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Sonia Giovannetti legge Luoghi sospesi di Annamaria Ferramosca

 “Il poeta non teme il nulla”, scrive Maria Zambrano, perché egli “trae dall’umiliazione del non-essere  ciò che in esso geme, trae dal nulla il nulla stesso dandogli nome e volto”. A questa espressione sembrano fare eco le parole di Annamaria Ferramosca: “l’infinito accoglie te come il tutto e insieme il nulla”, mostrando come solo la poesia, che abita l’immaginazione cui tutto è permesso, riesca a portare  alla luce il dubbio – su di sé, sul mondo: esistiamo davvero? – e, insieme, una dolente  certezza: che tutto nel mondo sia vano, effimero, un “solido nulla”, per dirla con il Leopardi dello Zibaldone; vano, ma anche  terribile, talvolta crudele, più spesso insensato, come insegna la storia degli uomini. Altro che le “magnifiche sorti e progressive” irrise già anzitempo dal grande recanatese. In “Luoghi sospesi” la storia è infatti “brama di estinzione” attestata da “croci lager Hiroshima Vietnam” e preparatoria di un “feroceassurdo futuro”, che rende l’agire dell’uomo cieco e inadeguato al miracoloso ancorché misterioso equilibrio che governa la sovrastante madre Terra.
Ecco: la poesia dei “Luoghi sospesi” è una poetica del dubbio, dell’inadeguatezza a comprendere – “sono inadeguata, non afferro il senso” –, dell’interrogazione assillante sul senso della vita, inesplicabilmente “amaradolce”. Un senso che la ragione, recinto insufficiente, non può cogliere, perché essa non riesce a penetrare il mistero del caos in cui natura e vita si inscrivono. In questo mondo dionisiaco, governato da un “dio Pan che inebria del suo tutto…siamo tutti abitanti del caos”, sicché anche la scienza, dice la biologa Ferramosca, non può che arrendersi: “ho letto cento libri di scienza della vita”, e tuttavia la natura resta “arca inspiegata”.
Ma “Luoghi sospesi” è anche, forse soprattutto, una poetica dei contrasti.
Contrastato e ambivalente è il valore della parola: “riconosco e imparo il duro limite della parola…su cui s’infrange il grande mare euritmico”. Il limite della parola appare a tratti coincidere con il limite della ragione, entrambe incapaci di attingere l’autentico, di afferrare la “cosa” – natura, vita, nascita, morte, l’infinito, il nulla. La parola, dunque: cellula infeconda di una “dis-lingua che sa solo asserire” ma che “non penetra/ il nodo siliceo il chiaro di linfa/ non traduce/ la vena d’acqua che irriga la terra”. Altrove, però, a dispetto di simili rassegnate riflessioni – “perché …accumulare scorie sulle pagine?” –  la poetessa sembra invece non dimenticare la lezione di Platone, per il quale “la parola è come un seme gettato nell’anima”. Tant’è che – ella confessa – “scrivo perché resti dell’umano almeno un seme”; la parola è inoltre omaggiata, quando leggiamo dell’”estrema dignità delle parole”.  Le parole finiscono allora per risultare davvero preziose e fruttuose, se esse “creano anima” e la inducono ad ammettere “ogni volta rinasco se scrivo”!
C’è vita, dunque, malgrado tutto, nella parola poetica; in essa è anzi racchiusa la speranza che possa sfidare l’impenetrabilità del caos primordiale, assumendo su di sé, nel proprio segreto, le arcane sue fattezze, inconoscibili alla ragione. Al sommesso nichilismo della sfiducia nel potere teoretico del logos sembrano così associarsi, nei versi della raccolta, alcune suggestioni heideggeriane sul linguaggio (“Nessuna cosa è dove la parola, cioè il nome, manca. È la parola che procura l’essere alla cosa” sostiene il filosofo tedesco, opponendo all’impotenza della ragione metafisica la potenza euristica della lingua poetica). Suggestioni confermate d’altronde dal comune ripudio dell’illusione tecnologica: “in sogno m’insegue un drone…sa che verrà distrutto – così accade/ anche alle più superbe tecnologie”; “lui (il drone) mucchio di ferraglia/ sepolto nella sabbia”. E ancora: “nei vostri penosi emoticon…siete meno che nulla…nemmeno riuscite a emettere/ un solo bip di senso”.
Leggendo questi passaggi, tornano alla mente ancora una volta le parole di Maria Zambrano: “La cosa del poeta non è mai la cosa concettuale del pensiero, ma complessissima e reale, la cosa fantasmagorica e vagheggiata, quella inventata, quella che ci fu e quella che non ci sarà mai”. Per la nostra poetessa, infatti, la parola poetica, mossa com’è dal cuore – “ cuore mio cuorecos’hai da dirmi cuore?/ dimmi perd’io chi sono” –  e affrancata dai vincoli della ragion ragionante, si alimenta delle immagini ricorrenti del sogno e del mare – quei “mari ancora da navigare…le atlantidi ancora da far emergere” – fortemente evocative di quel “porto sepolto” di ungarettiana memoria, custode dell’”inesauribile segreto” della vita che solo la poesia, per illuminazione, può portare alla luce, proprio come “un lampo di luce mattutina” che interviene “a farci spalancare gli occhi”. È, infine, la parola poetica il solo scandaglio che può farci oltrepassare il triste, insensato spettacolo del mondo, osservato dal “perimetro banale della stanza”, per guidarci verso “gli spazi caldi della prenascita”, alla “previta”, quel luogo ancestrale da cui, nella notte dei tempi, tutto nasce e verso cui la poetessa ambisce insistentemente, nostalgicamente a tornare per resistere al degrado del “dopo”.
Malgrado le ambivalenze dei giudizi sulla parola, le antinomie che la riguardano paiono dunque risolversi in una sostanziale fiducia nel loro potere restituivo del senso delle cose, su cui la poetessa si interroga in ogni pagina della sua opera.
Contrastato è altresì il pensiero sull’amore. L’opera oscilla infatti tra espressioni di dolente scetticismo sulla sua esistenza: “era amore ogni volta un’illusione”amore/ effetto solare collaterale?” e di dolorosa frustrazione per la sua assenza: “amore oh rovinoso/ tsunami amore…/ amore che là fuori mai mi corrisponde/… (e che) non sa di non essere”, ma anche, per converso, di sofferto desiderio e struggente speranza di un suo manifestarsi: “con rabbiamore ti spingo contro il muro/…purché sia di senso densa la vita”. E ancora: “preferirei tu fossi lume/…di quel tempuscolo di grazia/che vorremmo…vivere/ stringendoci le mani occhi negli occhi”.
Tuttavia, la ripetuta evocazione del tema dell’amore nelle sue diverse declinazioni non è, come potrebbe superficialmente intendersi, la mera ricerca di una terapia al malessere della solitudine, né tantomeno l’assillante manifestazione di un naturale impulso psicobiologico che turba l’anima, quando frustrato. C’è molto di più e di diverso, in proposito, nelle pagine di “Luoghi sospesi”. L’amore è in primo luogo la ricerca di una identità e, insieme, una prova di esistenza: “io sono davvero?… ma chi sono”, si interroga ripetutamente l’autrice. Ma il suo smarrimento è anche l’indizio di un disagio profondo non solo personale, bensì di un malessere che riflette lo stato della condizione umana nel mondo moderno, afflitto da guerre e crudeltà di ogni tipo. Disastri che solo l’amore può sanare. Amore, dunque, come volontà di unione tra gli uomini: “ammettiamo pure che/… tutti abitano in me e io in tutti/ allora davvero diverremo tutti/ altissimi e umili/…e solo guardarci negli occhi/ ci farà insieme attraversare/ ogni deserto ogni oceano”. Come non ritrovare anche qui il Leopardi della “Ginestra”, il suo appello all’amicizia e alla solidarietà tra gli uomini per affrontare insieme le avversità della natura e della storia: “sentiamoci in cerchio/…tocchiamo la magnifica interazione/…ché se solo uno perde/ perdiamo tutti ma / sarà come vincere”!
L’amore come veicolo di comunicazione, come comunione affettiva tra gli individui, unica possibile medicina per i mali del mondo e della vita: “.l’amore scorre/ come plasma corpomenteparola” .
Infine: quale migliore omaggio alla Poesia di una poesia che continuamente si interroga, nei “Luoghi sospesi”, sul senso delle cose e del nostro essere al mondo, e che è mossa sì dal dubbio – eccelsa prerogativa della ragione umana e fonte di ogni vero progresso – senza però mai cedere all’epochè, alla sospensione inerte del giudizio, alla resa di fronte all’inesplicabile, al ritiro dalla vita. Il messaggio di quest’opera poetica è anzi l’opposto: il dubbio che la pervade è vibrante, è il senso della vita stessa nel suo incessante pulsare tra umori diversi e contrastanti, non è mai rinuncia a interrogarsi su “quel non so che visibile”, che odora di quell’infinito, essenza profonda e originaria della vita, che solo la poesia può svelare: per intuizione, per illuminazione. E anche quando vi leggiamo l’azzardo di una risposta, questa è a sua volta un interrogativo: “forse è nel sentire il senso?”.
Poesia sublime, che scuote amorevolmente cuore e mente, senza mai percuotere.

©Sonia Giovannetti

Annamaria Ferramosca, Luoghi sospesi. Nota di Elio Grasso, puntoacapo 2023