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Francesca Del Moro, Gli obbedienti. Postfazione di Anna Maria Curci, Cicorivolta edizioni 2016
Una scelta di poesie e un estratto dalla postfazione
IV
transumando
rumore di porte del treno
che fischiano e chiudono
clang clang
scalpiccio di rapidi passi
che pestano pozze
ciaf ciaf
ecco i cappotti gli ombrelli
le borse le ore
tic tac
le ore le ore le ore
che inseguono svelte
le ore che spostano corpi
come lancette
*
XII
Aveva indubbiamente
dentro la testa china
un cervello ribelle.
*
XXI
Prima ancora della morte
l’aperitivo è ’a livella.
Bevete ora tutti insieme
e arditi vi gonfiate il petto,
scherzate pure con i capi
e li sfottete amabilmente.
Siete davvero tutti uguali,
sparate subito sui social
le belle foto conviviali.
L’ultima volta era ieri,
in un bel localino in centro.
Solo lo scorso lunedì
lei se n’è andata via piangendo,
l’invito è giunto martedì.
*
XXV
Ce l’hai fatta per fortuna
ad augurargli la buona notte,
gli hai rimboccato le coperte
e poi hai spento la luce.
“Per te sarà tutto diverso”
gli hai sussurrato prima di andare
come diceva sempre tuo padre.
*
XLI
Haiku-dilemma
Se invece l’arte
fosse l’oppio dell’occhio
che non sopporta?
*
XLVIII
Il saldatore appena assunto
e il muratore in pensione
discutevano in treno
di dignità sul lavoro,
di giustizia e rispetto.
Ed era tutto un proliferare
di prime persone,
plurale il vecchio
e singolare il giovane.
*
LIII
Oh gli indie-gnati
adepti di tuttology
loro lo sanno
cos’è il bello
loro hanno letto
questo e quello
e la cultura
non ce l’hanno
in cuore o in testa
ma al collo o al polso
come un gioiello.
Non hanno piazza
né rappresentanza
né un piccolo sogno,
gli basta darsi un po’
di gomito, lanciare
un’invettiva al giorno
e anticonformarsi
tutti in coro.
*
LXX
Dopo un film di Monicelli, tornando
Quella massa di cafoni
affamata, cenciosa e sporca
sembrava un’enorme famiglia
era capace di una lotta.
Erano quattordici le ore
che pesavano su di loro
mentre voi ne fate nove
anche se in busta sono otto.
Ti torna in mente quella volta
– oh molti anni or sono –
in cui l’impronunciabile parola
ti sfuggì di nascosto.
Quando hai parlato di sciopero
per qualche giorno stranamente
non hai avuto più nessuno
con cui prendere il caffè.
_________________________
Orchestrare le voci nell’era
del precario e dell’abnorme:
Gli obbedienti di Francesca Del Moro
Una colonna sonora attenta a cogliere e a trascrivere la condizione contemporanea, condizione che all’aggettivo ‘umana’ non può non applicare, gogna permanente, un prefisso: dis-umana, sub-umana, trans-umana, con buona dose di probabilità non oltre-umana. Una partitura che riporta, con precisione, tonalità, tempi e velocità di esecuzione, acuti, dissonanze, basso ostinato e pause; una partitura che non esita, inoltre, a manifestarsi in fogge inusuali. Poesia visiva, sonorità e architettura, contenuto scomodo e forma rigorosa che duettano, si completano.
Con questi enunciati proviamo ad avvicinarci a Gli obbedienti di Francesca Del Moro, opera che unisce compattezza e complessità. Si rischia l’osso del collo, nell’era del precario e dell’abnorme, a trattare una materia sfuggente, scivolosa, la sabbia mobile della grande illusione della libertà di espressione e la smisurata menzogna della flessibilità, e a tenere, al contempo, il punto della ‘norma’ metrica, a procedere sulle righe di un pentagramma, divenute oramai funi sottilissime, pressoché invisibili, sulle quali avanzare – ghigno del secolo della rete – senza rete. Francesca Del Moro è ben consapevole di questo rischio, che affronta ricorrendo a una grande varietà di forme e conservando, tuttavia, unitarietà al progetto che ha delineato e che persegue, consapevole dei mezzi espressivi, di tascapane, fardelli, zavorre, di riserve di fiato e, dunque, della temerarietà dell’opera-trasvolata, del libretto-salto in cui si è lanciata. Schiene curve, movimenti a scatti e trascinamenti manovrati, orbite inquietanti nella loro familiarità: ecco che l’espressionismo di Metropolis, il film di Fritz Lang, assume la sua voce ai tempi di “faccia-libro”.
[…]
Alla precisione ritmica va associato il rigore nella resa linguistica, che riproduce e, allo stesso tempo, irride l’uso, quando, come capita con desolante frequenza, esso è prova di colpevole sciatteria e di fraintendimento di fondo di funzione e natura della parola, non logos, ma vaniloquio, esibizione, sfoggio di forestierismi a braccetto con ottusità e ignoranza insormontabili perché non sussiste volontà condivisa di superare l’arretratezza profumata e fasciata di apparenza. La poesia XXII ne rappresenta un esempio di indubbia pregnanza, oltre che di divertente espressività: «Eccole le camicie bianche / giovani rampanti twitteggianti / bicoz ol de uorld lav Itali iu nou / ui ev de rinascimento en de pizza / bat ostriche a cena coi potenti».
[…]
Alla luce della sera di una giornata a ciclo continuo, iniziata nell’alba dal sapore metallico di una stazione per pendolari, proseguita a testa china nell’open space o con il viso fugacemente sottratto al grigio e rivolto al sole in una pausa quasi rubata, alla luce di questa sera, dunque, si delinea, chiaro e insopprimibile, l’intento della parola, gesto meditato, rivolta, testimonianza, strappo, critica, memoria.
Anna Maria Curci, gennaio 2016