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Simone Zafferani, L’ora delle verità

Allora bisognò mettersi in ascolto,
trascrivere l’udibile in un gesto,
luminosamente fare

Leggo le poesie di Simone Zafferani con una sensazione di convivenza degli estremi. Ci sono versi che accecano, ma con maniere di gentilezza. Un senso di spalancamento, ma senza bufere, con un refolo di stampo educato. Provo un camminare quieto su un rivolo di sabbia ma con qualche improvviso strattone, come di vipera che si drizza dalle dune, tanto velenosa (e mai tossica) sa essere la bellezza dei suoi versi.
C’è un senso di nido che mi ha permesso di scivolare nelle poesie di Zafferani con confidenza nei loro smottamenti: in L’ora delle verità, edito da Pequod all’inizio di quest’anno, mi sembra di acciuffare l’eco tematica, ma anche ariosamente ritmica, di due poetesse da me molto amate, la Dickinson delle poesie più pacate (per quanto sempre in Dickinson si tratti di pacatezza che ribolle) e la Bre delle superne dolcezze di Le barricate misteriose. Immagino che questo sia perché, ancora convivenza degli estremi, la sua poesia sa essere estremamente naturale, pacata e aperta così come d’improvviso cosmica:

E dopo saremo anche noi
silenziosa matematica di luci
tutta fatta di segni e noi stessi segni di qualcosa
– diremo fulmine, pianoro, subsidenza
cambiando la causa con l’effetto.
Ci sopravvivrà la coscienza di quel sovvertimento
l’avere fatto a meno delle stelle
per orientarci nel buio del frattempo.
Saremo tutt’uno con la cosa precipitata
e adesso smetto di pensarlo,
lo so, non lo conosco.

La poesia è questione quasi sciamanica (Quel suono che ti inghiotte, / la musica dell’alba, / rifallo fino a che non ti sfinisce […] Ma tu resisti fino a dove / quel suono trova il nome che lo spezza / e senza compimento te lo rende) e sciamanici sono gli occhi con cui si osserva il mondo, e liturgico il modo (E tu stai lì in segreto a celebrare / l’ultima liturgia di questo mondo, / la sua più sostenibile finzione) di stare al suo interno, ma con un sacro che abbatte la separazione che ha in sé, finché l’osservare, il conoscere, il nominare, perfino il camminare sono l’operare con cui si abita e assieme si contribuisce all’esistere del mondo. E la metrica che non si concede mai bruschi strappi diventa ancora più dolce e più larga nella sezione Vite perpendicolari, sorta di Spoon River dei vivi: l’impiegato, il professore, il (se ho colto bene) prete, il contadino, il direttore d’orchestra che per accontentare un desiderio di sua madre intraprende il mestiere e si scopre “canale” attraverso il quale il molteplice si acquieta e permette “all’armonia di esistere trionfando”. E mentre questi ritratti hanno una loro narratività, è visione pura (anzi assoluta acustica) la successiva sezione, Piccola storia boschiva, nella torsione delle sue radici e nei fremiti delle piccole vite sconvolte da un suono. Se si può dire che ciò che è vita coincide con ciò che scambia informazioni in una comunità, questa sezione lo dice certamente come un piccolo capolavoro. Come piccoli capolavori sono alcune scelte di sintagmi (tra tutti, a Marilyn Monroe viene attribuita una “leggerezza esiziale”) e le cartoline da una Roma apocalittica e scura, dalle “albe lunari” e da un fiume “affatato” e dagli alberi caduti e dai passaggi segreti aperti a tutti che mutano chi li percorre dall’interno. Fino all’ultima sezione, Sul finire, un breve e malinconico canzoniere sulla fine e sulla permanenza di ciò che è stato.
Ho seguito il filo delle sezioni così come il suo autore le ha decise per conservare, da una certa distanza, quell’idea di respiro simile all’alternanza di concavi e convessi del Sant’Ivo alla Sapienza. Ho attraversato anch’io questo libro e “non sono uscito come ero entrato”. Come in un diorama, credo di aver pestato tante delle terre del mondo, e di averne avuto, assieme al poeta, cura.

Da questo pianto nasce il tuo futuro.
Lascialo andare ma tienilo con te.
Ti resti il distillato del dolore
per costruirci sopra un abitato.
Dei tuoi singhiozzi fai una collana.
Quello che ora ti appare irreparabile
visto da molto lontano nello spazio
è alchemicamente in sé perfetto.

Il tuo futuro qualcuno già lo vede
e mentre tu piangi lui stupisce.

 

©Giovanna Amato

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