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Annamaria Ferramosca, Come si veste di luce il buio (su “Insorte” di Anna Maria Curci)

23 domenica Ott 2022

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Anna Maria Curci, Annamaria Ferramosca, Il Convivio, Insorte, Luigi Simonetta, Poesia, recensioni

In copertina: “Il borgo fantasma di Celleno” di Luigi Simonetta

Anna Maria Curci, Insorte, Il Convivio Editore, 2022

Lettura di Annamaria Ferramosca

Come si veste di luce il buio

 

Seguo l’indicazione che Anna Maria mi porte nella sua affettuosa dedica e “cammino  lungo i sentieri della poesia in/sorte”. Leggo e rileggo e qui tento di scriverne.  Impressioni che trasmetto attraversando queste pagine in punta di piedi, con gran timore e umiltà, sapendo della mia possibile incapacità di penetrare tutti i messaggi, tutte le metafore e le tante aree profonde di pensiero che Anna Maria dissemina nei versi. Ma ci provo, questa volta con una dose di curiosità raddoppiata, visto il titolo così inaspettato nella sua ambivalenza di senso: Insorte.
Come Giuseppe Manitta dichiara nella sua acuta nota in seconda di copertina, il doppio significato di questo termine è dato dal suo essere participio del verbo insorgere e insieme indicare di stare nella sorte, cioè nella casualità. Mi aspetto dunque di trovare nei testi senso di ribellione e rassegnazione – sempre vigile – alla imprevedibilità della vita, ma sono ansiosa di vederne le declinazioni personalissime che la poeta offre nei testi.
Nella prima delle tre sezioni già il titolo Tragedia e idillio richiama un contrasto che nei testi ispirati a personaggi mitici o della tragedia greca, come in Psyche, Creonte, Kore, Sfinge, sembrano chiedere con forza al mito di far cadere il velo ad ogni ambivalenza delle sue narrazioni. Analoga  richiesta è rivolta ad essenze della natura, come all’Elce, che ha nomi ambigui in due lingue, sospesi nel significato tra offerta di protezione e resistenza, tra rifugio e appiglio, o come al fiume Ciane, per il suo scorrere che è doppia metafora di sosta e ripartenza, addensare e rifluire. Più enigmatiche le richieste che l’autrice si porge / porge, sostando su versi di suoi amati autori come Yeats, Dagerman, Dickinson.
La seconda sezione dal titolo Quando tace il latrato si apre con la poesia eponima che rivela la nostra urgente necessità di silenzio, per porci in ascolto della immensa sofferenza umana, per poter accogliere svelamenti che possono rischiarare il disordine compatto che circonda, definizione ossimorica del mondo, che è caos e pure densa verità celata nel disordine. Seguono testi in distici di grande suggestione, che hanno andamento come di profezie pìtiche, assiomi fieri su cui a lungo riflettere. Forte è l’invito a porsi in ascolto pure di note rivelatrici dalla musica, che la poeta trova nei suggestivi brani del Consorzio Suonatori Indipendenti.
Questa più robusta sezione contiene poesie che appaiono come soste del pensiero su temi essenziali e profondi, come Vigilia, testo sull’attesa della fine che, partendo dalla lettura di un brano poetico di Auden, dice degli attimi durante l’abbandono del corpo, mentre già giungono le voci dall’oltre. E Anna Maria con la sua estrema sensibilità lascia a chi legge la scelta di accogliere queste indicibili voci, che a ognuno parlano in diverse parole, e dunque dalla poeta sottaciute, o di ignorarle.
E qui pure si offrono testi dalla costruzione singolare, che prende l’avvio con una sospensione di senso per poi esplodere in fulminante chiarezza. Esemplare è il testo Nell’angolo del verde che concerta, in cui si parte dall’attesa della primavera tra piante e fiori in boccio, complessa metafora di tutto ciò che viene promesso senza termine e data, cosa che provoca orrore, ma che si apre improvvisamente alla consolazione, se la promessa ha a che fare con l’amore.
Non mancano gli strali, come in La loi quello lanciato sull’omologazione attuale e ovunque imperante, anche nel linguaggio, che rende chi si lascia omologare, servo truccato da padrone.
E nelle pagine successive prende il sopravvento la ribellione severa alla disumanità dilagante di ieri e oggi, e si rivela la sorprendente militanza civile di Anna Maria, che non smette di vigilare e denunciare storture e delitti, come la strage di Ustica o l’assassinio di padre Pino Puglisi.
A chiudere questa sezione è il testo Sottotraccia, che accanto all’amarezza per la violenza  e allo sberleffo lanciato a tutti i malversatori, definisce la necessità di una ostinata opposizione al male, soprattutto quello più subdolo e celato da un perbenismo di facciata. È un’esortazione che la poeta-docente di liceo ogni giorno trasmette ai suoi allievi, come fiero invito a guardare la realtà esercitando lo sguardo critico, non facendosi fuorviare dalla immaterialità virtuale e mai smettendo di praticare quell’attività che affina sensibilità e umanità, che è la lettura. Per cui l’esortazione Tolle, lege, che dà il nome all’ultima sezione, resta l’imperativo da seguire come universale strumento di salvezza.
Mi sento dunque di dire che questa parola poetica, così vicina a una sociologia della letteratura, afferma la sua irrevocabile necessità in questo nostro tempo di crisi. Del resto anche l’appassionato lavoro di poliedrica operatrice culturale che Anna Maria Curci compie sul territorio testimonia il suo costante dialogo con la collettività, il suo tenersi sempre lontana dall’ autoisolamento intellettualistico, frequente prassi di molti scriventi.
Centrale nella terza sezione appare la poesia dedicata a Hölderlin, dal titolo Scardanelli, pseudonimo che il grande poeta si diede nella seconda fase della sua vita creativa, trascorsa rinchiuso in una torre per 37 anni. Holderlin, disconoscendo la sua vita e opera precedente, scrisse le sue Poesie della torre con un tono altro e umilissimo, attendendo la fine; esempio luminoso di negazione di ogni aura autocelebrativa, testimonianza della consapevolezza dell’effimero che tutti siamo, e dell’attenzione doverosa al legame che sempre tutto tiene unito, dall’infimo all’altissimo.

Tutto è connesso,
scriveva in altra firma
un altro te sulla soglia del buio.

E commuove questa postura spontanea di un’autrice che mostra la sua tenace umile devozione ai grandi maestri della parola come per chiedere sostegno e conforto lungo la propria ricerca umana e creativa. Tensione che leggiamo nel successivo intenso testo E ogni giorno, in cui augura a tutti la bellezza di camminare a fianco e, sempre, il dovere della riconoscenza per ogni bene ricevuto. E su questa scia di pensiero l’anima altruista e profondamente cristiana di Anna Maria si lascia trasportare dicendo delle virtù della misericordia, dell’ascolto e della ricomposizione di ogni contrasto. Accanto a questi temi che costituiscono il fermo fondale della sua parola, la poeta continua nel suo giocoso metodo poetico-didattico, divertendosi a nascondere, lasciando tracce da seguire per scavare, approfondire, dilatare, indicando la via maestra della costante curiosità e dello studio, per non fermarsi alla superficie, per continuare a cercare e trovare Nel buio stella.
Siamo dunque invitati a leggere questi versi seguendo ritmo e incanto di curatissimi endecasillabi o di versi perfino di un solo termine, oppure disposti in distici, per sostenere ogni intensa sollecitazione che sempre giunge, portando a un’altezza impensabile di pensiero. Un pensiero che chiede condivisione e che promette quella serenità che inesorabilmente investe chi legge per l’immersione in cieli di inaspettata chiarezza.
E noi che leggiamo sempre confidiamo nella vigile e sognante trobadora-menestrella che cantando continua a farsi guida, vestendo di luce il buio.

Annamaria Ferramosca, ottobre 2022

 

 

Augusto Benemeglio, La barba d’oro di Godot

02 lunedì Giu 2014

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Abele Longo, Annamaria Ferramosca, Augusto Benemeglio, Doris Emilia Bragagnini, Edizioni Divinafollia, Ivano Mugnaini, La barba d'oro di Godot, Villaggio Cultura - Pentatonic

Benemeglio_copertina

Augusto Benemeglio, La barba d’oro di Godot (Edizioni Divinafollia 2014)

Quando penso ad Augusto Benemeglio la prima associazione che mi viene alla mente è una scena dal teatro nel film Chiedimi se sono felice. I tre amici Aldo, Giovanni e Giacomo, tra battute, disavventure, comici malintesi e ‘trentini’ notturni a basket, tentano di allestire una versione propria, senz’altro originalissima, di Cyrano de Bergerac. Ecco, la scena del saluto iniziale tra Cristiano e Cyrano nella messinscena ben rende l’atmosfera – talvolta guascona, sempre piena di vita e attenta al dettaglio che ad altri sfugge – di serissimo gioco del teatro, ché dietro l’apparente caos, l’allegra o torva confusione, c’è un pensiero che tende al sistema e che è nutrito e reso consistente e durevole da passione e ricerca.  Qui al Villaggio Cultura–Pentatonic abbiamo avuto modo di conoscere Augusto Benemeglio come autore di originali – che lui ama chiamare “recital” – ricostruzioni delle vicende artistiche e biografiche di Federico Fellini,  Rocco Scotellaro,  Fabrizio De Andrè, come animatore dell’incontro sul brigantaggio nel Meridione; alcuni di noi hanno avuto modo di assistere, o perfino di partecipare, alle rappresentazioni del gruppo da lui creato presso il Teatro “Don Mario Torregrossa”. La passione che Augusto profonde in tutto quello che fa e organizza è grande e contagiosa.

Ora, in questo volume che presentiamo oggi, La  barba d’oro di Godot sono raccolti alcuni esempi della sua attività instancabile di lettore e di affabulatore. È giusto dunque, innanzitutto, introdurre alcuni dati della sua biografia, come ce li riporta Abele Longo nella sua prefazione a La barba d’oro di Godot.

«Conosciuto anche con il nome d’arte di Augusto Buono Libero, Augusto Benemeglio nasce a San Buono (Chieti) il 22 agosto 1943. Presto orfano di madre, vivrà a Roma con la nonna paterna mentre il padre, e a cui dedicherà il poemetto Ultimo tramonto in Sudafrica (2008), si trasferisce in Sudafrica. Si arruola in Marina e nel 1977 sbarca in quella che sarà la sua terra elettiva, il Salento, a Gallipoli, città di molti dei suoi libri, come il romanzo L’isola e il leone (1984) e la favola L’isola della luce (1992) [in realtà la prima stesura è del 1982, come ha precisato l’autore, a.m.c.], oltre che di lavori teatrali come La Santina di Gallipoli (1994).
Lavora come giornalista, per diverse riviste e per una televisione locale, e mette su una compagnia teatrale di attori non professionisti con la quale girerà in lungo e in largo la penisola salentina. Una volta in pensione, ritrova le sue origini romane trasferendosi ad Acilia, dove continua la sua fervida attività di scrittore e riprende la passione per il teatro, fondando il Gruppo Recital 2010. Un gruppo, come dice Augusto, nato dalla “fusione casuale e arbitraria di spregiatori della quiete, del fratello fuoco e della sorella televisione,” di gente assolutamente fuori “dalla mischia degli intellettuali”. Un gruppo che rispecchia lo spirito del suo fondatore, fuori dagli schemi, allergico alle correnti e alle etichette, profondo conoscitore delle debolezze umane e del ruolo consolatorio, e perciò prezioso, dell’arte.»

Il tratto, inconfondibile e anticonformista, che accompagna tutte le manifestazioni pubbliche e, per noi che proviamo riconoscenza per la sua amicizia, private di Augusto Benemeglio, si ritrova negli scritti raccolti qui. Mi piace metterne in evidenza tre aspetti: lo sguardo del lettore e affabulatore, che naviga con provata esperienza nelle acque comuni e altrui, si immerge, affonda le mani in materie affini e oscure; l’attenzione ai luoghi; il collegamento, agile e argomentato, alle grandi voci della letteratura in particolare e dell’arte in generale.

Augusto Benemeglio sa volgere uno sguardo attento ed esperto, si è detto, all’altro e all’altrui materia dei sogni. Non è uno sguardo distaccato, non disdegna l’empatia, ma è pur sempre lucido e sa rendere con enunciati chiari e significativi la sostanza di quei sogni,  le caratteristiche di ogni scrittura presa in esame. Scrive, ad esempio, di Narda Fattori:  «si dimostra una che non cerca consolazione e lacrime dalla poesia, ma piuttosto il destino della verità, per quanto dura e spietata possa essere. È un tipo che vuole andare avanti, approfondire, bruciarsi in questo gioco che diventa vita. Predilige tutto ciò che si fende, si spezza, che è rigido, duro, “virile”, pur nella sua stupenda femminilità»; e, ancora, di Pasquale Vitagliano, in un passaggio che ben mostra il talento di Augusto nell’evidenziare gli ‘universali’ della poesia: «E tuttavia rimane il mito che alla fine ci salva. È il mito della scrittura, l’utopia. Un sentiero difficile e doloroso da percorrere, ma che Pasquale ha voluto intraprendere con una certa determinazione. È un requiem senza tenebre, dove il cuore si fa cenere»; della poesia di Lorenzo Poggi afferma: «Una poesia che sembra presa dal Qoelet, il libro della Bibbia più enigmatico (e pericoloso) che ci sia. Mi ricorda l’ultima voce di un uomo che con la sua tristezza insanguinò il vento. E allora tutti gli angeli persero la vita. Fuorché uno, ferito, con le ali mozze. E quell’angelo divenne il poeta. Anche Lorenzo Poggi è un poeta dei nostri tempi, che vive il presente perpetuo nelle sue ossa e nell’anima, in mare aperto».

Degli autori presi in esame viene sempre sottolineato il legame con i luoghi d’origine e di adozione. Nel caso di Annamaria Ferramosca, ad esempio, è la capitale, terra d’adozione a rivestire un ruolo di primo piano: «Ma Annamaria è cittadina del mondo, soprattutto cittadina dell’Urbe: “è in Roma babelica/ che vivo immersa nella calca” e viaggia spesso in Metropolitana, che ricorda un po’ la Circolare rossa cardarelliana degli anni Quaranta. Anche lei guarda visi di uomini e donne, “Tra foglie e nuvole, a tratti / Eur, Magliana, San Paolo, mi dileguate /  quest’aria nera di gallerie romane, / siete ridenti, oggi, in abiti e parole…”».

Con Ivano Mugnaini, invece, è la nativa Viareggio a far sentire la propria voce: «Mugnaini è uno di Viareggio, che conosce bene l’arte delle maschere e delle sfilate dei carri carnascialeschi sul lungomare, il galoppo dell’onda sulla battigia invernale, coi suoi ossi di seppia, le statue scolpite dal vento e la danza del mare; uno che è “ancora” toscano e conosce l’arte della Lingua Italiana e della Parola, che è “l’unico strumento che media mondo e sentimento e, allora deve essere perfetta”. Se saliamo un poco più su, siamo già in altre terre, in culture diverse, di frontiera».

Infine gli accostamenti ai grandi della letteratura e dell’arte, in una visione d’insieme, dal respiro ampio e dalla vista acuta, dalla conoscenza profonda e dall’udito sensibile a rime, ritmi e timbri, dall’eloquio privo di falsi timori e, anche in questo, controcorrente. Non manca, in queste associazioni, il gesto teatrale. Eppure esso è sempre funzionale all’argomentazione, non è mai istrionica boutade, mai fine a se stesso.

Augusto Benemeglio legge insieme Doris Emilia Bragagnini ed Emily Dickinson: «Doris non cerca di abbellire se stessa, né adornare la propria spiritualità, si descrive com’è, come farebbe una Emily Dickinson dei nostri tempi […], e che tuttavia, pur rimanendo tappata nella sua stanza, senza voler incontrare nessuno, farebbe uso anche lei del computer, e magari si farebbe un blog tutto suo, come Doris, e cercherebbe dei contatti con altre persone sensibili, con i frequentatori di quel nulla infinito e misterioso che è la poesia».

Per Dominique Villa, che accosta a Mallarmé e a Lautréamont, Augusto Benemeglio scrive: A Dominique non avevo detto nulla di un vago accostamento con Novalis (il poeta è un puro acciaio duro come la selce), il poeta che flirta costantemente con la morte […] Questo precipitare mi rimanda a tanti poeti […]. Da Hölderlin, vagabondo per le strade del mondo, o chiuso come un pazzo […] nella torre sul fiume, a Baudelaire paralizzato, cieco da un occhio, che articola a fatica le labbra per dire con un filo di voce: “Bonjour Monsieur”; da Verlaine, tra i rifiuti di Parigi, che contende cicche ai barboni, alla Cvetaeva, coi capelli incollati dal sudore e dal fango, morta di fatica e di disperazione, che sale su una seggiola, getta una corda sopra una trave e s’impicca… a Esenin, che va a morire, senza più identità, né contadino, né borghese, in un bagno pubblico di Mosca, a Pavese, con il suo vizio assurdo[…]. E la poetessa sembra che sia lì, presente e lo descriva chirurgicamente prima del gesto ferale».

Anna Maria Curci

Villaggio Cultura – Pentatonic, 1° giugno 2014

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