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Banana Yoshimoto, Giappone, Haiku, Haruki Murakami, Kenzaburo Oe, Natsume Soseki, romanzi, Yasunari Kawabata
Perché i “giapponesi”?
Seduta sul tappetino della palestra, in attesa dell’istruttrice, leggo qualche pagina di Murakami. Una ragazza, mia compagna di corso, entra e saluta: «Anche a te piacciono i giapponesi?? Io ne vado matta. Li leggo tutti-»
Da quel giorno, ogni volta che ci incontriamo, è un continuo: «Hai visto l’ultimo di … ? Hai letto …?» e ci teniamo aggiornate sulle nostre rispettive scoperte … “giapponesi”.
Sì, ma perché questa specie di invasione sugli scaffali delle librerie e perché questa passione ha preso piede?
Un po’ tutti abbiamo iniziato la nostra esplorazione dell’Oriente con Banana Yoshimoto. All’inizio degli anni novanta, il suo Kitchen ci ha conquistato. Ci siamo appassionati e abbiamo cercato di leggerla tutta: i suoi libri uscivano di frequente e non erano mai pesanti, né come numero di pagine, né come stile.
Cosa c’è in quelle pagine di nuovo?
Intanto una leggerezza diffusa, fatta di scene prese dalla vita di tutti i giorni, stati d’animo sui quali velocemente si sorvola, il femminile: i racconti si susseguono ai racconti e, anche quando i temi trattati sono importanti e drammatici (in Sonno profondo, ad esempio) lei si muove al loro interno senza mai alzare la voce o i toni, innescando nel lettore emozioni forti, ma poco persistenti, emozioni che sembrano non lasciare traccia. Abbandoni, famiglie che si disgregano, la stessa morte diventano temi accessibili in modo spontaneo, tracce di vita che riconosciamo.
Alla fine degli anni novanta, prima Marsilio e poi Neri Pozza (2000) pubblicano Natsume Soseki. Lui ha un grande successo: il suo Sanshiro diventa uno dei romanzi più letti in Giappone e forse lo è ancora. Nelle sue pagine si contrappongono vecchio e nuovo. È più introspettivo di Banana, perciò ha una permanenza più elevata nella mente del lettore.
Cosa stiamo cercando? Perché li leggiamo? Sicuramente siamo alla ricerca di qualcosa di nuovo, di diverso. Ma forse cerchiamo anche senso della misura, proprietà di sintesi associata al dire tutto, tutto quello che è necessario dire. C’è desiderio di “esotico”, di qualcosa di diverso dai nostri grandi? Probabilmente sì: voglia di uscire dai nostri canoni, dal nostro dire.
Parlando degli ultimi trent’anni, cominciano a comparire in Italia i fumetti, i manga: nuove e accattivanti le immagini. Si discute sul significato educativo di questi fumetti e sull’impatto che hanno su bambini e adolescenti. E dopo aver letto i primi haiku, che vengono tradotti in italiano intorno al 1920 pur essendo nati moltissimi anni prima, abbiamo cominciato a scriverne, seguendo le rigide regole metriche[1].
Sicuramente c’è amore per la sintesi efficace, per poche parole, ma talmente secche e puntute da andare a segno. Anche i manga del resto vanno a segno e molti ci si appassionano. Si tratta di nuovi linguaggi che i lettori italiani faticano all’inizio a decodificare; lentamente però li fanno loro fino ad adottarli. Continua a leggere