sistema e che è nutrito e reso consistente e durevole da passione e ricerca.  Qui al Villaggio Cultura–Pentatonic abbiamo avuto modo di conoscere Augusto Benemeglio come autore di originali – che lui ama chiamare “recital” – ricostruzioni delle vicende artistiche e biografiche di Federico Fellini,  Rocco Scotellaro,  Fabrizio De Andrè, come animatore dell’incontro sul brigantaggio nel Meridione; alcuni di noi hanno avuto modo di assistere, o perfino di partecipare, alle rappresentazioni del gruppo da lui creato presso il Teatro “Don Mario Torregrossa”. La passione che Augusto profonde in tutto quello che fa e organizza è grande e contagiosa.

Ora, in questo volume che presentiamo oggi, La  barba d’oro di Godot sono raccolti alcuni esempi della sua attività instancabile di lettore e di affabulatore. È giusto dunque, innanzitutto, introdurre alcuni dati della sua biografia, come ce li riporta Abele Longo nella sua prefazione a La barba d’oro di Godot.

«Conosciuto anche con il nome d’arte di Augusto Buono Libero, Augusto Benemeglio nasce a San Buono (Chieti) il 22 agosto 1943. Presto orfano di madre, vivrà a Roma con la nonna paterna mentre il padre, e a cui dedicherà il poemetto Ultimo tramonto in Sudafrica (2008), si trasferisce in Sudafrica. Si arruola in Marina e nel 1977 sbarca in quella che sarà la sua terra elettiva, il Salento, a Gallipoli, città di molti dei suoi libri, come il romanzo L’isola e il leone (1984) e la favola L’isola della luce (1992) [in realtà la prima stesura è del 1982, come ha precisato l’autore, a.m.c.], oltre che di lavori teatrali come La Santina di Gallipoli (1994).
Lavora come giornalista, per diverse riviste e per una televisione locale, e mette su una compagnia teatrale di attori non professionisti con la quale girerà in lungo e in largo la penisola salentina. Una volta in pensione, ritrova le sue origini romane trasferendosi ad Acilia, dove continua la sua fervida attività di scrittore e riprende la passione per il teatro, fondando il Gruppo Recital 2010. Un gruppo, come dice Augusto, nato dalla “fusione casuale e arbitraria di spregiatori della quiete, del fratello fuoco e della sorella televisione,” di gente assolutamente fuori “dalla mischia degli intellettuali”. Un gruppo che rispecchia lo spirito del suo fondatore, fuori dagli schemi, allergico alle correnti e alle etichette, profondo conoscitore delle debolezze umane e del ruolo consolatorio, e perciò prezioso, dell’arte.»

Il tratto, inconfondibile e anticonformista, che accompagna tutte le manifestazioni pubbliche e, per noi che proviamo riconoscenza per la sua amicizia, private di Augusto Benemeglio, si ritrova negli scritti raccolti qui. Mi piace metterne in evidenza tre aspetti: lo sguardo del lettore e affabulatore, che naviga con provata esperienza nelle acque comuni e altrui, si immerge, affonda le mani in materie affini e oscure; l’attenzione ai luoghi; il collegamento, agile e argomentato, alle grandi voci della letteratura in particolare e dell’arte in generale.

Augusto Benemeglio sa volgere uno sguardo attento ed esperto, si è detto, all’altro e all’altrui materia dei sogni. Non è uno sguardo distaccato, non disdegna l’empatia, ma è pur sempre lucido e sa rendere con enunciati chiari e significativi la sostanza di quei sogni,  le caratteristiche di ogni scrittura presa in esame. Scrive, ad esempio, di Narda Fattori:  «si dimostra una che non cerca consolazione e lacrime dalla poesia, ma piuttosto il destino della verità, per quanto dura e spietata possa essere. È un tipo che vuole andare avanti, approfondire, bruciarsi in questo gioco che diventa vita. Predilige tutto ciò che si fende, si spezza, che è rigido, duro, “virile”, pur nella sua stupenda femminilità»; e, ancora, di Pasquale Vitagliano, in un passaggio che ben mostra il talento di Augusto nell’evidenziare gli ‘universali’ della poesia: «E tuttavia rimane il mito che alla fine ci salva. È il mito della scrittura, l’utopia. Un sentiero difficile e doloroso da percorrere, ma che Pasquale ha voluto intraprendere con una certa determinazione. È un requiem senza tenebre, dove il cuore si fa cenere»; della poesia di Lorenzo Poggi afferma: «Una poesia che sembra presa dal Qoelet, il libro della Bibbia più enigmatico (e pericoloso) che ci sia. Mi ricorda l’ultima voce di un uomo che con la sua tristezza insanguinò il vento. E allora tutti gli angeli persero la vita. Fuorché uno, ferito, con le ali mozze. E quell’angelo divenne il poeta. Anche Lorenzo Poggi è un poeta dei nostri tempi, che vive il presente perpetuo nelle sue ossa e nell’anima, in mare aperto».

Degli autori presi in esame viene sempre sottolineato il legame con i luoghi d’origine e di adozione. Nel caso di Annamaria Ferramosca, ad esempio, è la capitale, terra d’adozione a rivestire un ruolo di primo piano: «Ma Annamaria è cittadina del mondo, soprattutto cittadina dell’Urbe: “è in Roma babelica/ che vivo immersa nella calca” e viaggia spesso in Metropolitana, che ricorda un po’ la Circolare rossa cardarelliana degli anni Quaranta. Anche lei guarda visi di uomini e donne, “Tra foglie e nuvole, a tratti / Eur, Magliana, San Paolo, mi dileguate /  quest’aria nera di gallerie romane, / siete ridenti, oggi, in abiti e parole…”».

Con Ivano Mugnaini, invece, è la nativa Viareggio a far sentire la propria voce: «Mugnaini è uno di Viareggio, che conosce bene l’arte delle maschere e delle sfilate dei carri carnascialeschi sul lungomare, il galoppo dell’onda sulla battigia invernale, coi suoi ossi di seppia, le statue scolpite dal vento e la danza del mare; uno che è “ancora” toscano e conosce l’arte della Lingua Italiana e della Parola, che è “l’unico strumento che media mondo e sentimento e, allora deve essere perfetta”. Se saliamo un poco più su, siamo già in altre terre, in culture diverse, di frontiera».

Infine gli accostamenti ai grandi della letteratura e dell’arte, in una visione d’insieme, dal respiro ampio e dalla vista acuta, dalla conoscenza profonda e dall’udito sensibile a rime, ritmi e timbri, dall’eloquio privo di falsi timori e, anche in questo, controcorrente. Non manca, in queste associazioni, il gesto teatrale. Eppure esso è sempre funzionale all’argomentazione, non è mai istrionica boutade, mai fine a se stesso.

Augusto Benemeglio legge insieme Doris Emilia Bragagnini ed Emily Dickinson: «Doris non cerca di abbellire se stessa, né adornare la propria spiritualità, si descrive com’è, come farebbe una Emily Dickinson dei nostri tempi […], e che tuttavia, pur rimanendo tappata nella sua stanza, senza voler incontrare nessuno, farebbe uso anche lei del computer, e magari si farebbe un blog tutto suo, come Doris, e cercherebbe dei contatti con altre persone sensibili, con i frequentatori di quel nulla infinito e misterioso che è la poesia».

Per Dominique Villa, che accosta a Mallarmé e a Lautréamont, Augusto Benemeglio scrive: A Dominique non avevo detto nulla di un vago accostamento con Novalis (il poeta è un puro acciaio duro come la selce), il poeta che flirta costantemente con la morte […] Questo precipitare mi rimanda a tanti poeti […]. Da Hölderlin, vagabondo per le strade del mondo, o chiuso come un pazzo […] nella torre sul fiume, a Baudelaire paralizzato, cieco da un occhio, che articola a fatica le labbra per dire con un filo di voce: “Bonjour Monsieur”; da Verlaine, tra i rifiuti di Parigi, che contende cicche ai barboni, alla Cvetaeva, coi capelli incollati dal sudore e dal fango, morta di fatica e di disperazione, che sale su una seggiola, getta una corda sopra una trave e s’impicca… a Esenin, che va a morire, senza più identità, né contadino, né borghese, in un bagno pubblico di Mosca, a Pavese, con il suo vizio assurdo[…]. E la poetessa sembra che sia lì, presente e lo descriva chirurgicamente prima del gesto ferale».

Anna Maria Curci

Villaggio Cultura – Pentatonic, 1° giugno 2014

Lorenzo Poggi e le simmetrie del perpetuo presente

28 sabato Dic 2013

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Augusto Benemeglio, Lorenzo Poggi, Poesia, recensioni

Lorenzo Poggi

Lorenzo Poggi

 

 

Lorenzo Poggi e le simmetrie del perpetuo presente 

 A cura di Augusto Benemeglio

1. Il Qoelet

C’è un tempo-orale/pieno di tuoni e fulmini/e c’è un tempo per il silenzio.
C’è anche il tempo dei pianti e dei sorrisi/sulla tela raffazzonata della vita. (Lorenzo Poggi)
Una poesia che sembra presa dal Qoelet, il libro della Bibbia più enigmatico ( e pericoloso) che ci sia. Mi ricorda l’ultima voce di un uomo che con la sua tristezza insanguinò il vento. E allora tutti gli angeli persero la vita. Fuorché uno, ferito, con le ali mozze. E quell’angelo divenne il poeta.

2. Poeta da web

Anche Lorenzo Poggi è un poeta dei nostri tempi, sempre in bilico tra l’ironia, la polemica, e la pietas, un poeta che vive le simmetrie del presente perpetuo nelle sue ossa e nell’anima, in mare aperto

– “Mi piacerebbe/ gettare a mare scialuppe d’ortiche/e lunghe scie/per aprire i sentieri di morte/che lastricano il fondo” .

Poeta da web, con dissonanze lessicali, che cerca vibrazioni liriche mediante la fantasia creativa, ma anche la lacerazione, il caos, l’assurdità, la contrazione, la concisione, insomma la struttura lirica ormai codificata della poesia moderna. E lo fa con tutte le sue interconnessioni, i deliri, le farneticazioni, i palpiti, gli enigmi, gli spazi sovrapposti, la velocità che si fa caduta perpetua, pietà sulle razze erranti di sofferenti cittadini aquilani devastati dal terremoto (“Ci sono macchie verdi/a marcire nel prato,/spazi uggiosi di riposi forzati/e campi al margine /brulicanti di scarpe avariate”).

3. Più reale del corpo che abiti

E poi gli smarrimenti, le solitudini, la goccia di sudore e il pensiero fulmineo che tende un ponte da sé stesso a te stesso, ed ecco il reale che si disfà , e l’irreale, il mediatico che si fa più reale del corpo che abiti, si ferma in mezza alla tua fronte, si fa tuono che percorre la pianura, luce che accende le pietre, sabbia e lago di memorie nude che rifanno il sentiero della tua vita (“Vestito di niente/m’impolvero nel vento/che passa /come sabbia tra le dita”). Lorenzo è uno che va diretto al cuore delle cose quando si tratta di denunciare, sferzare, con una satira dolorosa e amara : “Di vaghi dolori son piene le fosse,/ di pochi avanzi si nutre il destino,/di tutto a puttane son pieni gli spigoli,/di senza schermo non c’è niente di vero,/di voci ataviche è rimasto il colore,/di spot alla moda c’è rigurgito e vomito,/di senza tetto è colma la storia,/d’intelligenze vivaci s’imbellettano specchi,/di parole sprecate s’intrecciano arazzi,/di buona volontà è lastricato l’inferno,/di lingue biforcute ci son gare nei vicoli”.

4. La svolta in un castello romano.

Ma la pietra miliare del suo destino, a cui nessuno può sfuggire: sta in un angolo di strada qualsiasi, in pendio, dove c’è il segno dell’orologio del campanile, il segno della spezzata, il viale dei tigli del silenzio e della dimenticanza, in uno dei castelli romani più vieti, tra “Pizza Vino e Nannì, quando percorri la strada in bicicletta col tuo migliore amico e non sai che sprofondi negli abissi: “Mi aggredisce improvviso il ricordo/e senza difese lo accolgo./ Ritorna prepotente alla mente/la realtà orfana e incompiuta./Dovevamo invecchiare insieme/ con tanti progetti in cantiere./ Il nulla mi afferra di nuovo./ Rivedo il tuo volto sereno e beffardo/ come fosse uno scherzo voluto./Hai beffato la vita e la morte/ non finendo la vita/ non iniziando la morte./ Sei ovunque”.
Fino ad allora la poesia era stato un vago soffio di pagine e inchiostro azzurro, la trama rassegnata e nostalgica del dormiente chiamato ad altre cose da fare, ricordi di un liceale nei campi di girasoli di Roma,- Catullo, Ovidio, Lucrezio, i latini in genere, ma anche dei poeti greci (Pindaro su tutti, ma anche Saffo), tal altra ai moderni, a partire da Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, ai surrealisti, agli ermetici, soprattutto. Senza mai trascurare i poeti dialettali romaneschi classici, il Belli, Trilussa, Pascarella, Zanazzo, perché Lorenzo sente molto la sua romanità e la sua vena popolaresca spesso graffiante, satirica (“Oggi è tutto facile./ Hanno messo le rote puro ar cervello./ Ce s’ammazza pe nun sapè che fa./ Oppure s’ammazza pe nun sapè che fa”).
Ora, dopo la morte dell’amico, la poesia risale dalle radici, come una frattura tra linguaggio e idealità, tra volere e potere, tra aspirazione e fine. La poesia si fa scoglio, naufragio, annegamento, caduta, notte, inanità, tutte forme che stanno ad indicare il fallimento, e tuttavia su questo fallimento Lorenzo può esprimere se stesso e il senso originale della sua poesia che può e vuole toccare il suo tempo perpetuo, come una pagina di cronaca nera, attimo per attimo, respiro per respiro, guardando il tutto dal Grande Osservatorio del suo Cuore.

5. L’architettura dell’abbraccio.

La sua poesia diventa l’architettura dell’abbraccio: “Mi sporgo su rive di secoli/ da sponde fruscianti di girasoli anneriti,/muri incagliati su libri di storia,/prati che trattengono l’eco/ delle grida d’un porto interrato/ e scie ischeletrite di navi al museo”.
La poesia è come la spazio intorno a noi che rabbrividisce come un gran bacio per tutti e per nessuno, che può scaturire dalle tenebre come un enorme ventaglio di pace o di solitudine come disperazione. La poesia ora ritorna come lama brutale, sorriso seppellito, o beffardo, sogno di fumo acre e sterco di colombe, di muse o sirene stonate che ormai ”Aggiustano ombrelli… neri da temporale,/ infilano zeppe per ridare equilibrio,/mettono fine a fiammate improvvise,/ puliscono ugelli che non sanno cantare,/ rattoppano rosa una giornata normale”.
La sentina dell’anima è piena di materiale, poetico e impoetico, di parole brutali e volgari, di lacerazioni, il fiume della memoria trasporto tutto, immondezza, rito, istinto catrame e rischiaramenti, schegge di luce, ineffabile bellezza, distruzione. Tutto si deposita e ne esce trasfigurato. Ma spesso ti rendi conto che non è tua la volontà di guidare l’astronave del pensiero e della fantasia, c’è un altro “inquilino” dentro di te che fa i raccordi, traccia le linee e opera in un concerto di ambiguità espressiva che sfugge talora anche la tua comprensione.

6. L’incubo della storia

Tu sei solo uno strumento, o, peggio, un ciottolo, uno scarto della storia: “Tra i sassi firmati scoloriti dal tempo/s’adagia un percorso battuto dal vento./ Risuonano passi pesanti di storia/ ruote di legno e persone in colonna./ S’alza un canto come un lamento/dalle bocche cucite da fame e da freddo./S’invocano i santi, si accendono fuochi/le facce scavate, le occhiaie ormai secche./ Succedono cose più grosse di noi/ La storia da scrivere, le gesta dei grandi./Non siamo che scarti di pagine vuote/ come silenziosi frastuoni di niente”.
La storia è ancora quell’incubo da cui tutti cerchiamo di risvegliarci. È forse allora che ti accorgi che tutto, – anche l’assoluto – soffre d’isolamento nel mormorio delle sere di malinconia: “Son giunti venti da ovest a bussare sui vetri lacrime di pioggia /in questa stanza desolata./Al centro solo una scatola dalle maniglie dorate./Contiene gli ultimi raggi di sole rubati una sera di maggio,/muri screpolati da gerani e balconi in attesa d’un saluto”.

7. Cacciatore di attualità

Tutto quel che verrà a bussare ai tuoi vetri è occulto, magico luminoso e incerto, tutto diventa una gran parola chiara, un palpito di vocali, ma anche una trappola da cui non potrai più uscire, ormai sei entrato nei crepuscoli dell’inconscio e affronti il bello della diretta, là, in quel mondo mediatico di nodi aggrovigliati di luce, in quella vetrina di raffiche turchesi, topazi e pappagalli coloratissimi in fuga, da un trespolo all’altro, che arrivano al tuo balcone, al tuo profilo, sei taggato, non puoi sfuggire da facebook. Ed eccolo, Lorenzo Poggi, coi lampi dei suoi flashes irrelati scattati con quel suo clic invidiabile di “primo sguardo” di un presente perpetuo, in cui c’è un po’ di tutto, la navigazione su una foglia di fico insieme, la pioggia che non ti bagna, la goccia di fuoco, il mondo che comincia ogni giorno e le radici dello spazio della fantasia che non pesano più dell’alba e dei nostri corpi distesi nell’aria; c’è in lui insomma una distratta leggerezza e una saggezza autorevole, il fanciullo curioso e l’uomo che ha visto molte pianure, mari e monti, ma che continua ancora ad ardere senza bruciarsi.
Lorenzo è una sorta di cacciatore dell’ attualità delle cose, delle voci, dei sussurri e grida che stanno dentro di noi. E molti suoi versi sono basati sull’auscultazione della minima traccia iridescente del reale, sul filo di una tensione e di una partecipazione attiva ai fatti e agli accadimenti quotidiani, che trasfigura con la sua capacità linguistica e timbrica, che assume diversi registri stati d’animo e direzioni, dalla sinestesia alla deformazione, dalla dissonanza all’ossimoro, dall’ironia all’elegia, dalla satira alla malinconia.

8. Le nuvole e la risacca

È uno che sa usare diversi strumenti, ma quando si tratta di affondare il bisturi in una società e in una vita di cui spesso si perde il senso, non si fa di certo pregare, come nella lirica inedita Storie di varia umanità, scritta una sera del 29 aprile 2012 gridando alle stelle… “Scriverò tra lacrime/ di unghie affilate/ per strappare la carne/ dall’osso/ a cerchie d’amici di ventura/ Disorientare è la regola,/ mandare messaggi,/ riguadagnare innocenza/ battendo pirati e ladri di anime.// C’è poi chi grida alle stelle/pensando ai barattoli vuoti/ da prendere a calci/come i nemici,/come sé stesso”.
Quella di Lorenzo è una ricerca di luce frustrata che comunque si fa strada con il cominciamento, il basamento, la semente latente, la parola sulla punta delle dita, inaudita, inaudibile, intera, gravida, inetta, ad annunciare il dramma, la tragedia di un tempo senza sosta di “maree spiaggiate/con cadaveri a bordo”, “cancelli chiusi, ortiche”, da consegnare alla storia e tuttavia anche ad annunciare che la vita comunque è più forte della storia, di qualsiasi storia, ma quale vita? Vita degli agnelli sacrificali d’ogni tempo, vita da streghe bruciate sul rogo. Le foglie degli alberi che assurdamente continuano a rinascere o rimanere sempreverdi, la risacca, i giochi che fa la risacca tra i nostri piedi, e poi le nuvole, nuvole barocche o nuvole di Aristofane che siano, le nuvole sono lo stupore del mondo vanno da un capo all’altro del cielo in nessun punto in nessun luogo e tu sei sequestrato ancora dalla tua ombra e non ti arriva nè suono nè vibrazione, nessuno segnale, nessun commento…tuttavia c’è sempre quel presagio di speranza nella bellezza e nel divino disegno del creato, “una voce che è dentro il rumore del mare,/ il vento che fischia tra dune fiorite,/ le nubi che passano,/ il senso da dare alla vita che scorre,/ un ruscello che cupo diventa torrente,/un lenzuolo sbattuto nel primo mattino,/ grandi occhi sgranati alla ricerca del mondo”.

9. Nessun prodigio, solo sogni e realtà.

Che cos’è l’arte poetica? Guardare il fiume ch’è di tempo e acqua/e ricordare che anche il tempo è un fiume,/ sapere che ci perdiamo come il fiume/ e che passano i volti come l’acqua…convertire l’oltraggio empio degli anni in una musica, un rumore, un simbolo…parola di Jorge Luis Borges. E per Lorenzo Poggi,- nato a Roma il 21 marzo del 1943 e che a Roma tuttora vive, ama, osserva, fuma la pipa, fotografa, vive in transito, con passione, scrivendo liriche le più disparate e diverse per metro, stile, lingua, e non sa bene neppure lui perché, né sa dove vadano a finire; che non seleziona, non sceglie, fa tutto col ritmo del cuore,il tic tac, la diastole e la sistole; che è come un fiume che scorre senza sosta, implacabile, ineluttabile. Che cos’è la poesia? È … tutto, è la sua vita: la poesia lo fascia, lo attraversa, trascorre dentro di lui in una immobilità vertiginosa Ora spiga di fiamme, giardini d’ossa, storia e sculture d’aria, maree di legni erranti e onde luttuose. Così capita che un giorno dica: “Mi sono accorto/ di non sapere della risacca,/ di non sapere della forma delle nuvole/ e neanche dell’anima dei sassi”.
Questo è il poeta, un decifratore dell’anima delle cose, e per un vero poeta ogni cosa ogni fatto, ogni evento si fa poesia. Siamo alla conclusione, siamo alla fine del viaggio, il ritorno alla nostra Itaca. Si narra che Ulisse, stanco di prodigi, pianse d’amore nello scorgere Itaca, verde e umile. (Ora d’Itaca – come sappiamo – è rimasto uno scoglio arido, un cumulo di pietre ). L’arte è anch’essa un’Itaca che promette d’essere sempre verde d’eternità, ma non di prodigi. Di sogni e realtà: “Abbiamo raccolto i panni, / preparato il fagotto e chiuso la stanza,/ la torre d’avorio ingiallita dal tempo, il solito film senza una trama”.

Roma, 24 dicembre 2013
Augusto Benemeglio

Doris Emilia Bragagnini, Oltreverso. Il latte sulla porta

28 mercoledì Ago 2013

Posted by letteremigranti in Poesia, Recensioni

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Anna Maria Curci, Augusto Benemeglio, Doris Emilia Bragagnini, Oltreverso, Poesia, Rainer Maria Rilke, recensioni, Zona editore

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Doris Emilia Bragagnini, Oltreverso. Il latte sulla porta

Nota di lettura di Anna Maria Curci

Al tempo del “sale sparso”, nel “presente/onnipresente”, il verso oltreverso di Doris Emilia Bragagnini rivendica diritto di parola, traghetta in direzione di sponde solitarie, contrasta “clangore” e “fragore”.
Gli ultimi cinque versi del componimento di Rilke La pantera, riportati in esergo nella splendida traduzione di Leone Traverso, non lasciano dubbi sull’impresa:

Solo, a volte, su l’arida pupilla,

tacito, un velo si solleva; e irrompe
una immagine in essa; e via balena
lungo il silenzio delle membra tese,
per smorzarsi, veloce, in fondo al cuore.

Le immagini che irrompono sfuggono a chi le vorrebbe immote. Ribellione, pesca di frodo, “lampo al volo”, provvista “per giorni muti” reprimono le urla e si esprimono con “soffiosibilo”, respiro, sussurro, incuranti di scuole e accademie, ma ben consapevoli del gelo da scontare per la diserzione.
Ha un colore dominante la gamma cromatica del sottrarsi a “canoni e tranelli”: è il rosso, che si manifesta nella sua versione ‘classica’ e nelle varietà “scarlatto” e “purpureo”; “non l’azzurro”, dunque, di un anelito che si conosce già come impraticabile – e il “cielo di cobalto” è l’altro da sé – ma terra dell’esilio e segno del quotidiano rischiare senza rete alcuna. Non è un caso che nel componimento centrale, dichiarazione di poetica, espressione di volontà, il colore ricorra nella versione “rosso” e “scarlatto”:

In fondo al cerchio

voglio essere quell’attimo
in cui dico – sono il rosso –
in fondo al cerchio
è scarlatto che mi sale addosso
un istinto che precede
lo stupendo, inesplicato
uragano dentro agli occhi che
si specchiano a ritroso
mentre mordo questo labbro
a permettere il progetto
che – gattona – per la stanza

La voce è, allo stesso tempo e come recitano i titoli di due testi nella raccolta, “impalpabile” e “implacabile”, la pluralità è associata ai

Presagi di lupi

Presagi di pluralità
frammenti ossei
conficcano tormenti

Desideri di mutazione
follia, sogno dilagante
nota dilatata di plenilunio

Infrangibile nucleo
di scissione temporale
d’irrealtà negata. Amata

* * *

Rimescolare voglia e agonia
promulgare parole
che incidono lo sterno

la forma infierire dentro
martello di pensieri
giunge al cervello

Codici infranti
bottiglie della mente riaperte
salvavita disinnescati

gemito e gocce arroventate
a serrare voleri
di molecole mutanti

Offro la gola
vedo – sollevare di denti
ringhio sfugge alla caverna

La vittoria si fa sangue
e te ne vai ignaro
con l’antico passo obliquo.
Si sottrae al ritmo altrui, l’oltreverso, ma ha un suo passo sicuro:

Il passo

Se un galoppo
mi rosicchia il cuore
non è ferrando il passo
che mi salvi in corsa

tutto è “compreso”
infilato all’inizio
scandito a riprese
che vinco e che perdo

tra il male e l’agire
di questa grancassa
che ancora si osa
nel fare rumore

Rilke scriveva: “Solo, a volte…” e “a volte” capita che il passo sicuro, la voce consapevole della propria esiliata diversità, accedano alla libertà e la mostrino in una bellezza ignota ai più, “l’attigua”:

L’attigua

mi rimane a volte libera – l’attigua
per sola clemenza, indulgenza o sorpasso
che scorre, come suono di latta
bidone/rimbombo, percossa
da quanto nemmeno fraintendo

– insaputo –

non ho memoria di me, galleggia
nella mente una figura orizzontale
vedo i suoi capelli, morti
m’inabisso a testa emersa

 

_____________________________________________________

Doris Emilia Bragagnini, Oltreverso. Il latte sulla porta. Introduzione di Augusto Benemeglio, Zona editore, 2012

_______________________________________________________

© Anna Maria Curci, 7 aprile 2013. L’articolo è stato pubblicato sulla rivista “Periferie” (n. 66-67, Aprile-Settembre 2013), pp. 18-19

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